ARTICOLO n. 50 / 2024
IL MITO DELL’ORGASMO PERFETTO
breve storia della clitoride
In una celebre scena di Palombella rossa, film del 1989 di Nanni Moretti, il protagonista Michele Apicella si ritrova a urlare “le parole sono importanti!” a una giornalista che, a bordo piscina, lo assedia con affermazioni retoriche e un lessico vuoto e fastidioso.
Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, l’attenzione al linguaggio costituisce un punto di osservazione imprescindibile, utile per comprendere i meccanismi che hanno dato vita a molte delle ingiunzioni intorno alla sessualità delle donne.
Nel volume Sesso, la docente Kate Lister osserva come esistano centinaia e centinaia di parole per riferirsi, in toni più o meno coloriti, agli organi genitali maschili e solo una manciata di termini per definire quelli femminili. Non solo: la maggioranza di questi lemmi descrivono vulva e vagina in ottica passiva, strumenti utili più per procurare piacere all’altro (il maschile è voluto) che non a chi quegli organi li possiede.
La quantità di parole a disposizione, l’accezione con cui sono impiegate e i significati cui alludono, quindi, non sono neutri, ma rimandano a uno specifico modo di intendere la sessualità. Assumendo questa prospettiva è facile capire perché, per tanto tempo, di clitoride non si è parlato affatto. Nell’edizione del 2013 del Roger’s Profanisaurus, l’enciclopedia delle volgarità pubblicata per la prima volta nel Regno Unito nel 1998, Lister conta solo cinque voci riferite a quest’organo. D’altronde, la prima ecografia tridimensionale era stata ottenuta dai ricercatori Odile Buisson e Pierre Foldès solo qualche anno prima, nel 2009. È sempre grazie a loro se, dal 2016, disponiamo di un modello 3D, indispensabile nei testi di anatomia ma anche per i corsi di educazione sessuale.
La filosofa Catherine Malabou rintraccia il primo uso anatomico del termine nei testi di Rufo di Efeso, medico greco vissuto tra il I e il II secolo. Galeno, medico romano coevo, definiva questa parte del corpo femminile “nymphe”, termine che sarà ripreso anche dagli anatomisti di epoche successive, per esempio dal francese George Cuvier che, in un testo di medicina del 1805, scrive: «(…) due specie di piccole labbra chiamate ninfe, perché hanno la funzione di dirigere il flusso dell’urina, delimitano la metà superiore della vulva all’interno delle grandi labbra». Come ricorda la studiosa, “ninfa” è passato progressivamente da parola con cui definire la clitoride a lemma con cui sussumere l’intero genere femminile e, a suo modo di vedere, non è un caso: «C’è un tratto che unisce tutte queste ninfe (…). Si dice non raggiungano mai il piacere. Rimane prigioniero della sua crisalide. La ninfa, non godendo, è il fantasma erotico per eccellenza. La donna ideale non ha una clitoride». Nella visione del mondo degli uomini, quindi, la sessualità femminile è silenziosa e pudica, si nasconde e non reclama attenzioni; in pratica, non esiste.
Fino al XVI secolo, “clitoride” era una parola considerata oscena. Tuttavia, nonostante fosse ancora incerta la sua funzione, era noto il fatto che quest’organo fosse strettamente funzionale al piacere sessuale. Ricorda Lister: «Si pensava che le clitoridi eccessivamente grandi fossero simili a un piccolo pene, e quindi causa di lesbismo e appetiti sessuali anormali». Va da sé che l’unica cura possibile fosse la loro rimozione: dall’antichità al Medioevo, in tutti testi di anatomia compaiono indicazioni precise su come asportarle e cauterizzare le ferite.
È solo nel periodo rinascimentale che si scopre che la clitoride non è “solo” un lembo di pelle in eccesso ma un vero e proprio organo, funzionale al piacere e alla sessualità. Queste nuove consapevolezze, lungi dal mettere in discussione le pratiche agite fino a quel momento, potrebbero al contrario averle rafforzate. A partire dal Seicento, infatti, il tentativo di disciplinare la sessualità femminile si fa ancora più evidente. L’anatomista olandese Thomas Bartholdin definisce la clitoride “disprezzo per l’umanità”, ricordando a tutte le donne che il suo eccessivo sfregamento le avrebbe rese lesbiche. Il filosofo Rousseau mette in guardia genitori ed educatori dal pericolo della masturbazione, in particolare quella femminile, invitandoli a non lasciare mai sole le ragazze, a vestirle con abiti che rendessero più difficile lo strofinamento e a correggere il modo in cui si sedevano, facendo attenzione che tra le loro gambe vi fosse sempre un po’ di spazio per evitare spiacevoli stimolazioni indirette.
Se la medicina continua la sua battaglia contro questo piccolo organo del piacere, è la letteratura pornografica del XVIII secolo ad accoglierlo e liberarlo, rendendolo protagonista di molti racconti e libri erotici. Da De Sade ai testi noti come “Merryland books”, si moltiplicano le pagine dedicate alla clitoride e al piacere che può provocare. Ciò nonostante, il tentativo da parte della medicina di disciplinare la sessualità continua: «Alcuni medici credevano che una clitoride ipertrofica fosse causata dalla masturbazione, altri il contrario» ricorda Lister. Per tutti la soluzione a un problema concreto o solo paventato era sempre la stessa: la clitoridectomia.
Con l’avvento del Novecento la rimozione della clitoride passa dal piano medico a quello simbolico. Nei Tre saggi sulla teoria della sessualità, Freud sostiene che le donne maturino una sessualità sana, adulta e pienamente femminile «una volta che si sia verificato il transfer dell’eccitabilità erotica dalla clitoride all’ingresso della vagina». Mentre la crescita sessuale maschile non prevede una variazione della “zona direttiva erogena”, il padre della psicanalisi ritiene che quella femminile cambi: quella clitoridea, parziale e limitata, lascia il posto a quella vaginale, autentica perché funzionale ai fini procreativi.
Se fino all’800 la clitoride era causa di una sessualità senza freni, pericolosamente vorace – come quella che caratterizzava le ninfomani – a partire dal Novecento diventa sinonimo di frigidità. Marie Bonaparte, pronipote dell’Imperatore Napoleone e paziente illustre del medico viennese, arrivò addirittura a farsi operare per riposizionarla, illudendosi che solo in questo modo sarebbe riuscita a ottenere un orgasmo vaginale.
Per tutto il secolo scorso, quindi, le donne hanno inseguito il mito dell’orgasmo vaginale che per i medici dell’epoca costituiva l’unica garanzia di una sessualità sana ed equilibrata. È solo grazie al femminismo della seconda ondata che si assiste a una netta inversione di tendenza. Ciò avviene anzitutto con Simone De Beauvoir, che ne Il secondo sesso sposta l’analisi della sessualità dando risalto al corpo, al soggetto desiderante. Come ricorda Malabou: «Non possiamo capire cos’è la sessualità se prima non vediamo che è un fenomeno, una manifestazione». Pur prendendo le distanze dall’etichetta “clitoridea” o “vaginale”, De Beauvoir non si discosta totalmente dalla logica duale che caratterizzava il pensiero freudiano. Bisogna attendere Carla Lonzi per il superamento di questa dicotomia. Nel suo Sputiamo su Hegel, la clitoride diventa emblema di una differenza che nessuna dialettica potrà mai risolvere. Non solo: essa costituisce la resistenza all’ideale eterosessuale, procreativo e pertanto penetrativo imposto a ogni donna.
Rimossa simbolicamente dalla teoria psicanalitica, la clitoride ritorna sul finire del Novecento e diventa, grazie al pensiero di Lonzi, il terreno su cui fondare ontologicamente l’identità femminile. Lungi dall’essere sintomo di una sessualità parziale, infantile o peggio ancora malata, con l’avvento del “femminismo della differenza” la clitoride segna, secondo Malabou, «lo scarto irriducibile tra sottomissione e responsabilità». Riconoscere il piacere clitorideo significa prendere le distanze dal modello femminile promosso dalla cultura patriarcale che concepisce la donna subordinata al desiderio maschile. «Per godere pienamente dell’orgasmo clitorideo – scrive Lonzi – la donna deve trovare autonomia psichica dall’uomo»: il femminismo diventa allora lo spazio, antitetico alla psicanalisi, in cui «elaborare i termini della sua liberazione».
L’attuale ondata femminista è lontana, non solo temporalmente, da quella vissuta da Lonzi negli anni Settanta, tuttavia l’attenzione intorno alla sessualità che il femminismo della differenza ha contribuito a sollevare non accenna a diminuire (per fortuna, aggiungerei). Dal 2009 a oggi abbiamo potuto conoscere molto della clitoride: sappiamo che è l’unico organo privo di altri scopi se non quello di procurare piacere e che ha più di 8.000 terminazioni nervose, il doppio di quelle presenti nel glande maschile. Della clitoride, oggi, conosciamo la sua struttura anatomica: sappiamo che si estende in profondità, ben oltre ciò che possiamo vedere esternamente, e ciò rende assolutamente risibile la distinzione tra orgasmo clitorideo o vaginale per il semplice fatto che tutti sono ascrivibili al primo.
Tutto ciò di cui la clitoride è stata accusata – di portare alla ninfomania ma anche alla frigidità, di rappresentare una sessualità infantile o di fomentare il lesbismo – racconta della paura del genere maschile di perdere quel potere che è stato, per secoli, conferito al pene anche attraverso il linguaggio. Conoscerne la storia e ricordarla, pertanto, è un atto di liberazione per le donne che ancora oggi si interrogano sulla propria sessualità. Non c’è nulla di sbagliato nel nostro piacere, in qualsiasi forma in cui si manifesti; l’unica cosa sbagliata è la sua repressione.