ARTICOLO n. 12 / 2022

IL MONDO DISCONNESSO

Se non si ha qualche separazione, non si ha neppure più né soggetto né oggetto di conoscenza;
non si ha più né utilità interna di conoscere né realtà esterna da conoscere.
Edgar Morin, La conoscenza della conoscenza

Il gioco del destino e della fantasia (2021) di Rysuke Hamaguchi è un film così astuto da mostrarsi leggero mentre maschera la propria profondità, così perfetto nel saper cancellare sotto un velo di minimale manifattura un vortice di interpretazioni. Nell’ultimo dei tre episodi di cui è composto, intitolato «Ancora una volta», si racconta di Natsuko, una giovane donna che partecipa a una rimpatriata di compagni di scuola con la speranza di rincontrare la vecchia fiamma dell’università. Non la trova, ma incontra invece su una scala mobile Ayo, casalinga frustrata con figlio che lei scambia per il suo antico amore. Comincia così un malinteso che porterà Ayo ad ospitare Natsuko a casa propria, fino al disvelamento dell’errore e alla messa in scena di un gioco di ruolo toccante (e disperato), nel quale entrambe le donne giocano a impersonare il ruolo del reciproco oggetto del desiderio.

Tutta costruita su lunghi e ipnotici dialoghi rohmeriani, questa storia mi ha lasciato l’amaro in bocca e scatenato parecchie riflessioni. Mentre i due precedenti capitoli del film sono ambientati nel presente, “Ancora una volta” si apre con un cartello che informa che la vicenda ha luogo in un tempo in cui un virus informatico ha provocato la diffusione dei dati informatici, causandone la perdita. Il mondo è tornato quindi pre-digitale e pre-informatico; le uniche forme di comunicazione rimaste sono la posta e il telegrafo.

Nel film però questo setting distopico quasi non si avverte; è tenuto con eleganza in sottofondo. La casalinga Ayo ordina per posta pacchi di blu-ray per il figlio perché i servizi di streaming sono fuori uso, ed è costretta a ricordare a memoria le mail private del marito (che flirta con un’altra) che il virus generatore di caos ha indirizzato a lei. Oltre a ciò, nella sceneggiatura non ci sono altre manifestazioni della catastrofe tecnica che è accaduta. Sembra quasi non avere importanza. Mi sono reso conto solo al momento dello scorrere dei titoli di coda di quanto quella che sembrava solo una cornice sia in realtà il vero motore del dramma.

Mi sono chiesto: che aspetto avrebbe davvero il Mondo Iperconnesso in cui viviamo se di colpo, per un guasto, un inconveniente o un attacco hacker, venisse di colpo a cessare per essere sostituito con il modello preesistente?

Non lo sappiamo per certo ma è sicuro che al momento l’iperconnessione ci garantisce una forma di conoscenza diversa da quella che l’uomo ha esperito fino a soltanto cinquant’anni fa. La rete e poi di conseguenza i social network hanno messo in connessione gli uomini e le informazioni degli uomini secondo modalità nuove. Ogni relazione è possibile, tutto è potenzialmente conosciuto. Tutto è totale.

Tutto è collegato, metaforicamente «in orizzontale», per lo meno, a scapito della verticalità e della profondità. Profondità che è comunque possibile: perché potenziale resta l’approfondimento, certo, ma inevitabilmente secondario, messo di fronte al godimento che l’orgasmo gnoseologico orizzontale ogni secondo ci dona.

Insomma, d’improvviso ci siamo conosciuti tutti, ci conosciamo tutti, le distanze geografiche si sono annullate, i segreti sono stati tutti rivelati, i templi profanati e aperti ai mercanti. Questo stato di chiarimento dell’oscurità e dell’ignoto e della sua sostituzione con una forma (per quanto parziale, veloce, approssimativa) di “noto”, ha appagato gli uomini come forse era mai successo prima nella Storia e gli ha ridisegnato attorno una nuova casa. Ci sentiamo così tutti quanti immersi in una sorta di nuova sicurezza, e ci pare di agire sempre dentro una grande bolla protettiva, buona e giusta. La democratizzazione delle tecnologie, il fatto che tutti possiamo permetterci uno smartphone che ci connette con il Mondo sempre, ci dà l’illusione di essere forti e completi; una completezza che arriva per l’appunto dalla sensazione di assoluto che la conoscenza dà. La tecnologia che iperconnette ha modificato la struttura dei nostri cervelli, i nostri brainframes, e ci sentiamo persi ogni volta che qualcosa mette in crisi o sospende per un attimo la nostra relazione totale col Mondo. Le patologie da perdita di connessione le conosciamo già abbastanza bene, sono già tutte qui, pronte ad accoglierci. L’acronimo F.O.M.O, ad esempio, viene dall’inglese «Fear of missing out» ovvero «paura di essere tagliati fuori», e indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto col cyber-mondo per paura di rimanere esclusi da qualsiasi avvenimento che ci offra un’opportunità di interazione sociale. La Nomofobia (dalla contrazione di «No-mobile phobia») si riferisce invece al terrore di rimanere senza telefono o senza connessione a internet. È considerata una dipendenza comportamentale: secondo il professore di psichiatria David Greenfield dell’Università del Connecticut l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Il livello di dopamina sale quindi ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare: ogni volta pensiamo che ci sia in serbo per noi qualcosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualcosa di piacevole, così si avrà l’impulso di controllare di continuo. È, dicono, lo stesso meccanismo che si attiva nel gioco d’azzardo.

Uno studio degli psicologi Shari P. Walsh e Katherine M. White intitolato Over-connected? A qualitative exploration of the relationship between Australian youth and their mobile phones già qualche anno fa cercava di indagare sull’attaccamento estremo al cellulare e sui relativi sintomi di dipendenza comportamentale. Sintomi quali salienza cognitiva, euforia, ma anche impotenza, cioè il sentirsi incapaci di fare determinate cose senza l’ausilio del proprio smartphone. La maggior parte dei ragazzi australiani aderenti allo studio riferiva di percepire, non potendo usare il cellulare, livelli di disagio personale elevati e di sentirsi «disconnessi dalle altre persone».

Abbiamo forse, nell’Era della Iperconnessione, di fatto amplificato e drogato un nostro naturale bisogno, quello di essere amati. Ci stiamo allontanando, in questo contesto di conoscenza totale dei dati e di collegamento a tutti e a tutto, dal concetto cristiano «ama il prossimo tuo». Lo abbiamo, pare, temporaneamente sostituito con un più approssimativo «cerca di essere amato». In un romanzo italiano poco conosciuto, Le venti giornate di Torino, Giorgio De Maria, racconta di notti di insonnia collettiva che tutti vogliono dimenticare e esseri giganteschi e mostruosi che si aggirano per la città. In questa Torino anni Settanta, come al solito grigia ed esoterica, De Maria però butta lì con nonchalance, dimostrando doti di veggente e anticipando il concetto di social network, l’esistenza di una biblioteca in cui non si trovano libri editi ma segretissimi diari dei cittadini, resi consultabili, disponibili per chiunque vi acceda, e voglia entrare così in contatto col privato degli altri.

In quei giorni in cui faceva paura uscire di casa e succedevano cose mostruose e innominabili gli autori dei privati diari sentirono il bisogno di entrare in contatto gli uni con gli altri – sembra volersi chiedere De Maria – perché non era più possibile sostenere la pesantezza del proprio esistere? Sostenerla in privato, senza poterla condividere? In altre parole, non era più possibile amarsi, sentirsi amati?

Il Mondo (non più) Iperconnesso evocato nell’episodio del film mi fa pensare anche al tempo. Penso ai social, dove tutto è conosciuto e conoscibile sempre, in una sorta di sospeso, superficiale eterno presente. Conoscendo i dati personali di tutti, divento amico di tutti, divento amico del mondo, e lo divento forever. Scrollo, swappo, e, questione di nanosecondi, sono aggiornato. Partecipo all’evoluzione del mondo, live, senza scatti, senza interruzioni. Non lo vedo invecchiare, invecchio semmai insieme a lui, ma non me ne rendo conto. C’è una canzone di Guccini che amo molto che si chiama «Ti ricordi quei giorni», in cui l’io cantante si rivolge a un amore di gioventù (forse il primo amore); questa persona viene chiamata in causa direttamente; il primo verso, rivolto a lei, è proprio «ti ricordi quei giorni?». Una domanda: ti ricordi quel determinato e ormai lontano periodo in cui abbiamo avuto un’esperienza insieme? L’io cantante, man mano che la canzone si dipana, non si ricorda la faccia o la voce di quella ragazza perduta nel tempo. Nel “mondo non social” in cui la canzone è scritta, Guccini non ricorda la faccia e la voce della fidanzata di tanto tempo prima, o ne ha un ricordo parziale, o assai poco compiuto, e di conseguenza trasfigura quell’esperienza. Ricostruisce, aggiunge. Viene attuato un passaggio dall’oggettività del reale a una sfera di sua soggettiva rappresentazione. E in questo caso, come nelle canzoni ben fatte, o nell’arte che passa alla Storia, si guadagna in potenziale patemico, densità lirica.

Nel Mondo non social di una volta, il tempo procedeva a scatti, e nel presente si riusciva a cogliere il senso del passato e quello del futuro. Il Mondo social di oggi presuppone un tempo indeclinabile, un’eternità, un presente bloccato.

È un po’ quello che Mihály Csíkszentmihályi definisce «stato di flow». Quando si è in questo stato, la persona si trova totalmente assorta in un’attività di suo gradimento in cui il tempo vola e azioni, pensieri e movimenti si succedono l’un l’altro senza fermarsi. Col flow siamo totalmente coinvolti nell’attività che stiamo realizzando e manteniamo un livello di concentrazione assoluto. Tuttavia, tale livello di assorbimento induce a uno stato di mancanza di autocoscienza in cui viene annullata la concezione egocentrica di sé come attore. Come effetto collaterale, lo stato di flow porta per l’appunto a una alterazione del tempo: passano le ore e non ce ne rendiamo conto.

Saremo mai in grado di gestire questo appagamento da iperconnessione, amministrare le nuove forme di conoscenza del mondo, governare l’incoscienza del tempo che passa, senza contraccolpi?

Tanti anni fa una ragazza, mentre ci stavamo lasciando, mi guardò terrorizzata negli occhi e con voce rotta mi disse: «non voglio perderti».

Mi abbracciò e poi scoppiò a piangere.

Più recentemente invece, per questioni di lavoro, ho fatto una ricerca su internet. Volevo capire che fine avesse fatto un ragazzo americano la cui famiglia mi aveva ospitato nel 1987 in occasione di uno scambio culturale organizzato dal mio liceo. Ero stato a casa sua in Virginia per circa un mese, e lui aveva fatto lo stesso a casa dei miei in Toscana. Nel mio ricordo, in un mondo non social, Charles Waters era un sedicenne allampanato, alto, secco come un chiodo, con l’apparecchio per i denti, la camicia di flanella e i capelli lunghi. Allegro, chiassoso, appassionato di Tom Petty, Van Halen e Steve Miller Band.

In rete ho ovviamente trovato decine di Charles Waters, ma all’inizio nulla che corrispondesse a quello che era il mio ricordo di lui. Poi, all’improvviso, su Linkedin, tombola. Non ci ho creduto subito, ma poi sì, «è lui» mi sono detto, «ho trovato il mio uomo». Ho scoperto che Charles vive adesso in Florida, ha fatto il college, e poi ha tentato la carriera militare. Platoon leader in Iraq, poi è tornato a casa ed è finito a fare prima il police officer a Tulsa e poi la guardia del corpo privata; adesso è capo del servizio di sicurezza di una ditta informatica a Miami. La foto sullo schermo ritrae un signore grasso, in giacca e cravatta, che sorride in maniera poco convinta. È completamente calvo o rasato a zero, non si capisce bene.

Ho cercato più di trent’anni dopo Charles Waters e l’ho trovato. Ma in un certo senso non è lui. Avrei forse dovuto invecchiare con lui, sarei dovuto rimanere in contatto con lui, avessimo avuto a disposizione nel 1987 un mondo social invece del primo disco dei Guns n’ Roses; avrei dovuto tenerlo sempre sott’occhio, rendere noto il suo ignoto, e così lui di me. Avremmo annullato la geografia, disintegrato il tempo. Io avrei capito quanto Charles i suoi genitori liberal li odiasse, e che il nonno, che mi parse subito un ignorante guerrafondaio repubblicano, fosse invece il suo idolo da sempre. Avrei capito che più che l’hard rock e il sesso gli interessasse fare a botte e sparare.

Oppure semplicemente, dovrei ricordare a me e insegnare a mia figlia che bisogna avere il coraggio di perdere, chiudere, lasciarsi alle spalle. Il coraggio di non trattenere per forza tutto quanto. E vivere anche nel dolore e nella morte, ebbene sì, e nel mistero che essi generano.

ARTICOLO n. 93 / 2024