ARTICOLO n. 2 / 2025

IL CORPO DI UNA DONNA

intervista di isabella de Silvestro

La morte ha il suo modo di affilare la vita. L’ha capito Maddie Mortimer nel suo romanzo d’esordio: un testo sperimentale dove il corpo di una donna malata prende parola e occupa la pagina, uscendo dai margini di quello che ci aspettiamo dalla letteratura e dallo stesso corpo femminile. 

Mappe dei nostri corpi spettacolari (Il Saggiatore, 2024) è, in fondo, un dramma familiare, ma anche un romanzo formalmente ambizioso. Nel libro ci sono tre fili narrativi che non solo sono in costante comunicazione, ma competono attivamente l’uno contro l’altro per raccontare la storia. Gli eventi che accadono nel passato e nel presente della protagonista disegnano la mappa del suo corpo, un paesaggio surreale con il quale il lettore si allena ad avere familiarità, non senza un iniziale sforzo. La prima persona divora la terza, i frammenti di anatomia si confondono con quelli di filosofia della religione, di poesia, di danza, di pittura. La parola smette di essere puro significato e rivendica la sua dimensione estetica, il suo esistere sulla pagina. Le lettere gocciolano, si gonfiano, si specchiano, si piegano.

«Non dimenticherò nulla, te lo prometto. Neanche la cosa più piccola», dice la giovane Iris alla madre malata. Abbiamo parlato di madri, corpi, poesia e identità.

Isabella De Silvestro: Lo stile narrativo di Mappe dei nostri corpi spettacolari è sperimentale. Questo approccio non convenzionale alla scrittura è stato pianificato fin dall’inizio o ha preso forma spontaneamente nel corso della stesura?

Maddie Mortimer: È stata una decisione immediata. È iniziato tutto con dei frammenti sperimentali tra la prosa e la poesia che prendevano forma dentro a un corpo di donna. In termini allegorici questi frammenti componevano nella mia testa un paesaggio surreale che gradualmente si rivelava. A quel punto mi sono chiesta cosa implicasse farci muovere dei personaggi alle prese con una forza distruttiva, ovvero la malattia. Il libro è iniziato così, in modo astratto e remoto. Più scrivevo e più sentivo di avvicinarmi a qualcosa di più concreto, tradizionale e personale. Quando ho finito di scrivere mi sono trovata molto vicina a me, ma ho la sensazione di essere partita da lontano. 

Ho usato la lingua per dare vita al cancro come a un personaggio e, per fare ciò, dovevo rendere l’idea di una metastasi di parole. Volevo che il lettore sentisse il libro anche come oggetto, che dovesse confrontarsi con il segno sulla pagina, il colore, la forma, la dimensione, le parole che si sciolgono o strabordano. 

I.D.S. Che relazione ha con la poesia?
M.M. La poesia è il mio primo amore. Questo libro avrebbe potuto essere una poesia, se solo avessi saputo esprimere le stesse cose in una manciata di versi. Mi sono allenata a scrivere leggendo e scrivendo poesie, fin da ragazzina. Amo anche la musica, cerco di infondere un ritmo a ciò che scrivo. Credo che il motivo per cui la poesia e la musica sono così essenziali è perché vengono da movimenti più istintivi rispetto alla prosa. I suoni e il ritmo delle parole ti guidano.

I.D.S. Gli eventi raccontati nel romanzo hanno affinità con la sua storia personale. Cosa ne pensa dell’autofiction?
M.M. Credo che un romanzo ti dia la possibilità di raggiungere luoghi che non potresti raggiungere se scegliessi il memoir. La fiction permette di camuffare la verità. Sono sempre stata spaventata dalla prima persona singolare, mi agita il pensiero di portare la mia vita in letteratura. Però il personale mi interessa. Ho cercato quindi di mettere insieme il contenuto personale e la forma epica e astratta. Mi piace l’idea di muovermi tra le forme, sperimentare. Amo pensare alla letteratura come qualcosa che ha valore in sé, non come il prodotto di un’identità. Siamo troppo ossessionati dall’identità.

I.D.S. La malattia può diventare un’identità? È un rischio da tenere in considerazione?
M.M. Assolutamente sì. Questo libro è un tentativo di indagare quanto i corpi ci definiscano e soprattutto quanto sia facile lasciare che gli eventi negativi diventino la lente attraverso la quale ognuno guarda alla propria vita. Non volevo scrivere un romanzo su una vittima. 

Ho trovato i diari di mia madre dopo la sua morte e probabilmente non sarei riuscita a scrivere questa storia se da adolescente non avessi letto quei diari quasi come se si trattasse di letteratura. Mia madre si interrogava molto sulla causa del tumore, tentando di distaccarsi da questa cosa che le stava accadendo. È da quella sua concezione della malattia che ho iniziato a percepire il cancro quasi come un personaggio a sé. Il libro tratta di affrontarsi e lasciarsi andare allo stesso tempo. Abbiamo bisogno di definire dei limiti tra noi e la malattia, ma dobbiamo anche imparare ad assimilare. È un equilibrio delicato. 

I.D.S. I traumi e il dolore si ereditano? Si tramandano di generazione in generazione, in particolare fra donne?
M.M. Senza dubbio. C’è moltissimo dolore ereditato, ci sono stereotipi e aspettative su cosa significhi essere donne. Dalle madri riceviamo moltissimo, anche nostro malgrado. Lia ha avuto l’esperienza di una madre distante e vuole cambiare il paradigma con sua figlia, standole molto vicino. A volte ereditiamo il bisogno di differenziarci fortemente dai nostri genitori, sterzando in senso opposto: anche questo è egoismo. Ho voluto dare vita a questi personaggi manchevoli e fragili per poterli amare. Amo Anne, il personaggio meno amabile. È così repressa, così incapace di esprimere ciò che sente. Ma sono questi i personaggi migliori no? I più difficili da amare…

I.D.S. Scrivere questo libro ha cambiato la sua relazione con la morte?
M.M. È difficile dirlo. Ho preso confidenza con la mia mortalità. La protagonista, Lia, sta morendo. Dunque ho dovuto entrare nel cervello di qualcuno a cui era stato appena detto che sarebbe morto nel giro di due anni. In questo senso sì, scrivere mi ha aiutata a familiarizzare con la mia fine. 

I.D.S. Per la madre Lia, la figlia Iris di dodici anni è «la persona più saggia al mondo». Si è sentita anche lei una ragazzina saggia?
M.M. Mi sentivo saggissima, come Madre Teresa e Ghandi [ride, ndr]. Non me lo ha mai chiesto nessuno, ma è una domanda divertente. Leggere e scrivere fanno questo, no? Se da bambino sei un lettore vorace tendi a diventare un grande osservatore.

I.D.S. Ha sempre saputo di voler fare la scrittrice?
M.M. Da che ne ho memoria. Da bambina ho scritto vari romanzi ma non ne ho finito nessuno. Uno di questi in realtà l’ho riletto di recente e l’ho trovato molto bello. Risale a quando avevo dieci anni, parlava di un bambino bugiardo compulsivo che deve affrontare le sue bugie antropomorfe. Alla fine si perdona, perdona le sue bugie per averlo reso un bugiardo. Come chi perdona la sua malattia di averlo reso malato. Non è molto distante da Mappe dei nostri corpi spettacolari, e mi ha quasi inquietata. Forse è vero che per tutta la vita scriviamo lo stesso libro. Abbiamo da dire in fondo una sola cosa e cerchiamo il modo migliore per dirla, attraverso diversi tentativi. 

I.D.S. Una madre può essere gelosa della figlia. Può accadere anche il contrario?
M.M. Molte persone passano la loro infanzia a invidiare i genitori: vedono una versione di sé più vecchia e più autonoma, padrona di se stessa. Madre e figlia nel libro hanno un rapporto quasi di sorellanza. Anche una vicinanza come quella è problematica, confonde le cose perché finge di cancellare confini che invece sono ineliminabili. 

I.D.S. Era interessata a indagare le differenze tra il corpo femminile e quello maschile?
M.M. Definirei il mio romanzo femminista, ma femminista in senso letterale: la metà del tempo il lettore è dentro a un corpo di donna. Ma ci sono anche personaggi maschili, e ho provato a indossare i loro abiti perché prendessero vita. Quando scrivevo di Harry provavo a immaginare di dover camminare con un pene in mezzo alle gambe.  È interessante come scrivere sia anche un esercizio fisico, quasi come recitare. C’è un pezzo di me in ogni personaggio. È questa la parte appagante di scrivere: che dai vita ai frammenti di te, puoi diffonderti, essere chiunque, da qualsiasi parte. 

I.D.S. Nel libro c’è molta religione. Si considera una persona spirituale?
M.M. Le persone hanno paura della parola “spiritualità”, ma io mi rendo conto di essere ossessionata dalla religione. Non professo nessuna fede in particolare ma mi ha sempre incuriosita il cristianesimo. Ho letto molta teologia. Alcune tra le mie autrici preferite, come Mariyinne Robinson e Anne Carson, si occupano anche di filosofia della religione. Per un periodo mi hanno ossessionata le mistiche francesi. Un pensiero mistico-spirituale che ho, se così si può dire, quando approccio la scrittura, è che la storia che voglio raccontare già esista da qualche parte nella sua interezza. Esiste come un’idea platonica e il mio esercizio è di raggiungerla. Mi aiuta pensarmi come un vascello alla scoperta di qualcosa che ha una sua concretezza ed è fuori da me, qualcosa di predeterminato, che prescinde dalla mia scelta.

ARTICOLO n. 1 / 2025