ARTICOLO n. 31 / 2022
IL LAVORO CULTURALE
The Italian Review inaugura un ciclo sul lavoro culturale, con questa immersione nel linguaggio a opera di Luciano Bianciardi, a cento anni dalla sua nascita. Molti decenni dopo contempliamo un mondo radicalmente diverso, dove alcuni di questi lemmi hanno assunto conformazioni diverse e sono state oggetto di semplificazione e polarizzazione: molto si è detto sul significato della parola dibattito, che nell’epoca social ha assunto forme del tutto imprevedibili, se è vero che nel 55esimo rapporto sulla società italiana del Censis uno dei capitoli era intitolato La società irrazionale: il Censis parla della nostra epoca come l’epoca del «sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà» e aggiungendo che «l’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale (…) e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei ‘trending topic’ nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive».
Sull’obsolescenza e lo slittamento di significato di un termine qui evocato con grande naturalezza come intellettuale si è già discusso ma non abbastanza. Questo termine identitario, divenuto in un certo qual modo grottesco, sarà in varia natura presente in questo ciclo, anche quando non enunciato. Seguiranno a questo intervento bianciardiano molti dialoghi con editori e editor internazionali, allo scopo di indagare il lavoro culturale, più precisamente editoriale, in varie forme. Se «ogni linguaggio è schema e astrazione» si cercherà di entrare dentro quell’astrazione, e non solo: dentro lo sguardo dei «lavoratori culturali»: che spesso coincide con una visione del mondo.
Andrea Gentile, Direttore responsabile The Italian Review
Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni emerse dalle pagine che precedono, indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.
Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.
Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo.
Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia. Dal dibattito scaturiscono, oppure emergono o anche, più semplicemente, escono, alcune indicazioni.
Le indicazioni sono anch’esse utili. Se possono esprimersi in una breve frase, allora si chiamano parole d’ordine. Per esempio: Per un/per una (cinema, teatro, romanzo, arte, cultura, scuola, pittura, scultura, architettura, poesia) nazionale e popolare. In caso contrario, quando cioè le indicazioni non abbiano questo potere di contrazione espressiva, si parlerà di tutta una serie di iniziative, utili, naturalmente, e concrete, ma di massima, suscettibili cioè di elaborazione.
Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro.
La scelta dei problemi si chiama problematica, quella dei temi tematica. Ricordo che una volta, a Firenze, discussero tre ore su questo problema concreto; se fosse necessario porsi prima il problema della problematica oppure quello della tematica. Un problema è anche, spesso, di fondo. Esso si adeguerà alle prospettive, nuove e concrete, di lotta, per o contro.
Lotta, anzi lotte, è l’azione quando incontra un ostacolo, altrimenti l’azione è pura e semplice attività. Ma tanto per le lotte che per l’attività si mobilitano tutte le forze, si toccano larghi strati, o larghe masse, si estende l’influenza, ci si pone alla testa e ci si lega anche strettamente. Al servizio della lotta si pongono le proprie capacità.
A volte le cose non sono così semplici; ma il dibattito ha appunto l’ufficio di indicare gli inevitabili difetti, determinati dalla situazione. I difetti consistono quasi sempre nel non aver sufficientemente utilizzato, elaborato, applicato le indicazioni emerse da. I difetti, in ogni caso, sono stati indicati da un esame autocritico. Ogni dibattito assolve anche a questa funzione.
Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.
Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali. Gli intellettuali possono essere: illuminati, democratici, avanzati, molto vicini a noi, al servizio della classe operaia; la serie è in crescendo. Pseudo-intellettuali sono invece gli altri, quelli che si sono posti al servizio del padronato, della reazione, del grande capitale, dell’imperialismo.
Al problema del linguaggio va connesso quello della gesticolazione, un problema peraltro più complesso e meno facilmente definibile; ci limiteremo a darne qualche cenno.
Ampio: si accompagna con un gesto circolare delle due mani, palme rivolte in alto.
Concreto: si strofinano i due pollici contro le altre dita.
Prospettive (e anche indicazioni): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita debbono essere unite.
Nella misura in cui: la mano – sempre sinistra – piegata a spatola, scava in un mucchietto di sabbia immaginaria posta di fronte a chi parla.
Sul terreno del: col dorso della mano si sfiora il tavolo, con un gesto orizzontale.
Va subito detto che il problema del linguaggio non viene qui posto per la prima volta nella storia: illustri teorici e critici, da Giorgio Dimitrov a Carlo Salinari, lo hanno già fatto in passato, e molto più profondamente che qui. Ci fu anzi, sul problema del linguaggio, cinque o sei anni or sono, un dibattito largo e approfondito, con numerosi utili interventi, che portarono un contributo sostanziale alla soluzione del problema stesso. Un problema, si disse allora, che si era maturato per un’ampia discussione su di un piano collettivo e concreto. Un problema interessante per migliorare la capacità di lotta; relativo al linguaggio usato all’interno delle organizzazioni democratiche, e relativo al linguaggio usato rivolgendoci agli alleati e ad un pubblico più largo. Si denunciavano alcuni inevitabili errori, di linguaggio appunto, determinatisi in conseguenza della situazione creatasi con.
Fra i numerosi interventi se ne ebbe uno che riconosceva come l’intervento precedente aprisse la possibilità di un ampio dibattito, tanto più necessario quanto più era vicino l’inizio della campagna per le elezioni politiche. «Io penso», diceva a conclusione l’intervento, «che le questioni poste vadano approfondite per meglio specificare le cause che determinano i nostri difetti di linguaggio e, di conseguenza, gli accorgimenti da seguire per superare i difetti stessi.»
Qualcuno, più autorevole, disse che lo schematismo del linguaggio dei responsabili del lavoro culturale – e di tutti gli altri – aveva peraltro un pregio; quello di garantire una maggiore precisione scientifica, un maggior rigore espressivo, e quello di far uscire dall’approssimazione e dal genericismo del tradizionale linguaggio ottocentesco.
Altri diranno che in fondo ogni linguaggio è schema e astrazione. Che anche quando io dico «pane» uso una parola che è nata prima di me, e che significa qualcosa per pura convenzione. Che quando dico «lavoro» adopero un’iperbole. Che «idea» è solo una metafora, una metafora visiva, per la precisione. Ogni lingua, insomma, è convenzione, e come tale è legittima, anche quella dei responsabili del lavoro culturale.
A costoro occorre rispondere citando un’autorità che fu ritenuta altissima nel campo della linguistica, ed in molti altri campi ancora:
«I dialetti di classe, che sarebbe più esatto chiamare gerghi, servono non le masse del popolo, ma un ristretto gruppo sociale superiore».
© Il Saggiatore, 2018.