ARTICOLO n. 21 / 2022
Di John Berger
GIOVANE DONNA CON LA MANO SOTTO IL MENTO
Traduzione di Maria Nadotti
Quando entrava in una stanza piena di gente, aveva un’arroganza quasi bizantina, tipo quella dell’imperatrice Teodora di Ravenna. Lo sapeva benissimo perché, per una come lei, l’autodifesa cominciava dall’escludere che ci si potesse prendere qualche libertà. E a rendere chiara e inequivocabile tale esclusione erano tanto la sua espressione quanto il suo portamento.
Dico «una come lei» perché era una musicista e un’émigrée, e perché il modo in cui la gonna lunga e pesante le pendeva dai fianchi quando danzava era biblico – ti faceva pensare a infinite generazioni di donne.
Era stata cresciuta dalla nonna, una contadina ucraina. Da lei aveva imparato ad ammazzare i polli, a dar da mangiare alle oche e a prendersi cura degli esaltati genitori – il padre era un violoncellista solista, la madre una pianista.
Sotto la tutela della nonna a dodici anni aveva già acquisito la sicurezza di una donna matura. Il suo primo amante era comparso quando aveva tredici anni.
Avrebbe potuto raccontare storie per un mese. Oltre al proprio fondo, aveva quello della nonna cui attingere. Buffe, vere, immaginarie, tutte le sue storie rivelavano come il mondo sia fatto di persone che, come gli uccelli durante un inverno rigido, hanno bisogno in un modo o nell’altro di essere nutrite. C’erano i corvi e c’erano i fringuelli. Quando le raccontava, si curvava su se stessa come una vecchia che pela le patate da mettere a cuocere nella minestra. La sua risata – e rideva solo quando lo facevi tu – era lieve e argentina.
Concentrata sulla penultima sonata per piano di Beethoven, quando suonava diventava rossa e sudava come una ragazza di campagna. Non riuscirò mai più a separare il pathos di quella sonata dall’odore d’erba che sta seccando del suo sudore.
Una volta mi sono messo a farle un disegno subito dopo che aveva finito di esercitarsi. Il piano era ancora aperto e lei era seduta lì accanto. Ho socchiuso gli occhi e ho aspettato. L’impulso a fare un certo disegno viene dalla mano piuttosto che dagli occhi. Forse dal braccio destro, come capita ai tiratori scelti. Certe volte penso che sia tutta questione di mira. Anche suonare l’Opus 110.
Il suo occhio sinistro a volte vaga, fino a dislocarsi impercettibilmente. In quel momento tale lieve asimmetria era quanto di più prezioso riuscivo a vedere. Se solo potessi toccarla, situarla, con il mio mozzicone di carboncino, senza darle un nome…
Lei naturalmente sapeva che le stavo facendo un disegno ed emanava qualcosa che avrebbe incontrato la mia mira. Se ciò che si sprigionava da lei non avesse mancato la mia mira, ma l’avesse toccata, c’era la possibilità che ne venisse fuori un buon disegno.
Non ho mai saputo in che cosa consista la somiglianza in un ritratto. Si può vedere se c’è o se non c’è, ma resta un mistero. Per esempio, le fotografie non hanno mai una «somiglianza». Di una fotografia non ce lo domandiamo neppure. La somiglianza ha ben poco a che fare con i lineamenti o le proporzioni. Forse nasce da ciò che un disegno riceve, se due mire s’incontrano come la punta di due dita.
A poco a poco la testa disegnata sulla carta si è fatta più somigliante alla sua. Eppure ora sapevo che non si sarebbe mai avvicinata abbastanza, perché, come può capitare quando si disegna, avevo finito per amarla, per amare tutto di lei, e nessun disegno, per quanto buono sia, riesce a essere più di una traccia.
Lì seduta, mi ha raccontato una storiella sugli abitanti di un certo paese: gente tanto gretta che, prima di andare a letto, ferma gli orologi di casa per farli durare più a lungo!
Ho cominciato ad avere l’impressione che l’evoluzione del disegno corrispondesse a un’altra evoluzione. Ogni tratto o correzione che facevo sulla carta era come qualcosa che le era stato trasmesso prima che venisse al mondo. Il disegno stava dragando il tempo. E le sue tracce erano, come i cromosomi, ereditarie.
Ti eleggo mio secondo padre, ha detto lei in quel preciso istante.
Ho disegnato la mano su cui teneva appoggiato il mento.
Alla fine c’era una specie di ritratto, in gran parte cancellato, che mi sembrava terminato, così gliel’ho porto.
Dapprima gli ha dato un’occhiata da imperatrice Teodora. Poi, nello studiarlo, è diventata completamente se stessa, una ragazza di ventun anni.
Posso prenderlo? ha chiesto.
Sì, Anjuška.
Due giorni dopo è tornata a Odessa con il suo ritratto, e io ho tenuto questa fotocopia.
Tratto da Fotocopie, © il Saggiatore, Milano 2021, edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti.