ARTICOLO n. 50 / 2023

IL MITO DEL DESIDERIO FEMMINILE

Quando ho compiuto quattordici anni mia madre mi ha regalato un abbonamento a un paio di riviste per teenager. Si trattava di un mensile e un settimanale di moda, gossip e interviste a cantanti e attori famosi che all’epoca facevano girare la testa a tutte le mie coetanee. Sfogliavo con piacere quelle pagine, soffermandomi in particolare sugli approfondimenti dedicati alla sessualità e all’affettività. Gli articoli proponevano sempre qualche strategia per scoprire se quel ragazzo aveva davvero intenzioni serie, davano suggerimenti per trovare le parole giuste con cui rifiutare le avance più esplicite senza rovinare la relazione e rispondevano a tutti i dubbi sulla verginità e sul primo rapporto completo, in particolare sull’età a cui era consigliato averlo.

Negli anni Novanta non era così scontato riuscire a parlare di sesso, neppure tra amiche. L’educazione sentimentale, per le ragazze di provincia, era per lo più affidata alle immagini, alle canzoni e alle pagine di magazine e fumetti. Erano gli anni di Non è la Rai, celebre programma di intrattenimento andato in onda per un lustro sulle reti Mediaset, di Britney Spears e Christina Aguilera, dei cartoni animati giapponesi che insegnavano alle giovani, più o meno esplicitamente, come intrattenere le prime relazioni affettive senza spingersi mai oltre certi limiti. Il confine, taciuto ma sempre ben visibile, era quello che separava le cattive ragazze da quelle dai saldi principi morali.

Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, non possiamo non nominare la questione del desiderio. Analogamente a quanto affermato nell’articolo precedente parlando di verginità, anche questo dispositivo è, per le donne, uno strumento di controllo della sessualità che merita di essere osservato da vicino per capirne il funzionamento. 

Accertamento della verginità e repressione del desiderio sono uno il rovescio dell’altro: meccanismi sottili che continuano a produrre i loro effetti sulla vita delle donne. Nonostante la rivoluzione dei costumi degli Anni Sessanta, la sessualità femminile è ancora oggetto di critiche, soprattutto quando si discosta da quella considerata “perbene”.

Proprio alle “ragazze perbene” è dedicato l’omonimo romanzo di Olga Campofreda. Il volume racconta la vita di Clara che, a causa dell’imminente matrimonio della cugina Rossella con lo storico fidanzato Luca, è costretta a lasciare Londra, dove vive da tempo, per far ritorno per un po’ a Caserta, sua città natale. L’evento, che tutta la famiglia accoglie come la conclusione di una storia – quella tra Rossella e Luca – perfetta e in qualche misura già scritta, offre alla protagonista lo spazio per guardare in prospettiva la sua, di storia. Tra un pranzo in famiglia e un addio al nubilato, Clara si interroga su come sarebbe stata la sua vita se non avesse deciso di andarsene a studiare all’estero. Se la sua esistenza è, come quella di molti expat, precaria e incerta, ma libera, quella della cugina appare come l’esito perfetto di una serie di passaggi obbligati a cui tutte le ragazze perbene della città sono costrette ad aderire.

Femminilità, obbedienza e accoglienza delle esigenze maschili sono i tre assi che racchiudono, secondo Clara, la vita delle ragazze di buona famiglia, a partire da quelle vissute dal ramo materno della famiglia. Sua madre, le zie e anche la nonna nascondono vicende tragiche, rapporti imposti e taciuti a cui non si sono mai potute ribellare per non infrangere quella facciata di rispettabilità necessaria a sopravvivere nelle cittadine di provincia.

«Siamo state cresciute lasciandoci credere che saremmo diventare donne quando avremmo imparato a badare a una casa tutta nostra e a prenderci cura di un figlio e un marito (…) non eravamo pronte a fare i conti col desiderio, nessuno ce ne aveva parlato».  La frase che Campofreda fa pronunciare a Clara è potente. Effettivamente, le donne sono escluse da qualsiasi discorso riguardante il desiderio perché considerate refrattarie al sesso. Se negli gli uomini è descritto come una pulsione biologica primaria, compulsiva e anticipatoria, per il genere femminile l’interesse sessuale si ritiene essere lento e reattivo. I loro desideri, cioè, si accendono in risposta a un intervento esterno e non in maniera autonoma, come accade gli uomini.

Nella sua lunga disamina attorno a questo concetto, la scrittrice Katherine Angel sottolinea come questa visione binaria, fortemente differenziata, del desiderio maschile e femminile nasconda pericolose insidie. Nel 1980, giunto alla sua terza edizione, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) inizia a classificare le disfunzioni sessuali in relazione al “ciclo di risposta sessuale umana”, un modello formulato dai ginecologi e sessuologi William Masters e Virginia Johnson negli anni Sessanta. Scrive Angel: «secondo questo modello, il sesso inizia col desiderio, attraversa l’eccitazione e approda all’orgasmo; dunque, le donne che non avevano un accesso facile al proprio desiderio venivano patologizzate come disfunzionali».

Tuttavia, il modello operativo approvato dal DSM III escludeva o sembrava ignorare alcune premesse indispensabili: per poter innescare e poi assecondare il desiderio è necessario anzitutto (ri)conoscerlo. Inoltre, è fondamentale che l’ambiente circostante lo sostenga e lo approvi. Si tratta di variabili da non trascurare perché coinvolgono sfere diverse: una – quella relativa al riconoscimento – ha a che fare con la dimensione educativa, l’altra con le dinamiche sociali e i rapporti di potere tra i generi. Considerando questi fattori singolarmente o insieme, però, i risultati non cambiano: le donne sono state educate a reprimere i propri desideri e le forti pressioni sociali hanno avallato questo atteggiamento nei loro confronti.

Come ricorda lo storico Paolo Orvieto nel suo volume Misoginie, il genere femminile è sempre stato rappresentato come passivo e sessualmente inattivo. Dalle Sacre Scritture ai testi pseudoscientifici dell’Ottocento, il ruolo della donna si esaurisce in quello di moglie e madre, la cui integrità morale è diretta conseguenza della sua attività sessuale e per questo deve essere controllata e contenuta mediate l’inibizione del desiderio. L’unico sesso ammissibile dentro la coppia è quello procreativo, che differenzia le donne “perbene” da quelle con cui gli uomini sono socialmente autorizzati a intrattenersi proprio per sfogare i loro istinti primari.

Oggi si potrebbe pensare che molte cose siano cambiate. A partire dagli nni Novanta (proprio quelli di Non è la Rai e di Britney Spears) abbiamo assistito a un’apparente liberazione del discorso intorno alla sessualità e ai desideri delle donne. L’emancipazione sessuale femminile cominciata negli anni Sessanta sembra approdare, per la prima volta, a un linguaggio esplicito che la affranca dai retaggi del passato. Alla fine del XX secolo compare pertanto un nuovo ideale di femminilità. Sulla scia dei modelli offerti dalle star della musica e del cinema (come il gruppo delle Spice Girls o Catherine Tramell, personaggio interpretato da Sharon Stone nella pellicola Basic Instict) le donne appaiono più disinibite, sicure della propria sessualità, capaci di esprimere i propri desideri in modo esplicito, assertivo, a tratti spudorato. 

Si tratta di un cambio di paradigma che necessita di essere approfondito perché, sostiene Angel, ha generato un cortocircuito che ha portato a confondere il piano del desiderio con quello del consenso. Una sessualità esplicita, infatti, non è di per sé liberatoria, né consensuale. Come ricorda Elisa Cuter nel suo volume Ripartire dal desiderio, ha più a che fare «con quella cura del sé e quell’ossessione per l’immagine che il capitale ci propina come fonte di liberazione». 

Il discorso intorno al desiderio femminile appare ancora fortemente stereotipato, basti pensare ai casi di cronaca.Quando una donna subisce un’aggressione o una molestia si scatenano opinioni non richieste che fanno supporre che la colpa sia anche sua e che abbia in qualche misura partecipato all’avvenimento, per esempio manifestando un certo desiderio, poi ritrattato. È quello che accade, nella finzione narrativa, anche a Clara quando da adolescente subisce in ascensore le avance non richieste del vicino di casa, un uomo molto più grande di lei. Confidandosi con la madre, la donna le chiede cosa abbia fatto per causare il comportamento dell’uomo e la invita a usare le scale per “sentirsi più sicura”.

Il cambio di paradigma ha soltanto sostituito il modello della donna refrattaria al sesso con quello della donna disinibita, tuttavia non ha scosso quegli stereotipi che continuano a fare da sfondo al ragionamento. La libertà di avere un rapporto sessuale è sì strettamente connessa alla capacità di riconoscere ed esprimere i propri desideri, ma anche alla disponibilità da parte dell’ambiente di accoglierli senza giudicarli come inappropriati.

In un articolo apparso qualche anno fa su Internazionale, la giornalista e scrittrice Laurie Penny afferma che i corpi e i desideri femminili continuano a essere alla mercé degli uomini perché il cambiamento avvenuto negli ultimi trent’anni non ha alterato i rapporti di potere tra i generi. La società continua a essere ostile nei confronti delle donne e ciò è evidente se consideriamo la “cultura dello stupro” ovvero «il processo per cui l’agire sessuale delle donne è costantemente negato» mentre le molestie e gli abusi che subiscono vengono giustificati e normalizzati. In un contesto di questo tipo la libertà sessuale delle donne è secondaria rispetto al diritto degli uomini di poter avere rapporti sessuali, per questo si richiede alle prime una costante sorveglianza rispetto ai confini della propria sessualità e la capacità di esprimere il proprio desiderio, senza mai rinnegarlo. Sostiene ancora Penny: «siamo circondati da così tante immagini di sessualità che è facile pensare a noi stessi come persone liberate. Ma la liberazione, per definizione, deve riguardare tutti. Invece nel bombardamento di messaggi del marketing (…) l’unico desiderio accettabile va in una sola direzione: dall’uomo verso la donna».

Per poter essere davvero liberatoria, la sessualità femminile ha bisogno di trovare uno spazio più autentico in cui sia possibile accogliere il desiderio per ciò che è, uno stato fluido di durata e intensità variabile. È necessario, ancor prima, riequilibrare i rapporti di potere tra i generi affinché il desiderio delle donne non sia obbligato a fare da cassa di risonanza a quello maschile per essere accolto. Abbiamo bisogno di dar vita a una nuova cultura della sessualità, in cui ogni persona – indipendentemente dal genere e dall’orientamento – sia nella condizione di poterla esprimere invece che negarla per adattarsi al contesto.

ARTICOLO n. 96 / 2024