ARTICOLO n. 47 / 2021

IL BACIO DEL PESCE RAGNO

Tutto questo blu da vicino è trasparente e una volta dentro, multicolore.

Ci conoscevamo appena quando ti portai nell’oasi. Quel tratto di sabbia lasciata allo stato brado da chi si erge a protettore della natura. Senza una pulizia quotidiana attenta a lasciare al suo posto solo frammenti di conchiglie e alghe putrescenti, plastica, vetro e ferro la fanno da padroni. Frequentata da gente che per stare nuda si fa largo tra gli umani rigurgiti del mare e gente come noi: estranei ai cui occhi nuovi il mondo sembra da scoprire per la prima volta.

Non ci eravamo parlati molto e neanche il mare grigio accompagnando i granchietti morenti a riva faceva rumore.

Mano nella mano camminammo per più di un chilometro a balzi come fanno le coppie di pattinatori sul ghiaccio e, a grandi falcate, sorridendoci l’un l’altro, prendemmo il largo.

Ti fidasti di me da subito come se con me non potesse succederti nulla di male, anzi come se insieme potessimo affrontare qualunque cosa uscendone incolumi. Trovavi romantiche le avventure che ti proponevo. Mi trovavi romantico, fino a quando tutto questo non diventò patetico ai tuoi occhi e finì per diventarlo anche ai miei. Avrei dovuto iniziare a capirlo molto tempo fa ma ero troppo concentrato su me stesso per vedere che la tua vita andava avanti anche senza di me e che il mio sogno d’amore era soffocante e granitico, un macigno che non volevi ti trascinasse a fondo.

Come quella volta che mi ero incaponito e avevo organizzato tutto per portarti a dormire nella capanna del pastore sulla scogliera. Avevo provato a chiamarti al telefono quattro, cinque, sei volte perché se non fossimo partiti prima che avesse fatto buio non saremmo mai riusciti a percorrere il ripido sentiero di pietra e sterpi che portava al piccolo casolare a picco sul mare. Ti eri trattenuta in laboratorio fino a tardi come altre molte volte e la cosa mi aveva fatto infuriare. Non ti risparmiavi, per te il lavoro era una questione personale e rimanevi lì ben oltre l’orario concordato. Prendevi appunti minuziosi, stendevi relazioni accurate fino a notte fonda, e sono certo che fossi molto brava. Schietta e sincera, pragmatica. Mi era chiaro quanta importanza avesse per te il tuo lavoro. Ma era un’altra delle cose che rubava tempo a noi.

Quella sera ti aspettai in auto; mi dicesti, uscendo dalla Luccicante, che volevi passare in foresteria un momento, e dentro di me prese subito a montare la rabbia per il tuo ritardo. Mi sentivo messo da parte eppure, stolido e ostinato al limite dell’infantile com’ero, non rinunciai al mio progetto di portarti alla capanna. Perché tu non perdessi troppo tempo a cambiarti, ti seguii fin dentro, ma non eravamo soli. Ti infilasti nella stanza lavanderia e mi dicesti di aspettare, ancora. Io, spazientito, giravo intorno trattenendomi a stento dallo spalancare la porta socchiusa. Dallo spiraglio sbirciavo le tue mani massaggiare le mani dure della donna delle pulizie che intanto con voce sottile farfugliava qualcosa di indistinto tra i singhiozzi. Basta la nostra avventura ci aspetta! dicevo tra me e me. Attraverso la fessura della porta rifuggivi il mio sguardo impaziente e invece posavi il tuo, amorevole, su quello della donna. Una signora alta e secca, con i capelli raccolti malamente tinti di un rosso bordeaux che alle radici aveva sbiadito in arancione, più giovane di quanto la sua fatica potesse rivelare, trasandata e vestita con gli abiti che usava per andare a servizio, pantacalze fiorate, t-shirt con la pubblicità di un autolavaggio e ciabatte di plastica.

Ruppi quel raccoglimento urlandoti che ti avrei aspettato in macchina.

Lamentava la sparizione di sua figlia, mi avresti detto dopo. Di quella sua unica figlia bionda, preadolescente, longilinea e cavallina come lei, che non sarebbe più tornata.

Con il mio urlo a ogni modo raggiunsi lo scopo: la donna si era distratta, aveva staccato le sue mani dalle tue, ripreso possesso del carrello con secchio e detersivi e tu mi raggiungesti.

Appena saliti in macchina rimasi in silenzio e anche tu non pronunciasti una parola. Una volta arrivati nel punto in cui incominciava il sentiero, parcheggiai e scendemmo. Bisognava camminare e, mentre seguivi la luce della torcia qualche passo indietro, arrancando per il crinale del costone litorale profumato di erbe selvatiche e spruzzi di mare, mi urlasti il tuo disprezzo per me, insensibile e noncurante anche del dramma della giovane scomparsa e del dolore di quella madre perduta. Mi dicesti che ero egoista e insensibile, disinteressato al tuo lavoro e ai tuoi progetti. Che ero incapace di dedicarmi a qualcosa, di impegnarmi in qualcosa. Nullafacente senza aspirazioni. Fosti feroce e rabbiosa, e forse avevi ragione; forse per questo rimasi in silenzio senza controbattere.

Poi, una volta arrivati, piangesti e ti facesti abbracciare e consolare. Ti promisi che le tue parole non mi avevano sfiorato ma mentivo. Rimanemmo nella capanna di pietra fino alla mattina seguente, avremmo visto sorgere il sole.

Affondavano i piedi nella sabbia, a tratti dura e compatta, a tratti increspata dalle onde, a tratti molle come melma.

Volevo portarti nel posto più lontano in cui ancora potevamo toccare. Non era più possibile riconoscere i nostri vestiti lasciati a riva, né vedere davanti a noi la sponda opposta a decine di miglia oltre. In piedi in mezzo al mare come in un’enorme piscina, solo noi.

Fu allora, quando cauti iniziammo a staccare i piedi da quel limite di sabbia così lontano da tutto, che fui colpito. Il dolore lancinante rimase bloccato, concentrato, nel punto esatto in cui l’aculeo era entrato scattando come il meccanismo di una trappola dall’esile groppa dell’essere nascosto sotto la rena. In quello spazio sconfinato il mio piede lo aveva trovato e lui, sempre proteso in difesa verso l’alto, non si era tirato indietro.

Annaspai, e fosti tu a portarmi a riva, ad adagiarmi sulla sabbia, a trascinarmi all’asciutto.

Intanto il dolore mi riempiva, gonfiando il mio piede sinistro di veleno, lo strazio che si stava irradiando da sotto il secondo dito fino al cervello si sarebbe trasformato in un dolore mangia-carne. Sempre di più da lì alle prossime ore, lo sapevo. Fosti tu a passarmi la fiamma dell’accendino bic scovato scuotendo i miei pantaloni a rovescio per tentare di neutralizzare il termolabile fluido tossico. Sempre tu a recepire le mie indicazioni studiate sui libri o per sentito dire su come affrontare la situazione. Tu a reggere il mio peso a stampella fino alla macchina. Tu a guidare fino alla farmacia prima, alla guardia medica poi in quella domenica di fine settembre. Tu a prendere le mie chiavi dal cruscotto.

Varcammo così la soglia di casa mia per la prima volta insieme.

Rimasi a letto tre giorni e tre notti.

In preda alle dracotossine deliravo e facevo sogni agitati, ma quando aprivo gli occhi c’eri tu. O il tuo volto, i tuoi occhi bellissimi che mi scrutavano da vicino erano parte dei miei sogni? Avrebbe forse dormito placido per millenni non visto da nessuno il triste pesce drago nascosto in fondo al mare, se con il mio tocco di bacchetta magica non lo avessi risvegliato dal suo atavico torpore.

Più simile a un’iguana per la pancia schiacciata a terra, le pinne laterali con le quali sembra tenersi stretto alla sabbia e la nera cresta dorsale velenifera che incornicia il grosso volto di rana come una corona, gli occhi a palla sempre socchiusi e la smorfia della bocca verticalmente rivolta all’ingiù più che pauroso lo fanno sembrare triste e ottuso. Come cane alla catena se ne sta in perenne attesa, raggomitolato a guardia dei suoi piatti fondali pronto a scacciare chiunque non ne voglia capire la regalità. Con la sua aggressività ostentata, unico suo modo di essere, che cosa vuole proteggere? A chi porge i suoi meschini servigi? È di suo dominio il regno della melma?

Sei rimasta ad accudirmi per tutto il tempo, per te un quasi estraneo, muovendoti liberamente in casa in una casa in cui non avevo fatto in tempo a invitarti.

Mentre imparavo il cerimoniale del duello col pesce ragno fatto di affronti fieri e spettacolari danze intimidatorie, di sguardi fissi, balzi e contorsioni, tu trovavi dove tenevo il caffè, prendevi le misure con i serramenti e gli interruttori, curiosavi forse nei miei cassetti, riempivi il frigo con fugaci uscite verso l’alimentari di paese. Eri bella in casa mia.

Se quando aprivo gli occhi non incontravo i tuoi, bastava volgere l’orecchio verso la cucina per sentire il rumore di qualcosa che stavi preparando o della tv che tenevi a fil di voce per non svegliarmi.

Così, mimetica, ti sei infilata in una vita non tua per amor mio. Così, mimetica, sei entrata nella mia vita e nelle mie stanze facendole tue. Mi crogiolavo nel piacere di averti lì con me, premurosa e preoccupata per il mio stato di salute.

L’incubo del pesce ragno non mi ha più abbandonato per giorni, sdraiata al mio fianco, mi tamponavi la fronte madida di sudore a causa del veleno e io ti raccontavo la sua storia. Me lo immaginai custode del grande vulcano e iniziai dicendoti che c’era una volta il luogo remoto in cui giace addormentato un colosso degli abissi e che io una volta volli andarlo a trovare. Tu, la mia piccola attenta con gli occhi spalancati dalla curiosità, io il tuo cantore di storie.

Al centro esatto del mare, protetto della curva dolce che la punta della penisola forma con l’isola grande, nel punto più remoto un colosso degli abissi giace addormentato.

Andai a incontrarlo qualche tempo prima di conoscerti, quando il mio unico interesse era capire come e quanto e perché appartenessi al mare. 39°15’00″N 14°23’40″E centoquaranta chilometri dalla costa est, centocinquanta dalla costa sud, le coordinate precise che da allora per abitudine recito a memoria neanche fosse una cabala o una formula magica. Andai sfruttando un viaggio organizzato dal Centro per rilasciare i brevetti istruttori. Eravamo quindici tra esaminatori e esaminati, per congedarci decidemmo di raggiungere la città sommersa; era dicembre.

Arrivammo con un pullman affittato apposta, troppo grande per noi, viaggiammo di notte e all’alba ci facemmo largo nelle strade strette ricavate tra antichi templi e i moderni impianti di depurazione dei molluschi fino a fermarci davanti alla sbarra di accesso.

Avevamo tre giorni; i primi due li avremmo passati a completare le esercitazioni per il rilascio del brevetto professionisti, il terzo avremmo partecipato alla realizzazione del presepe subacqueo. Ma io avevo altri piani, avrei disertato la deposizione della Madonna per raggiungere il mio centro del mondo.

E così al porto trovai qualcuno che potesse accompagnarmi e mi misi d’accordo per un’escursione in barca.

La Sirena dei Mari, così si chiamava, non aveva grandi attrezzature e trovare il punto corrispondente all’apice non fu semplice. La giornata era tiepida e l’energia che sentii avvicinandomi fu enorme. Mi preparai come se dovessi incontrare il mio Dio: una forza magnetica mi attirava e mi tratteneva. Scesi in immersione sapendo che sarebbe stato un incontro virtuale, eppure mi bastava. Cinquecento metri sopra la sua testa, non vidi neanche un granello della roccia che lo formava, ma sentii comunque forte la potenza del magma solidificato nei millenni che si innalzava mastodontico dal fondo per quasi quattro chilometri.

Il più grande vulcano d’Europa, cuore nascosto del nostro mare, probabilmente il maggiore responsabile delle fattezze della porzione di mondo in cui le vite nostre e dei nostri antenati hanno proliferato. Divinità dormiente posta nel punto più profondo, tana magica e incarnazione del pesce-incubo che avrebbe animato i miei deliri di fine settembre. Giorni sospesi in cui tu facevi incursioni salvifiche nei miei sogni e soprattutto nella mia realtà.

Un dito mi sei costata.

Il secondo dito del piede sinistro, che da allora non posso più piegare, ho sacrificato al pesce-drago, dio di tutti i fondali che osai calpestare, per ricevere le tue cure e i tuoi baci d’amore.

L’immersione sulla sommità del vulcano durò poco, il cielo bianco di dicembre di colpo si rannuvolò e il mare viola e opaco in cui ero iniziò subito ad agitarsi. Tornammo al porto sulla più che traballante Sirena dei Mari. Sapevo di essermi avvicinato all’essenza salvifica dell’acqua, l’origine delle cose. Arrivai giusto in tempo per rituffarmi nelle placide acque della città sommersa.

Con gli allievi istruttori ci muovemmo in bassi fondali antropomorfi incontrando gli sguardi di marmoree popolazioni a guardia della città balneare più in voga dell’antichità che, complice un’esplosione di fuoco del mio padre vulcano, il mare volle fare sua. Ci infilammo nei discorsi bloccati da secoli di creature ibride, ormai colonizzate da attinie e alghe, crostacei e policheti fissili, coralli e gorgonie; esseri curiosi di carpire gli umani segreti forse nascosti nelle espressioni di quei volti fieri e nelle gestualità auliche di statisti e guerrieri valorosi. E soprattutto tra i riccioli scolpiti delle splendide capigliature di divinità terrestri.

Trovai i miei compagni sul fondo, in uno spiazzo mosaicato più o meno circolare rubato al moto naturale della rena nello sforzo coprire tutto ciò che era stato il pavimento di una villa imperiale, adagiati come le statue che contemplavano e mi aggiunsi a loro, mentre dall’alto, ben imbragata, la statua della Madonna veniva lentamente calata in mezzo a noi.

Vorrei essere tornato con te nell’abisso, averti portata a conoscere l’energia vulcanica sommersa che dà vita alla terra e al mare, perché tu per me sei stata quella precisa forza vitale, il mio vulcano sommerso, la mia tana magica.

Ho provato a trattenerti, a offrirti la bellezza e l’immortalità dell’esistenza, ma ti mentivo come fanno tutti gli innamorati perché nulla è immortale qui. Per qualche tempo tu sei stata la mia eroina salvifica ma poi sei andata via con forza, hai reagito in modo così poderoso all’aborto ricoprendo di lava incandescente il nostro rapporto, scuotendo con violenza la mia esistenza. Forza che genera e che distrugge. Tu sei sempre stata la forza mentre io evidentemente non ho mai saputo dimostrartene. Ma se riuscissi a trovare la ragazza scomparsa in questa profondità che ribolle di energia mortifera, forse potrei provarti che anche io so reagire ma che la mia energia è simile a quella delle onde che poi si disperdono, inafferrabile come la fissità del mare.

— Il testo di Caterina Mazzucato è ripreso dalle pagine di Io sono il mare.

ARTICOLO n. 96 / 2024