ARTICOLO n. 67 / 2024
IL POPULISMO AL TEMPO DELL’EPISTEMOCRAZIA
intervista di Antonio sgobba
«Il populismo, più che un’etichetta per (mal)qualificare gli altri, è un segno generale del nostro tempo, una risorsa facile per fare politica nella nuova costellazione sociale e politica, che assume molte forme». Lo dice Daniel Innerarity, filosofo e sociologo spagnolo di cui Castelvecchi ha da poco pubblicato La società dell’ignoranza: Sapere e potere nell’epoca dell’incertezza (traduzione di Matteo Anastasio). In questo saggio Innerarity si occupa di una particolare forma di populismo, forse tra le più sottovalutate, quella che definisce «demagogia gnoseologica» o «populismo tecnocratico».
Antonio Sgobba: Partiamo da qui: che cos’è oggi il populismo tecnocratico?
Daniel Innerarity: La forma più comune di populismo è quella che si oppone alla tecnocrazia, ma ce n’è anche un’altra che alimenta nella società una fiducia cieca nella tecnologia, che si suppone abbia l’ultima parola anche nella soluzione di problemi che non sono esclusivamente tecnici.
A.S. Per questo lei parla di “epistemocrazia”.
D.I. Se è vero che gran parte dei nostri problemi richiedono una grande mobilitazione di conoscenze, quella che io chiamo epistemocrazia è la convinzione (peraltro non scientifica) che siano semplicemente problemi di conoscenza, che non abbiano altre dimensioni e che quindi possano essere risolti da scienziati ed esperti, o da politici che terrebbero conto solo dell’opinione di questi ultimi.
A.S. Lei scrive invece: «Non vi è dubbio che la scienza espanda il sapere, ma aumenta anche l’incertezza e l’ignoranza nella società». Come possiamo reagire a questo paradosso?
D.I. Ci sono due tipi di ignoranza che crescono più velocemente della scienza e che sono in gran parte causati da essa: quella dei rischi legati all’uso delle tecnologie e quella della crescente complessità del mondo.Possiamo dire che i nostri predecessori ne sapevano meno di noi, ma viviamo con maggiore preoccupazione il gap tra ciò che sappiamo e ciò che dovremmo sapere per affrontare i problemi che abbiamo di fronte. Questo divario spiega in gran parte il nostro atteggiamento ambiguo nei confronti della conoscenza, a volte ingenuamente speranzoso e a volte eccessivamente timoroso.
A.S. Invece lei scrive che l’ignoranza può essere anche una risorsa. In che senso?
D.I. Nel senso che il potere non è legittimato solo dalla conoscenza disponibile e accreditata, ma anche dall’ignoranza riconosciuta e comunicata in modo adeguato. Il Ministro della Salute tedesco della Merkel ha tenuto una conferenza stampa in cui ha saputo comunicare alla popolazione non solo le cose di cui erano certi nel bel mezzo della pandemia, ma ha anche elencato le incertezze che non erano state chiarite. In questo modo si è resa più affidabile che se avesse finto una certezza che non aveva e che avrebbe potuto erodere ulteriormente la sua autorità se la sua ignoranza fosse poi diventata evidente al pubblico.
A.S. Ci ritroviamo così a fare i conti allora con due paradossi: il sapere non sa, il potere non può. Quali sono le conseguenze di queste due debolezze?
D.I. Che invece di essere pensati come due momenti diversi o opposti del nostro processo decisionale, dovremmo metterli al servizio della soluzione dei problemi che dobbiamo affrontare. Il rapporto tra conoscenza e decisione è la grande sfida delle società contemporanee, una volta che siamo consapevoli dei limiti democratici del modello tecnocratico e dei limiti epistemici del modello decisionista, dei limiti della conoscenza e del potere considerati isolatamente.
A.S. Se viviamo in un società dell’ignoranza, che ruolo può avere l’istruzione in una società come questa?
D.I. In quella che ho definito la società dell’ignoranza è necessario sviluppare una cultura riflessiva dell’insicurezza. Ciò che non si conosce, la conoscenza insicura, le forme di conoscenza meramente plausibili e non scientifiche e l’ignoranza non devono essere considerate come fenomeni imperfetti, ma come risorse. Ci sono questioni in cui, in assenza di conoscenze certe e prive di rischi, è necessario sviluppare strategie cognitive per agire nell’incertezza. Bisogna imparare a muoversi in un ambiente che non è più caratterizzato da chiare relazioni di causa-effetto, ma sfocato e caotico».
A.S. In un ambiente così caratterizzato quale può essere il ruolo degli intellettuali?
D.I. La figura dell’intellettuale in politica è impallidita per varie ragioni, che hanno a che fare con le trasformazioni della società e anche con l’avanzamento e la specializzazione delle scienze, in particolare di quelle sociali. La divisione del lavoro e la specializzazione scientifica o la configurazione di una società di intelligenze distribuite non rendono superflue le panoramiche, ma rendono ridicola la superiorità dell’intellettuale che pontifica su questioni morali o politiche senza conoscere i principali dibattiti che si sono svolti tra gli scienziati sociali. Il prestigio degli intellettuali funziona se sono pochi e il sapere è scarso, ma si orizzontalizza e si condivide quando sono molti quelli che sanno e con visioni della realtà che non sempre coincidono e spesso si contraddicono. L’intellettuale oggi ha un rapporto meno verticale con la società, che non è una massa di incompetenti disinformati, e condivide l’autorità con un gran numero di specialisti di ogni tipo che sono più avanti di lui nella conoscenza esperta, così rilevante per il mondo complesso in cui viviamo.
A.S. Alla fine quale può essere una strategia efficace per raggiungere un equilibrio tra fiducia e diffidenza?
D.I. La fiducia è una relazione che sostituisce l’inaffidabilità delle cose (perché non ci sono prove o non è possibile la conoscenza di sé) con l’affidabilità delle persone. Il problema è che spesso non abbiamo prove sufficienti, non possiamo fidarci degli altri, ma nemmeno di noi stessi. La sfiducia negli altri ci protegge dall’inganno altrui, ma non ci restituisce alcuna certezza.