ARTICOLO n. 73 / 2024

HAN KANG, LA RIVOLUZIONE DI UNA LETTERATURA MINORE

La Premio Nobel per la letteratura 2024

Han Kang, prima scrittrice (sud) coreana e diciottesima donna a vincere il premio Nobel per la letteratura: queste le principali informazioni fornite dalla maggior parte delle testate giornalistiche che hanno riferito la notizia. Generalmente, l’attribuzione di tali onorificenze è trasferita su un’eccezionalità legata all’appartenenza a qualche tipo di minoranza di genere, etnica o linguistica, quantomeno percepita.

In realtà, l’autrice de La vegetariana rappresenta un paradosso interessante nella sua esibita volontà di apertura all’ibridazione, a una letteratura intesa come tensione e riflessione continua sulla lingua e sulla comunicazione. Come la protagonista de La vegetariana, suo romanzo d’esordio, Kang accoglie la lezione di Bartleby alla perfezione inoltrandosi nel più vasto territorio della “world literature” già auspicata da Goethe e che, come afferma Franco Moretti, rappresenta ancora oggi una sfida, un’ipotesi.

Questa provocazione si concretizza in una prosa definita dall’accademia svedese “poetica” ma che potrebbe essere piuttosto intesa come sperimentale nel suo soppesare parola per parola, nel procedere per sottrazione fino alla rarefazione con l’obiettivo di raggiungere lo scheletro di ciò che è umano e della letteratura come narrazione basilare di questa umanità. Non a caso i pareri della critica di mestiere e dei lettori più o meno forti non sono unanimi, a conferma anche dell’intento politico e sovversivo perseguito dalla prosa pacata – ma editorialmente ben diffusa – di Kang. Il lettore, infatti, è spesso disatteso nelle sue aspettative, posto di fronte a una continua deterritorializzazione.

Kang si sottrae apertamente al piedistallo della “periferia” instradandosi, invece, in quella che Deleuze e Guattari hanno definito letteratura minore che “non è la letteratura di una lingua minore ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore”. Quando, infatti, nel 2016 Kang vince il Man Booker International Prize per La vegetariana (2007, uscito in Italia per i tipi di Adelphi nel 2016), condividendo il premio con Deborah Smith, la sua traduttrice britannica, le polemiche si concentrarono soprattutto su questioni di leggibilità e di identità culturale nei confronti della lingua originale. Secondo il parere dei detrattori, il successo di Kang in occidente dipenderebbe da una traduzione poco accurata del suo stile diafano, profondamente radicato nella tradizione letteraria coreana. Ma il tradimento della lingua madre, inteso etimologicamente come trasmettere, consegnare, risponde in modo intrinseco alla necessità di raggiungere un destinatario. La risposta a questa diatriba è già contenuta ne L’ora di greco del 2011 (pubblicato in Italia soltanto nel 2023) dove la deterritorializzazione linguistica si fa esplicita, regressiva, sottraendosi alla violenza della Storia intesa anche come connotazione etnica e culturale.

In quest’ultimo romanzo pubblicato in Italia, si fa spazio una sorta di trattazione teorica sulla lingua che proprio nel suo evolversi e diventare veicolo d’uso necessariamente si corrompe, perde le sue strutture rigide e preziose volgendo al degrado. Si tratta, tuttavia, di un degrado necessario affinché essa si plasmi trasformandosi, così, in strumento di contatto: «Dal momento in cui una lingua arriva al suo apogeo, la sua evoluzione segue un tracciato più lento e graduale, via via si modifica e diventa più facile da usare. In un certo senso declina, si contamina, ma da un altro punto di vista potremmo considerarlo un progresso. Le odierne lingue europee sono il prodotto di una lunghissima trasformazione che le ha rese meno rigide, meno accurate, meno complesse» (L’ora di greco, p. 31).

La corruzione della lingua d’uso – e di conseguenza e per esteso della comunicazione anche letteraria – rende costante in Kang l’impossibilità di un significato univoco, certo, provocando in chi legge un profondo spaesamento delle proprie possibilità interpretative. La comprensione dei fatti e dei comportamenti dei personaggi rimane sospesa, aleggia sulla narrazione a volte in modo quasi sfiancante. Il senso sembra puntualmente riconducibile a un significante che risponde a una logica “altra”, alternativa a un processo di indagine razionale. Da qui il ricorso alla polifonia, alla parcellizzazione dei punti di vista come accade proverbialmente anche in un romanzo più concreto come Atti umani (2016). Qui la ricostruzione storica non si fa indagine né recriminazione ma narrazione, al tempo stesso veritiera e verosimile, della rivolta di Gwangju del 1980. All’epoca dei fatti Kang aveva nove anni e nella sua revisione a posteriori non viene meno all’ossessione di riportare tutto a misura d’uomo anche quando la Storia appare come un gigante che travolge minuscole esistenze.

A quel punto, ogni dettaglio esistenziale viene per l’appunto ingigantito mischiandosi a una paratattica narrazione degli eventi, in un doloroso alternarsi di immagini interne ed esterne ai personaggi. Qualsiasi distinzione tra memoria storica e memoria individuale si confonde e viene in qualche modo negata. Nella definizione di letteratura minore fornita da Deleuze e Guattari, ogni gesto individuale si fa politico e collettivo. In Atti umani ogni singola vita narrata o solo accennata sembra significativamente unirsi a un coro che urla il proprio dolore in una bolla insonorizzata. Il ricordo si fa strada come un linguaggio possibile così come quello onirico, altrettanto significativo ne La vegetariana, dove il sovvertimento della logica simmetrica del sogno si fa strada, smantellando il senso delle azioni della vita quotidiana della protagonista e delle persone che la circondano, come una sorta di epidemia: «Forse a un certo punto, Yeong-hye ha semplicemente lasciato cadere l’esile filo che la teneva legata alla vita di ogni giorno! (La vegetariana, p.163).

Il rifiuto di mangiare carne e poi di mangiare del tutto rappresentano l’atto più estremo del riconoscimento del dolore che è necessariamente anche fisico: «La vita è così strana, pensa dopo aver smesso di ridere. Le persone, anche dopo che gli sono successe certe cose, non importa quanto terribili, continuano comunque a mangiare e a bere, ad andare al bagno e a lavarsi – in altre parole, a vivere. E a volte ridono perfino di gusto. E probabilmente hanno questi stessi pensieri, e quando succede si ricordano tutta la tristezza che erano riuscite per breve tempo a dimenticare» (La vegetariana, p. 164).

Come il digiunatore di Kafka, la vegetariana di Kang rimanda alla necessità di tornare all’assoluto umano, alla necessità di una scrittura così magra da far intimidire il superfluo del nostro tempo. La deterritorializzazione si fa quindi defunzionalizzazione delle azioni fisiologiche abituali, si concretizza nel rifiuto del cibo e della parola, ma si rianima nel desiderio di una compenetrazione sempre più profonda con la natura, o meglio, con una condizione vegetale, precosciente, in cui il linguaggio diventa così essenziale da trasformare mittente e destinatario in una diade. I nomi propri, infatti, sfumano spesso insieme ai volti, come sovrastrutture accessorie della conoscenza di sé, degli altri e di un destino comune che azzera sembianze e connotati.Probabilmente in questo svanire del tu e dell’io si realizza la prosa “poetica” di Kang, nella capacità di far penetrare il potenziale mimetico della poesia all’interno della plurivocità romanzesca, realizzando così la rivoluzione possibile di un’orgogliosa letteratura minore.

ARTICOLO n. 93 / 2024