ARTICOLO n. 55 / 2022

IL CORPO DELLA LINGUA A TEATRO

Intervista di Gilda Tentorio

Terzopoulos è un Maestro del teatro che ha creato e diffonde il suo metodo rivoluzionario di una recitazione che è un ritrovare il corpo”, la sua profondità e le energie nascoste. 

Gilda Tentorio: Lei che è greco, come lavora sui testi greci antichi? Quale disposizione ha verso quella lingua?

Theodoros Terzopoulos: In una lingua le consonanti sono come i pilastri di una casa, che tengono insieme la struttura. È bello e facile lavorare con una lingua dalle molte consonanti, come il tedesco o il giapponese. Cito queste due lingue perché la Germania di Heiner Müller e la tradizione asiatica sono i due ambienti che mi hanno influenzato di più. Trovo in particolare che la lingua giapponese abbia in sé un ritmo ancestrale, che va all’essenza, deciso e rituale al contempo. Nell’italiano invece le vocali sono un ostacolo alla ricerca di profondità. Una parola con molte vocali racchiude molta aria e perciò galleggia restando in superficie. La parola invece ha una profondità verticale, una radice. La stessa cosa si sperimenta nel passaggio dal greco antico a quello moderno: oggi la mia lingua è piena di vocali; nell’antico invece prevalevano le consonanti. Quando mi avvicino a un testo antico quindi cerco anzitutto di ascoltare il ritmo e di scavare per trovare il ritmo primordiale, il nucleo essenziale della parola, cioè quel suono che si trova sotto la parola-significato.

G.T. Ci può fare un esempio di questo scavo archeologico nella sonorità di una parola?

T.T. Quando diamo a un suono un significato, obbediamo a una esigenza comunicativa, e quindi anche sociale e politica. Ma a me interessa recuperare il suono primigenio. Prendiamo ad esempio l’antichissima parola per indicare la terra: in dialetto dorico si diceva GAS, o meglio GAAAASS, con una ‘a’ larga, profonda e un sigma finale lungo. [Ed ecco che Terzopoulos comincia a farmi sentire la sonorità: apre la bocca, inizia con laspirazione della G e poi allunga la A in unemissione vocale che viene dalle viscere e quella A cavernosa non ha nulla di pacificante] Lo senti? Questo è il suono primordiale della terra, così deve echeggiare, devi sentire la sua “terrestrità”, devi sentirci dentro i suoni della natura, avere la sensazione del vento che stormisce tra le foglie. Se poi calchi quel gamma iniziale profondo, puoi ottenere sonorità impensate. Quando a lezione con i miei allievi facciamo tutti insieme l’esercizio di “GAAA”, si crea una vibrazione che sembra il terremoto. La parola greca antica ha una sua vita profonda e segreta che dobbiamo individuare, occorre trovare il ritmo, sperimentare con consonanti e vocali. Talvolta il risultato sonoro porta a “desemantizzare” il significato. Quando diciamo “GHI MANA GHI” (Terra, madre terra – questa volta con la pronuncia moderna), nella ripetizione delle sillabe e nella concitazione, dosando il ritmo e le pause, la frase acquista una dimensione ieratica, diventa uno strumento rituale di immensa potenza. La parola racchiude un ritmo interiore, ed è a questo che dobbiamo obbedire. Il significato è soltanto un epifenomeno. Il significato è cervello, e invece noi dobbiamo trovare il cuore della parola. E il cuore è appunto il ritmo. Spesso il ritmo e il tempo ampliano lo spettro di significatività. Questo mio andare al cuore pulsante della parola produce anzitutto un suono: non è necessario che subentri l’interpretazione, basta solo una sensazione, un lago di energia in cui “nuota” il significato.

G.T. Ma questa è poesia!

T.T. Hai ragione: quando lavoro sul logos e con il corpo degli attori, uso una lingua poetica per poterli indirizzare verso la creatività. Preferisco la poesia a uno studio cerebrale o accademico, che è certo necessario per capire i testi, ma quando appesantisce di sensi e sovrasensi, c’è il rischio di perdere l’essenza.

G.T. Nel suo teatro la lingua si fa corpo: come avviene questo processo?

T.T. La lingua è corpo, e il corpo è lingua. Hölderlin nei suoi studi sull’Antigone cercava la chiave perduta dell’unione fra parola e corpo. Il mio maestro Heiner Müller in un saggio sostiene che io sono riuscito a unire corpo e lingua. Ma per farlo devo trovare la radice della parola, devo darle corporeità. E in questo percorso il generoso e indispensabile aiutante è il corpo, che ha in sé suoni inattesi, trasversali, un ribollire di energia sonora, un intero paesaggio da scoprire.

G.T. Che lingua parla Dioniso, il dio del teatro?

T.T. Dioniso parla la lingua dei grandi significati e dei non-significati. Dice: «Eccomi, sono giunto», ma allo stesso tempo è altrove e noi dobbiamo seguirlo. Pone una domanda, ma è già passato oltre. Dioniso è la metamorfosi continua, movimento nell’immobilità e immobilità nel movimento. Dioniso è la lingua e la corporeità della vertigine interiore. Ci obbliga a uscire dal nostro bozzolo di immobilità e a muoverci, a correre. E noi questa lingua prima di tutto dobbiamo sentirla e poi tentare di decodificarla. Dioniso ci pone la domanda sull’essenza ontologica, ma non ci dà risposte, ci lascia lì dove la realtà ribolle e si plasma, fra il noto e l’ignoto. Perché Dioniso non dà risposte.

G.T. Il suo teatro ha una dimensione politica?

T.T. Il mio teatro parte dalla radice del politico, dalla polis, ma non segue nessun modello. Non vedrete mai nei miei spettacoli la bandiera rossa, falce e martello per rivendicare una vita migliore per la classe operaia. A me interessa parlare di quel fermento che sta nella profondità delle cose e dell’esistenza. L’utopia di Dioniso non è solo una situazione astratta, è un viaggio nella dimensione ontologica più profonda dell’uomo. Ad esempio il teatro di Aristofane propone un’utopia, ma sul versante sociale: con il suo comico irresistibile Aristofane cerca di dare risposte alla società e questo suo sguardo sulla polis acquista anche un orizzonte filosofico. Ma io sono votato a Dioniso, che invece è follia. E follia significa tragedia. Dioniso è il dio della tragedia, del teatro, della metamorfosi, della profondità e dell’elevazione, per andare oltre.

G.T. Come ha affrontato il testo di Ibsen Casa di bambola per il suo lavoro Nora presentato a Milano? 

T.T. Mi sono concentrato sul personaggio di Nora, sono entrato nella sua mente e ho ricreato situazioni psicologiche, sentimenti, un mondo asfissiante di piccoli scontri e riconciliazioni. Ho voluto però sottolineare l’atto di Nora, una donna che decide di “ingrandire” le dimensioni, di superare le miserie della sua vita quotidiana fatta di bambini, regali e debiti. Nora decide di sollevarsi, proiettarsi in un’altra sfera, o meglio, di ritrovare la sua radice. In questo spettacolo ci sono elementi realistici, ma a poco a poco si viene a creare un climax, un’elevazione, un superamento. E questo si rileva anche dalla lingua, che è sempre più asciutta perché appartiene all’oltre, all’ontologico. Nora sceglie di superare la superficie e va oltre, si eleva e parte. Per dove, non lo sappiamo…

G.T. Quali impressioni le restano dell’esperienza milanese? 

T.T. Sono contento e soddisfatto: il pubblico era attento e interessato durante gli spettacoli, che sono stati salutati con lunghissimi applausi. Mi ha fatto piacere anche vedere tanti giovani, gli allievi del Piccolo Teatro e non solo. Questo dimostra che c’è un grande desiderio di novità e di esperienze autentiche. La vostra Milano mi è sembrata una città che corre inseguendo le mode. Manca però un punto fisso, un faro, come succedeva ai tempi di Strehler e poi forse anche con Ronconi. Tornare in Italia è comunque sempre un piacere e il prossimo gennaio se tutto va bene presenterò una mia regia presso ERT (Emilia Romagna Teatri), di cui però non voglio anticipare nulla. 

ARTICOLO n. 93 / 2024