ARTICOLO n. 53 / 2024

GRAMSCI AL SUGO

Ricette di destra e riappropriazione culturale

Un “Gramsci di destra” non esiste. È un anti-gramscismo, cioè la negazione dell’autore dei Quaderni del Carcere, fondatore del partito comunista italiano e de L’UnitàEppure, la trovata è diventata popolare in un ceto intellettuale che è andato al potere in Italia. Nel governo Meloni c’è chi ha evocato la sua ombra dal Ministero della Cultura. Dopo Dante, Gramsci farebbe parte di una “cultura della destra”. Proprio lui che ha fatto a pezzi un’altra invenzione del moderatismo liberale: la linea ideologica De Sanctis-Croce-Gentile. Proprio lui che è stato ucciso nelle carceri dei fascisti, oggi si ritrova involontario protagonista del nazionalismo culturale dei loro eredi. Gramsci è pronto a essere venduto come un pacchetto vacanze. Oltre ai centri storici trasformati in luna park da turisti, tocca vendergli anche le primizie nostrane. Gramsci è la merce culturale che sta tra il fungo cardoncello e il resort ballardiano costruito per i VIP del G7 in vacanza in Puglia.

Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti 
Voci su un Gramsci “di destra” sono arrivate in televisione anche da chi è stato nominato in posti di sotto-governo. Nei musei, per esempio. È stato scritto un libro, poco più di una collezione di testi improvvisati, sul fatto che Gramsci è vivo. Più che soffermarsi su pagine modeste è più interessante notare come uno dei pensatori che ha cambiato la teoria della rivoluzione comunista in occidente sia stato ridotto a un insignificante pensatore “liberal-democratico”. Non è la prima volta che accade. Tempo fa, ci hanno provato i liberal-liberisti della “sinistra”. Quelli che, dalla svolta della Bolognina in poi, hanno trasfigurato Gramsci in un filosofo funzionale al progetto di integrazione dei resti dell’ex partito comunista nell’establishment che ha co-gestito la drammatica transizione al neoliberalismo dagli anni Novanta.

Il lavoro di neutralizzazione e di reinvenzione di Gramsci è servito a giustificare il passaggio dalla Chiesa comunista a quella liberista. Così gli ex comunisti sono diventati gli ultras del nuovo verbo capitalista. Da subalterni e convertiti hanno usato Gramsci come un teorico del consenso che spinge le masse ad accettare le politiche neoliberali contrarie ai loro interessi: aziendalizzazione della sanità e della scuola, precarizzazione del lavoro e della vita, dismissione di un welfare già caricaturale, spostamento della ricchezza pubblica verso quella privata.

È questo Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti e del ceto politico di turno che interessa al personale intellettuale che ha fatto carriera nella destra di governo. Dalla sinistra liberista alla destra nazionalista: l’appropriazione di Gramsci è una ricetta preparata in salse diverse. Ieri, come oggi, avviene in nome del moderatismo, dell’opportunismo, dell’indifferentismo e del morfinismo politico. Le pratiche criticate da Gramsci nella storia italiana. Oggi sono usate per sussumerlo nell’egemonia dominante. 

“Egemonia senza lotta di classe”
Il concetto più gettonato dal “Gramsci di destra” è l’“egemonia culturale”. Di questa idea importante è fatto un uso derisorio. Viene cioè intesa come il sinonimo di una narrazione pubblicitaria e televisiva che stabilisce la legittimità di chi può parlare nei talk show della sera. Questa idea non va banalizzata più di quello che già fanno i suoi sostenitori. Va intesa nell’ambito di un’operazione sistematica, realizzata ai danni di Gramsci, dal neofascismo e dal pensiero della cosiddetta “Nuova destra”, in particolare quella francese, a partire dagli anni Settanta del XX secolo. 

Una traccia di questo lavoro culturale è stata fornita in questo video da Marion Maréchal-Le Pen, la nipotina ex ribelle di Marine Le Pen da poco rientrata nei ranghi del Rassemblement National in Francia per ragioni di convenienza politica. Con il partito della zia alle soglie del potere non ha senso fare la fronda in un partito razzista collaterale. In una serata culturale organizzata in Liguria nell’estate 2018 Maréchal-Le Pen ha esplicitato chiaramente il senso per Gramsci delle “nuove” destre. A loro non interessa “la sua ideologia di sinistra”. Interessa “un Gramsci senza la lotta di classe”. Gramsci sarebbe colui che ha creato “il metodo di conquista del potere”. “Prima di sperare di vincere politicamente ed elettoralmente – ha continuato Maréchal-Le Pen – dobbiamo vincere sul fronte culturale. Bisogna fornire una risposta culturale da parte dei conservatori, non per un partito politico, non per ragioni elettorali, ma per la società nel suo complesso”.

L’idea di separare Gramsci dalla lotta di classe risponde a una strategia più ampia, quella dell’anticomunismo. Tanto più in effetti manca una politica comunista, tanto più forte è il suo fantasma usato contro le “sinistre”, anche quelle più moderate e ignare della stessa opera di Gramsci. Sull’anticomunismo si innesta la strategia del rovesciamento delle destre contemporanee. Si prendono le idee dell’avversario e le si rovesciano nel loro opposto. Così facendo si sostiene in modo ingannevole di essere dalla parte dell’avversario, attingendo elementi parziali ed errati dalle sue analisi al fine di creare confusione e togliere la credibilità alla parola della “sinistra” che non sa più di cosa parlare, con chi e perché. Soprattutto da quando ha rinunciato al rapporto tra teoria e prassi e ritiene che una politica può esistere se va in televisione o su Internet e non organizza la lotta a partire dai quartieri popolari, nei luoghi di lavoro e in quelli della festa e della produzione culturale dal basso. 

L’egemonia alla quale pensano Maréchal Le Pen e le altre destre reazionarie euro-americane può essere allora sintetizzata in una formula: anti-comunismo che si salda con l’idea proprietaria e capitalista della libertà, con l’odio dell’uguaglianza, il familismo eteronormativo e il razzismo culturalista e etnodifferenzialista, a cominciare da quello anti-arabo e anti-musulmano. 

“Guerra delle idee”: un’inchiesta
Diversamente da quanto si crede, la “guerra delle idee” è solo alla lontana riferibile all’idea gramsciana di “egemonia culturale”. Si tratta invece di un’allusione a una teoria del sociologo americano James Davinson Hunter. Ad avviso di Hunter la “battaglia delle idee” sarebbe una riattualizzazione delle guerre di religione in società secolarizzate dove il conflitto di classe sembra essere stato sostituito da quello sull’identità personale, culturale, religiosa o sociale.

La variante di “destra” di questo ragionamento, oggi prevalente, consiste nell’interpretare gli orientamenti di una maggioranza virtuosa e morale, non più “silenziosa” ma molto loquace grazie ai social network, che prende parola contro la cultura “elitaria” di una sinistra “borghese” ostile al «popolo». C’è anche una variante “di sinistra” di questa lettura riduttiva dell’egemonia culturale gramsciana adattata all’insipida minestrina dei pubblicitari che hanno fatto carriera tra i sondaggisti e tra i narratologi prestati alla propaganda elettorale. Questa “sinistra” ha inizialmente preferito l’identità – di sesso, razza o genere – alla moralità delle condotte prescritte dalla destra e ha pensato di liberare le minoranze oppresse dal giogo del potere maschile bianco.

L’affermazione dell’egemonia neoliberale tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento ha complicato questo progetto al punto che si è iniziato a contrapporre i diritti delle persone mettendo in secondo piano, o rinunciando del tutto in altri casi, alla loro connessione con la lotta di classe. Questa compagine “di sinistra” si è ritrovata in ostaggio di uno scontro tra identità culturali essenzializzate, costruite su criteri normativi impenetrabili e fortemente polarizzanti. A questo scontro collaborano anche coloro che evocano la priorità dei diritti “sociali” su quelli “civili”, ma non hanno un’idea di classe e così stabiliscono una gerarchia dei diritti dove al vertice si trova un’identità più “universale”, quella di un “popolo” idealizzato rispetto alle altre considerate parziali.

L’egemonia culturale per i “gramsciani di destra” consisterebbe nell’appropriazione e nel rovesciamento nell’opposto dei valori dell’avversario. Si prendono cioè i valori liberali dell’autonomia o della libertà di parola e quelli “sociali” della protezione paternalistica e autoritaria dello Stato che si occupa della famiglia eteronormativa. E li si brandisce contro l’avversario: una “sinistra” neoliberale fantasmatica, generica e senza distinzioni. Contro di essa è stata scagliata l’accusa di “totalitarismo” poiché intenderebbe determinare cosa può essere pensato e come le opinioni possano essere espresse. 

Contro la nuova polizia di questa cosiddetta “sinistra” gli “anti–autoritari” di destra hanno valorizzato il personaggio del moralista trasgressore, un’individualità eroica già presente nella tradizione avanguardista delle destre fasciste. Questo personaggio si palesa preferibilmente sui social network dove usa una finta ironia passivo–aggressiva, accompagnata da meme, immagini e video. Esibisce una cultura del non–conformismo, della trasgressione e dell’irriverenza fine a se stessa. Non si tratta solo di uno stile comunicativo, ma di una cultura politica che si è forgiata nel limbo dei forum e delle piattaforme digitali dove si usano i linguaggi oggi prevalenti su Internet: l’aggressione verbale fino all’istigazione al crimine, le fantasie di stupro o omicidio contro le donne, in particolare quelle impegnate nelle lotte femministe, rese oggetto di odio e di disprezzo. 

Molti degli “intellettuali” di destra perbenisti o liberal-conservatori potrebbero anche inorridire davanti agli orrori e alle violenze del vero fascismo digitale. Non è escluso che l’ondata politica di cui oggi loro sono le comparse non liberi soltanto la parola sessista e razzista, ma anche le pratiche della violenza fascista organizzata. 

Cos’è l’egemonia
L’egemonia per Gramsci è irriducibile a qualsiasi teoria del potere imposta più o meno surrettiziamente. Non è né una microfisica elettoralistica del potere, né un dominio puro e semplice esercitato dallo Stato attraverso la polizia, né un indottrinamento attraverso i suoi apparati ideologici. L’egemonia non è nemmeno un semplice rapporto pedagogico tra il potere, gli intellettuali e le masse amorfe. Non ha nulla a che vedere con il rapporto commerciale tra il venditore di merci e il consumatore di “offerte politiche”, né con quell’altro gerarchico tra maestro e allievo. In entrambi i casi, i consumatori come gli allievi, sono trattati come bambini che non capiscono le “riforme” ma che devono essere soddisfatti perché altrimenti abbassano il ranking del gradimento dei partiti nelle elezioni politiche. 

Il consenso democratico che sta alla base dell’egemonia gramsciana non può essere equiparato né al consenso passivo né al consenso mediatico. Invece è un consenso attivo, la costruzione di un’intesa, di una volontà collettiva fondata sull’unità tra governati e governanti, attraverso un costante passaggio da una condizione all’altra. Creare l’egemonia significa cioè riflettere sulle condizioni di possibilità e di realizzazione del futuro intellettuale, politico ed etico di tutti. 

L’egemonia è lo sviluppo intellettuale di qualsiasi persona nel dirigere la società e nell’autodeterminare la propria esistenza.

“Guerra di posizione”
Tutto questo avviene attraverso la lotta di classe con la quale il partito – il “Nuovo principe” di Gramsci – si rapporta, organizza, rilancia, ma non determina dall’alto. Il partito segue la lotta di classe, come quelle ambientaliste anti-razziste e anti-sessiste, cerca di valorizzare la loro autonomia, prova a collegarle insieme a tutte le organizzazioni indipendenti della “società civile” che si formano in queste lotte. Estende la loro organizzazione in tutta la società, oltre che nei luoghi di lavoro, in maniera non gerarchica e alla luce di una strategia trasversale della convergenza e dell’insorgenza. 

Ripensato con Gramsci il dibattito magmatico che si svolge oggi sulla “intersezionalità” delle lotte e sulle loro “alleanze” assume un interesse ulteriore. A queste pratiche, infatti, Gramsci può dare l’idea di “guerra di posizione”. Questo tipo di “guerra” coincide con l’egemonia politica. Bisogna però fare attenzione a non intendere la definizione nei termini solo ed esclusivamente militaristi o di occupazione delle istituzioni.  L’egemonia è il contrario: è l’azione di direzione della società e di autodeterminazione degli individui. Questa azione serve a “riassorbire la società politica nella società civile” e a riarticolarla attraverso la disseminazione dei poteri tra i mille fuochi dell’autonomia popolare e soggettiva presenti nelle società contemporanee. 

In questo obiettivo si riconosce quello marxista dell’“estinzione dello Stato” completamente sconosciuto alle destre. La “presa del potere” al quale esse inneggiano è invece per Gramsci la fine del potere capitalista, e di Stato, sulle masse. Gramsci pensava a un sistema di principi, e dunque a una egemonia, di una democrazia comunista che escludeva “accuratamente ogni appoggio anche solo apparente alle tendenze “assolutiste”. Ieri il gramscismo si opponeva allo stalinismo trionfante, oggi potrebbe farlo contro il neoliberalismo senza democrazia al quale si stanno riducendo i liberalismi “democratici”.

Tabù
Perché allora le destre postfasciste e i conservatori neoliberali scartano la lotta di classe da Gramsci? Perché sono subalterni alla vera egemonia del nostro tempo: il neoliberalismo. Quella che parte dall’assunto per cui la lotta di classe sarebbe morta con quel capitalismo totalitario e omicida che è stato lo stalinismo sovietico e oggi vivremmo nella società del “libero mercato” che coincide con l’“occidente”. Non è vero, e mai lo sarà. Il problema è che la lotta di classe non ha direzione, e si svolge al contrario. Cioè è una guerra tra i penultimi e gli ultimi. Parliamo di un conflitto regressivo che segue la linea del colore ed è basato sulla paura. I neoliberali conservatori, e le destre razziste, lo usano come strumento di persecuzione dei migranti e per segmentare la società attraverso un’apartheid flessibile e spietata.

Gramsci allora lo vorrebbero mettere al lavoro con l’obiettivo di prendere possesso delle leve del potere per realizzare, senza freni, una strategia avviata da tempo da altre forze politiche. All’esterno, e con la complicità di una borghesia senza scrupoli che ha perso ogni rapporto con l’idea di democrazia, ciò permetterebbe alle “nuove” destre di guidare in maniera autoritaria la complessa macchina neoliberale “occidentale” che sta affrontando una nuova guerra con i capitalismi neoliberali concorrenti (cinesi, russi ecc.). All’interno, Gramsci servirebbe a queste destre a fare la guerra contro i subalterni. Un paradosso, in effetti. Ma questo significa neutralizzare il suo pensiero sottraendolo a una sinistra politica e sindacale che lo ha sostanzialmente dimenticato, almeno in Europa. Non certo altrove dove Gramsci conosce, da 40 anni, un grandissimo ritorno di interesse pieno di originali declinazioni. 

Un Gramsci globale contro le riappropriazioni nazionalistiche per di più sconnesse. La riappropriazione, tra l’altro, risponde a una logica coloniale e scambia il potere per un dominio. Non è un caso che il Gramsci globale sia usato anche da coloro che pensano le strategie decolonizzatrici e si pongono il problema di come i subalterni residenti, immigrati o oppressi ed esclusi possano liberarsi.

La “cultura” che le destre vogliono imporre è una parodia del “lavoro culturale” attraverso il quale Gramsci invitava gli intellettuali e i subalterni a liberarsi delle catene e a distruggere il potere che li opprime. In tal caso il potere servirebbe per opprimere i loro simili e trasformare la “guerra di posizione” nel suo opposto di “guerra civile”. La lotta di classe, cioè la presa di parola da parte dei subalterni, in cui si inserisce l’egemonia gramsciana intesa come guerra di posizione, dovrebbe invece spaccare un simile progetto terrificante e organizzare la resistenza, già dall’interno di ciascun paese. Di questo scontro si vedono le prime scintille.

ARTICOLO n. 71 / 2024