ARTICOLO n. 39 / 2024

IMPARARE A SCRIVERE IN MODO NUOVO

Pubblichiamo un estratto da Vorrei essere qui (Mercurio) di M. John Harrison da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

I concetti, le idee, li odio. Avere un’idea non significa avere qualcosa da scrivere: avere qualcosa di cui scrivere significa avere qualcosa da scrivere.

Mai privilegiare la fabula. Va bene l’intreccio, ma la fabula è come l’agricoltura chimica.

Portare a conclusione è sbagliato. È tossico. Dedicati a un genere, se ti va, ma dalla posizione più esterna possibile.

Studiati tutto il formalismo hollywoodiano che riesci a reggere, così saprai che cosa non fare. Rompi le strutture, piuttosto che cercare di aggiornarle o affinarle. Non fare giochetti con le aspettative del lettore, mai. 

Al contrario, chiarisci con onestà, franchezza e linearità che non gli darai nulla di ciò che si aspetta. Non sempre ci riuscirai, perché è più difficile di quanto sembra. In fondo sei stato un lettore anche tu. A proposito, ultima cosa. Non sei più un lettore. Sei uno scrittore, quindi non cercare gratificazioni da lettore mentre ti dedichi alla scrittura. 

Non raccontarle mai a te stesso, le storie. Quella relazione romantica, per te, è finita. Da oggi in poi troverai soddisfazione altrove.

Cerca il modo di esprimerle, le cose, piuttosto che riassumerle in due parole per poi sorridere e uscire di scena come se appiccicare l’etichetta su una cosa bastasse a farci i conti per sempre. 

Per tutta la mia vita, la scrittura di genere ha insistito sulla scorrevolezza, specialmente nelle conversazioni riguardo a sé stessa, specialmente nei suoi incontri con la condotta e le percezioni umane, e specialmente se può lasciar intendere che il tentativo di riesprimere o riabilitare un ordinario evento umano non è che la ripetizione di un tropo. 

Se puoi, evita di usare la parola “tropo”, anche nell’intimità del tuo taccuino. La fatica di dire qualunque cosa è sempre la fatica di reinventare la ruota: di distinguere la descrizione di un’esperienza da tutte le altre descrizioni che potrebbero somigliarle. La scrittura di genere preferirebbe sempre che la vita non intralciasse una “bella storia”. 

I teorici della scrittura di genere si appellano alla predilezione per il tropo a scapito dell’esperienza per poter dichiarare banale qualunque argomento tranne il loro.

Comprensibile. Ma è un atteggiamento che tende alla “proscrizione”, piuttosto che alla scrittura. È sostanzialmente liquidatorio.

Mira a costruire uno spazio in cui il lettore si possa orientare soltanto con una specie di sonar emotivo. Intendo uno spazio che pone una distanza sufficiente a creare riverbero, che appare tanto lontano da poter essere sul piano astrale.

Lo spazio del libro necessita di essere grande, vuoto ma risonante, uno spazio in cui i personaggi nemmeno sanno di aver perso l’orientamento. Al suo interno è in corso una specie di invasione aliena o di azione hauntologica o chissà cos’altro, ma avviene a un grado o anche due di separazione. Lo spazio è carico, ma come lettore non sai dove scavare per attingere alle sue risorse; né sai completarlo.

Non sai a che cosa ti vincola il patto. Sarebbe più facile se pensassi

che i personaggi conoscono gli aspetti giusti di sé, invece è chiarissimo che no. Intanto ti tornano indietro gli ultrasuoni riflessi da strutture emotive enormi ma così lontane, lontanissime, che non riesci a distinguerle da affanni passeggeri leggeri come piume.

Una volta, mentre pranzavamo in un ristorante che non era granché (scelta che già di per sé la diceva lunga), un editor mi disse: «Dietro il tuo romanzo c’è una trama valida, il problema è che l’autore l’ha levata quasi tutta». Quell’osservazione così acuta mi sbalordì, ma poi capii che non voleva essere un complimento. 

Questo succedeva prima che entrassi in quella fase in cui gran parte della trama neanche la mettevo. Nel 1968 avevo già la nausea del ticchettio del metronomo strutturale, che teneva insieme la macchina narrativa e la spingeva in discesa verso Hollywood, in tutto ciò

che guardavo, ascoltavo e leggevo. 

È la solita vecchia storia del raccontare storie, è l’unica storia che ne traggo. Che profonda insoddisfazione, sentirmi promettere ogni volta una storia nuova e invece sentirmi raccontare la stessa.

In Justine di Lawrence Durrell (1957) lo scrittore Pursewarden sente che dovrà lasciare il suo prossimo libro «libero di sognare». Da un simile atto di rinuncia consegue la necessità che il testo sia anche «libero dall’onere della forma».

Qui sarebbe importante la rigidità della forma da cui il libro è stato liberato? Il contributo della forma persisterebbe come i resti di una civiltà scomparsa che, a chi attraversa il paesaggio del libro, offre una struttura e subito la nega?

Strutture rotte o crollate, strutture fai-da-te, pezzi di strutture inchiodate e imbullonate usando tecniche più e meno artificiose, strutture cocciute che non soltanto vanno oltre le aspettative ma sembrano anche non fare niente di conoscibile. Si sforzano, al contrario, di suggerire che se ne può trarre qualcosa di diverso, un diverso sistema descrittivo. Al quale sei convinto che si potrebbe accedere, se solo sapessi assemblare gli oggetti e le forme del testo a guisa di chiave. 

Anche il testo si aggrappa a questa convinzione, nonostante le bizzarrie che lo circondano. C’è una misura di motivazioni condivise minima ma sufficiente a tener viva la relazione, a continuare l’esplorazione del territorio.

Autore, lettore e testo si affannano a coprire le distanze che hanno costruito insieme, gesticolando, scocciati gli uni dagli altri eppure legati dall’idea che da tutto questo possa venir fuori qualcosa. I personaggi: porta in superficie il terrore profondo di questi personaggi, la cui vita si regge come una sottilissima membrana iridescente avvolta al nulla. Anzi, più che a un nulla, a tante altre sottilissime membrane iridescenti.

In questo senso, tutte le storie dovrebbero essere storie di fantasmi.

Un altro tipo di spazio è questo: la struttura della storia, nel momento in cui il lettore la affronta, potrebbe fare un effetto simile al ritrovamento di una serie di oggetti dentro un contenitore di materiali non catalogati, appartenuti a qualcun altro. Sfogli le carte, spolveri gli oggetti. Il momento in cui ti eri ripromesso di smettere è passato da un po’, ma nella stanza entra ancora luce. Anziché portare a una conclusione, la fine di ogni storia che fabbrichi cercherà di ricreare l’attimo in cui certi frammenti di prove – che in realtà potrebbero non essere prove – guizzano insieme e alludono alla possibilità di un pattern che peraltro potrebbe non esserci mai stato. Barlumi di significato emotivo che cambiano con la luce, incorniciati da nostalgie incerte. 

La sensazione fuggevole di capire o di non riuscire a capire stati emotivi che, peraltro, potresti esserti inventato. Lo scrittore mira non a diventare uno che esibisce oggetti trovati, ma piuttosto a non riuscire fino in fondo a farsi curatore di cose che potevano esserci, ma anche no. Ovviamente c’è dietro una politica. Che produce sempre, per definizione, la storia di uno o più fantasmi, se non un vera storia di fantasmi.

In questo tipo di struttura annodi un significato a ciascuna immagine sbiadita. Non scrivere neanche un evento, una conversazione, un paesaggio, una veduta dalla finestra sul retro di una scena, che non sia una metafora o non faccia parte di una metafora. Carica tutto il significato possibile su ogni componente che ha un significato. Non temere che si rovesci: produrrà comunque qualcosa di interessante.

Pensa con le emozioni. Tutti, specialmente nella scrittura di genere, pensano che la logica causale e razionale sia l’unica possibile. Non lo è, e produce narrativa tediosa, limitata, disfunzionale. Le metafore hanno una logica tutta loro. Per l’amor di Dio, dopo averle usate non spiegarle mai. 

Non lo so. Cerca solo di stare dentro a quello che fai. Oltraggia l’idea di narrazione oppure l’idea di personaggio, mai tutte e due insieme. 

Se oltraggi uno di questi sistemi di credenze, cioè che a) la storia è possibile, centrale e preziosa, oppure che b) il personaggio non è il prodotto, in continuo mutamento, di relazioni su un altro livello, ma qualcosa di fisso e affidabile quanto basta a generare un “movente”, il pubblico si limiterà a presupporre che sei un incompetente o un pazzo. 

Oltraggiali tutti due, invece, e i lettori balzeranno sul tetto con addosso una specie di vecchio pigiama o camicia da notte, a scampanare e avvertire questa cittadina del Texas: «Ha sbagliato! Ha sbagliato!», mentre cerchi di svignartela come un finto lottatore messicano su un cavallo rubato nella notte, uno che ha perso la scommessa contro di sé e contro il sistema che un tempo amava eccetera eccetera.

ARTICOLO n. 96 / 2024