ARTICOLO n. 33 / 2023
Di Marina Viola
IL PEDIGREE DEL POLLO
Around The Table. Una serie americana in italiano
«È pronto!», urlo dalla sala. Dopo poco sento una porta aprirsi. È quella di Vera. «Puoi aiutare Andrea a scendere?», le chiedo quasi subito. Vera apre la porta della camera di suo fratello. La sento parlare. «Andrea, dài, vieni che è pronto. Stasera ci sono le bistecche impanate, quelle che tu chiami MAYO perché le mangi affogando ogni pezzo nella maionese. Dài, ti aiuto io. Andiamo ché poi la mamma si arrabbia…».
Con l’estrema e snervante lentezza che lo caratterizza, Andrea scende le scale tenendo in mano il suo iPad, che da tre mesi gli suona la stessa canzone: Enough To Be On Your Way, di James Taylor. Vera è già a tavola, si riempie il piatto con una bistecca impanata e degli spinaci. Ryan intanto sta tagliando la carne per Andrea. Io sono ancora in piedi: mi accorgo che chi ha apparecchiato ha dimenticato pane, acqua, maionese e il mio solito bicchiere di vino.
«Stasera si mangia tutto quello che vi mettete nel piatto, perché questa cena mi è costata come un viaggio a Parigi in business class. Buon appetito a tutti». Sono ancora sotto shock per la mia esperienza pomeridiana a Whole Foods, il supermercato dietro l’angolo che per correttezza nei confronti dei clienti, si dovrebbe chiamare Gioielleria Commestibile. Quasi ogni prodotto è biologico. Se ne compri uno, come dire, normale, le cassiere ti guardano malissimo, e ti insultano con lo sguardo: «Se sei povera, vai a fare la spesa da un’altra parte, stronza!».
Per arrivare al supermercato, dopo aver varcato la soglia, ho preso le scale mobili che portano alla sezione che vende fiori, piantine grasse e bigliettini per i compleanni. Davanti alle scale, sfoggiata come un quadro di Monet, l’ortofrutta, tutta bella in ordine. Ogni mela o arancia viene accarezzata con tenerezza, a volte spolverata bene e delicatamente appoggiata sulle altre per formare una specie di piramide; le verdure sorridono e invitano i clienti a posarle sui loro carrelli verdi, anche loro biologici. Ho comprato degli spinaci che mi hanno ringraziato per mezz’ora. Ho anche preso due limoni e tre mele. Il totale aveva già superato di gran lunga i quindici dollari. D’altronde, ai ragazzi piacciono le bistecche impanate e gli spinaci… Dopo la frutta e la verdura, ci si trova davanti alla pescheria, dove i pesci vengono ammazzati a botte di complimenti: «Vedrai che sarai buonissimo! Ti cucineranno con spezie fenomenali! Se fossi nato salmone, vorrei essere venduto qui anch’io, mangiato da tutta questa bella gente, che rispetta l’ambiente e che ha delle pentole da mille dollari l’una». Un po’ più in là, la macelleria. Mi sono avvicinata per chiedere un petto di pollo, e il macellaio mi ha raccontato con entusiasmo della stirpe di provenienza del povero pennuto: famiglia onesta, nata e cresciuta in campagna, libera di svolazzare nell’aia, libera di avere le proprie idee politiche e i propri sentimenti. Una stirpe nobile, insomma. Un chilo di pollo figo mi è costato ventun dollari. Con la voce un po’ tremolante da magone, il macellaio ha aggiunto che le uova, della stessa aia, erano dietro di me. «Costano un po’, ma la qualità è irraggiungibile». In effetti, otto dollari per una dozzina di uova possono essere giustificati solo se ci trovi dentro un tuorlo d’argento.
Mi ritrovo di fianco alla corsia delle creme di bellezza, dei saponi e delle vitamine. Lì non mi fermo dal 2004, e cioè da quando comprai uno shampoo senza guardare il prezzo e mi venne un mancamento. Finalmente sono di fronte al pane: metto due francesini in un sacchetto di carta. Dài, cosa vuoi che siano quattro dollari. Vado a cercare il pangrattato, e sono costretta a fare delle scelte importanti: biologico? Normale? Aromatizzato al rosmarino? E le briciole: piccole, un po’ più grandi, soffici o dure? Per paura degli sguardi violenti delle commesse, prendo quello biologico, briciole piccole, non aromatizzato. Costa tre dollari di più, ma almeno non vengo umiliata davanti a tutti. Mi serve anche il burro (otto dollari e cinquanta), l’olio (diciassette dollari e quarantanove centesimi) e una bottiglia di vino scarso, al modico prezzo di ventun dollari.
Quando la ricevuta della spesa viene sparata violentemente fuori dalla cassa, tutti noi veniamo colpiti da tremori incontrollabili, dalla mancanza di salivazione e dal dubbio di essere stati presi per il culo. Si prendono le scale mobili per scendere, si va in macchina e si piange. Neanche questa volta avremo i soldi per il cinema: andati tutti in spinaci e petti di pollo.
Per cui, quando un po’ più poveri ma felici, ci ritroviamo attorno al tavolo, se qualcuno si permette di dire frasi del tipo: non ho fame; do gli avanzi ai cani, non mi piacciono gli spinaci, io mi trasformo in Goldrake e spacco tutto.
Sono appena tornata da Milano, dove sono stata a casa di mia madre. Di fronte al palazzo c’è un supermercato, molto più piccolo di Whole Foods, anche perché si trova in Italia, dove le dimensioni sono a portata d’uomo. Sono andata a fare la spesa anche lì: uova, formaggio, yogurt, pasta, cioccolato Novi con nocciole (due tavolette, vino (Pecorino buono), due etti di salame Milano. Alla cassa, mentre aspetto, tiro fuori dal portafogli la carta di credito. La cassiera, di marcato accento milanese, fa un po’ di battute sulle tavolette di cioccolato che mi fanno ridere. «Sono venticinque euro», mi dice dopo avermi dato un sacchetto. «No, scusi, è impossibile!», a cui lei risponde: «Eh sì, ha comprato il vino più caro…», come a dire che costa tanto per quello.
Capisco che gli stipendi italiani e quelli statunitensi sono molto diversi, e che il costo della vita è direttamente proporzionato a questo fattore. Capisco poi che Whole Foods non è il tipico supermercato, ma quello dei fighetti o delle persone pigre come me, che non hanno voglia di prendere la macchina per andare a fare la spesa da un’altra parte. È ovvio che le aie americane hanno l’aria condizionata e i polli fanno massaggi e pedicure almeno due volte la settimana, mentre i poveri cristi italiani sono cresciuti in fattorie e vivono in modo semplice e onesto. Capisco tutto, ma mi sembra che il confronto fra il supermarket americano e quello italiano mostri senza ombra di dubbio che i prezzi di Whole Foods siano talmente esagerati da trasformarsi addirittura in un’ingiustizia etica e sociale.
Ogni quotidiano, italiano o americano, parla ogni giorno di salute: come invecchiare bene, come avere rapporti sessuali dopo la menopausa, come fare esercizio fisico una volta al mese. Ma il tema più importante è l’alimentazione. Spiegano che bisogna mangiare molta frutta, verdura e legumi, e meno carne o pane. Aggiungono che l’olio d’oliva, il latte magro, il pesce appena pescato e la dieta mediterranea siano necessari per una vita lunga e gioiosa. Negli ultimi anni, poi, si è aggiunta l’importanza di mangiare cibi biologici, non trattati con pesticidi.
Ma tutto ciò richiede un certo agio sociale: se il pesce fresco costa troppo, può essere acquistato soltanto da un ristretto gruppo di persone. Stessa cosa per quanto riguarda una mela, un grappolo d’uva, un’insalata, un petto di pollo biologici. Sono più sani, ma costano il doppio. Un cheeseburger da McDonalds costa due dollari e cinquanta; una mela biologica anche. Solo che il primo ammazza il fegato, ma sazia; la seconda fa bene, ma sazia per venti minuti. Nel 2013, in una zona povera di Detroit è stato aperto Whole Foods, che notoriamente ha prezzi molto alti. Fortunatamente, i manager del nuovo supermercato hanno capito che nessuno avrebbe fatto la spesa lì e dunque hanno abbassato considerevolmente i prezzi. Una storia a buon fine, ma talmente rara che attira l’attenzione dei mass media.
Ci sono principi che dovrebbero essere uguali per tutti, senza distinzione di genere, etnia o età. Mangiare sano è uno di questi. Negli Stati Uniti, le persone con la pelle di colore scuro sono discriminate anche per quanto riguarda l’alimentazione. La popolazione economicamente svantaggiata mangia cibo preconfezionato, frutta e verdura in lattina invece che fresca, cibi pieni di zuccheri e carboidrati perché ha poche scelte. Infatti sono loro che sviluppano diabete, obesità, ipertensione, e che hanno il colesterolo alle stelle. Noi, con i nostri bei branzini al forno e con la nostra verdurina, cresciuta solo per noi, siamo più sani perché possiamo permettercelo.
Questo fenomeno di discriminazione alimentare è molto studiato dai sociologi americani che lo chiamano food desert, il deserto del cibo. Il termine viene usato per descrivere zone per lo più rurali o ai margini delle città abitate da persone a basso reddito (per lo più minoranze) che non hanno accesso a supermercati perché sono a chilometri di distanza oppure vivono in zone in cui i prezzi sono troppo alti per le loro tasche. Di conseguenza, sono costretti a comprare il cibo nei negozietti che non vendono nulla di fresco, ma junk food (cibo spazzatura). Fortunatamente, ci sono sempre più iniziative volte a diminuire il più possibile il disagio che questo fenomeno causa.È strano pensare che fare la spesa possa diventare un atto discriminatorio, che spendere così tanto per beni di prima necessità significhi entrare in una macchina del male, che ripudiamo con forza. L’immagine che mi balza agli occhi è quella di un serpente che silenzioso si intrufola nella nostra vita e contribuisce ad aumentare ulteriormente il gap tra chi può e chi no. È facile dimenticare la realtà di persone che non conosciamo, perché nel nostro quotidiano non sono che numeri in uno studio statistico. Fa un po’ impressione, pensavo pulendo la cucina, che anche quando si fa la spesa ci si trovi coinvolti, anche inconsapevolmente, in una macchina sociale iniqua e terribile. Aveva ragione mia madre, quando ci diceva che tutto quello che facciamo anche senza accorgercene deve essere considerato un atto politico.