ARTICOLO n. 58 / 2023

GIANNI CELATI: RIPARTIRE

Trilogia Celatiana. Diperdersi

Joseph Cambpell ha detto in un’intervista che il trickster è «un diavolo, un pazzo, e il creatore del mondo». Ci sono tricksters in tutte le mitologie, dalla Grecia antica alla tradizione vedica, ma il termine è stato coniato negli anni Cinquanta dall’antropologo Paul Radin per parlare dei miti dei nativi americani, e non è forse un caso che la vita itinerante di Gianni Celati parta proprio dagli Stati Uniti, dove arriva per la prima volta nel 1971 per insegnare alla Cornell University a Ithaca. È negli Stati Uniti che scrive Le avventure di Guizzardi ed è dagli Stati Uniti che comincia il suo “esercizio autobiografico in 2000 battute” («Parte per gli U.S.A. – Due anni alla Cornell University – Vita nel falso, tutto per darla a bere agli altri», eccetera). Negli Usa Celati torna fino al 2000. L’anno dopo, in Cinema naturale, pubblica un racconto intitolato “Come sono sbarcato in America” che è la storia in terza persona di un personaggio che si chiama Giovanni, arriva negli Stati Uniti per insegnare e gliene capitano un po’ di tutti i colori, e durante tutta questa lunga serie di avventure, che sono avventure nel senso celatiano del termine, avventure in cui non succede davvero mai niente e in cui non si va da nessuna parte, il narratore è interessato a fare una cosa sola, e cioè scrivere una lettera per raccontare agli amici rimasti in Italia com’è l’America. E ovviamente, come nei sogni (il racconto prenderà in effetti una piega onirica, con spettri che parlano alle tavole dei diner e un gallo che canta la notte), questa lettera non riuscirà mai a scriverla.

Celati è un pazzo, nel senso di un giullare, ed è il creatore del mondo: ogni scrittore lo è, e il racconto “Come sono sbarcato in America” lo spiega bene, cioè spiega bene questa cosa ossessiva che è l’arte di narrare, questa ossessione di voler continuamente inventare l’esperienza nell’atto di raccontarla. Celati è anche un diavolo, è «ambiguo e anomalo, inganna, cambia forma, sovverte le situazioni, imita gli dèi, è un tuttofare sacro e lascivo» (Haynes e Doty, Mythical Trickster Figures: Contours, Contexts, and Criticisms). Il trickster è l’anima nera, invertita, sovversiva dell’«indiano metropolitano» del Settantasette bolognese. Celati è luce e ombra, la luce di Celati passa attraverso lo specchio e diventa ombra. Dall’altra parte dello specchio, nell’upside-down della letteratura italiana, c’è un Celati nero, esotico e mutevole, e la sua parola d’ordine è: dispersione.

Il trickster è un mutaforma, uno shape-shifter, perché assume infinite facce. È una deriva deleuziana in cui un singolo brandello di informazione, o un coagulo di informazione, cambia all’infinito rimanendo in fondo sempre uguale a sé stesso. Nei racconti e nei romanzi di Celati non ci sono veri personaggi, c’è un unico personaggio dai molti volti (Guizzardi, Menini, Cevenini) e tutti questi volti sono e non sono quello di Celati, che in questo modo diventa un vero e proprio eroe nel senso che Campbell dava al termine. Il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” è e non è Gianni Celati, la letteratura di Celati è e non è autobiografica perché, come scrive Gabriele Gimmelli, «cerca di collocarsi appena prima» che la distinzione tra fiction e non-fiction abbia luogo – ed ecco liquidato in due sole parole il «deliro burocratico» della collocazione di Celati in un genere letterario o nell’altro. Celati si è mosso per venticinque anni in giro per il mondo, tra Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Africa, ma non è mai uscito dall’Emilia. La pianura di Menini è il Mali di Avventure in Africa: la nebbia della prima si trasforma nella sabbia della seconda («Non è la nebbia che rende la vista così opaca, ma sabbia in sospensione»), lo stupore per il mondo è lo stesso («Tutta la nuvola del niente di speciale che ogni giorno ci avvolge»).

Questo perché il trickster sembra non andare da nessuna parte, o se ci va segue logiche oscure: il suo posto nell’ordine del cosmo è ambiguo. Il trickster inventa il mondo dal fango, come un demiurgo gnostico, non attraverso atti grandiosi come quelli di un dio ufficiale. Crea, ma è difficile capire il senso di quella creazione, che non è né bella né buona e certamente non è utile, e contiene in sé tanto dolore e bruttezza quanto splendore e bellezza – e tutto appare casuale, frutto di un capriccio, e imperscrutabile. Disperdersi è essenziale, perché le energie del trickster richiedono per loro natura di essere consumate, buttate al vento: il trickster deve esaurirsi per dare vita al mondo e, contestualmente, a un tipo di eroe più maturo che possa popolare quel mondo. Celati cammina e cammina, e cammina e cammina, finché non rimangono più energie, finché si è compiuto l’atto propiziatorio che mette in contatto con gli dèi, vale a dire con i demoni.

Il 15 dicembre del 1994 scrive a John Berger, che di lì a qualche anno lo accompagnerà in Emilia per girare Case sparse: «C’è qualcosa (nel tuo tama) – una levitazione spirituale […]. Ma credo che questa levitazione sia per te il risultato di una disciplina, come lo era per gli antichi Santi. Ora, è proprio il senso di questa disciplina che mi sfugge (la disciplina era il mio solo obiettivo nella scrittura, ma adesso sento il demonio in me, e il demonio è l’opposto della disciplina – è il caos)». Questo non è solo il linguaggio di un uomo in lotta con la depressione, è anche il linguaggio di un pellegrino diretto al mondo infero e in cerca del suo Caronte.

Africa

In questo mondo di sotto Celati scende attraverso percorsi paralleli, come un fiume diretto a valle si ramifica in tanti rivoli. Potremmo spiegare forse così questo strano desiderio che gli viene tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila di andare in Africa. Un desiderio pericoloso per gli standard celatiani, perché rischia di trasformarsi in un’“avventura” nel senso romantico del termine, un esotismo, una ricerca consapevole di qualcosa e, non sia mai, di una parte di sé più autentica. Infatti Celati in Africa ci deve andare con una scusa, prima quella di accompagnare in Senegal, Mali e Mauritania l’amico documentarista Jean Talon, che per un gioco del destino si chiama come un amministratore coloniale francese del XVII secolo, e cinque anni più tardi per assumere lui i panni del documentarista e filmare la vita di un villaggio del Senegal. Alla maniera del protagonista di “Come sono sbarcato in America”, durante questi viaggi Giovanni/Gianni non può fare a meno di scrivere tutto quello che vede. Ne escono due diari (Avventure in Africa e Passar la vita a Diol Kadd) e un film che è a sua volta una specie di diario (Diol Kadd appunto). E ne nasce un altro racconto di Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, che è una sorta di commento sul commento fatto da Celati delle sue avventure in Africa, una riflessione sulle sue motivazioni, un dialogo tra due volti di Celati ma anche, come vedremo più avanti, qualcosa di più. “Cevenini e Ridolfi” chiude Cinema naturale nello stesso modo in cui “Come sono sbarcato in America” lo apriva: con un resoconto scritto di un’avventura che non può mai veramente essere scritta.

Consapevolmente o meno – in queste cose non fa poi molta differenza – Celati arriva in Africa sulle tracce di quello che forse è il trickster più famoso di tutti, famoso almeno come il coyote delle leggende dei nativi americani: il coniglio Be’er, che è trasmigrato fino alla modernità capitalista nella duplice forma del Fratel Coniglietto di Walt Disney e del Bugs Bunny di Warner Bros – e che popola insieme ad altri tricksters (Bouki, Leuk) le storie wolof. Avventure in Africa è pieno di figure ambigue e sovversive, personaggi incontrati per caso che si rivelano sempre diversi da quello che sono e costruiscono mondi dove non c’erano, inventando alberghi e servizi di taxi. Ma proprio nel momento in cui arriva più a fondo nella ricerca di della sua anima nera, Celati rischia anche di cadere nella trappola della leggibilità: quando nel 2010 esce al cinema Diol Kadd sono passati vent’anni da Strada provinciale delle anime, quel primo film con le sue dissolvenze fuori moda, le sue atmosfere hauntologiche e il suo mondo di spettri destinati a scomparire. Se Strada provinciale era passato inosservato, Diol Kadd viene presentato al Festival di Roma e Celati deve fare una cosa che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare, camminare su un red carpet («Quando ho visto il red carpet volevo entrare nell’auditorium zoppicando, come Quasimodo, il gobbo di Notre Dame», scrive, ed è il trickster a parlare in lui. «Se mi sento a disagio, comincio a fare lo scemo».) Diol Kadd rischia, cito ancora da Gimmelli, «l’alone ecumenico di capolavoro», e infatti riceve il premio come miglior documentario sociale. Il pericolo dell’altromondismo è concreto per quello che è il suo «film più costruito e tradizionale», il suggello dello status scomodo di «classico in vita».

Tanto più che Celati il discorso sul colonialismo lo sta affrontando, in una maniera o nell’altra (cioè in maniera disordinata: ricordiamo il demone del caos) fin dai tempi del suo primo matrimonio con Anita Licari, italo-tunisina che aveva sposato nel 1966. Celati andava nella Tunisia da poco diventata indipendente e Anita, che era francesista a Bologna, nel 1978 pubblicava con Roberta Maccagnani e Lina Zecchi un libro intitolato Letteratura esotismo colonialismo. L’introduzione di Celati (“Situazioni esotiche sul territorio”) propone – scrive Gimmelli – «la via di fuga […] della flanerie intesa come viaggio nell’indifferenziato»: propone cioè da un lato di «recuperare l’esotismo nei termini deleuziani di una riterritorializzazione del mondo» e dall’altro di «riappropriarsi dell’idea di avventura liberandola dalle incrostazioni dello sguardo coloniale». Non dimentichiamo che siamo negli anni di Alice disambientata, il testo più deleuziano di Celati. Dunque andare in Africa per liberare lo sguardo dall’idea dell’Africa, dell’esotico; andare in Africa per perdersi, per disperdersi. Ma anche per riterritorializzare il movimento di quella perdita e di quella dispersione: è un equilibrio sottilissimo e forse Celati non l’avrebbe mai raggiunto con la scrittura e l’ossessione della scrittura di dire quello che non c’è, il suo implacabile impulso a creare mondi. Per arrivare in quel punto ci voleva l’occhio “oggettivo” del cinema.

Cinema

Facciamo un passo indietro. Come abbiamo visto, Celati al cinema aveva esordito nel 1992 con Strada provinciale delle anime¸ ma l’avvicinamento alla macchina da presa era stato lungo e laborioso, al punto che potremmo dire che nell’opera celatiana il cineasta è fin dall’inizio parallelo allo scrittore, anche se nascosto: una sorta di ombra del Celati ufficiale. Tant’è che già Alice disambientata aveva dato origine a un breve film, nato in parallelo alla scrittura collettiva del libro, e che diverse idee di progetti erano nate e tramontate prima che Strada provinciale arrivasse a essere trasmesso in TV. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’aspetto ricorsivo del metodo di lavoro celatiano, il percorrere e ripercorrere gli stessi sentieri. E ancora una volta ci troviamo al cospetto di una forma del trickster, questa volta quello che si trova nell’«anima della commedia», come ha scritto Eric Weitz, la figura «dispettosa, ingenua, indulgente, piena di risorse, guidata dagli istinti di base e vitale che popola le sfere dell’intelligenza illogica che chiamiamo solitamente “humor”». Non è un caso che, come ha notato Marco Belpoliti, gli interessi cinematografici di Celati partano dalla slapstick comedy, al punto da «eleggere Buster Keaton a figura-guida».

Ma un altro parallelo tracciato da Belpoliti mi sembra qui particolarmente interessante: quello con il cinema di Dziga Vertov (parlando di Diol Kadd: «il racconto si svolge a Diol Kadd, ma potrebbe essere un villaggio della campagna ferrarese o friulana degli anni Cinquanta o Sessanta. Una cronaca minuta e senza nessuna pretesa di esaustività; immagini terse, pulite, sguardi ampi, e visioni scorciate, viste attraverso gli ingressi delle case e delle capanne, come se a girare il tutto fosse stato un Dziga Vertov lirico e postsovietico»). Da Vertov, Celati sembra mutuare quel «carattere testimoniale della registrazione meccanica» (Enciclopedia Treccani) senza il quale si rischierebbe di sprofondare nel soggettivismo esasperato della scrittura, nella tentazione della creazione del mondo a cui tentano inutilmente di sottrarsi il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” e il Cevenini di “Cevenini e Ridolfi”. Ricordiamo il linguaggio della lettera del 1994 a Berger: il tama (il sapere occulto della tradizione vedica), la «levitazione spirituale», gli «antichi Santi», il «demonio»: è evidente che qui Celati ha abbandonato il cinema come puro movimento, il cinema come sovversione dell’ordine, e sta cercando – anche, ma non solo, attraverso il cinema – una forma di spiritualità.

Quindi è logico che alla fine scelga proprio Berger come animus per il suo film più hauntologico e destrutturato, è logico che Berger faccia il ruolo di traghettatore verso una sorta di aldilà, ed è logico che questo viaggio verso gli inferi passi per la Pianura Padana: Case sparse è un viaggio nel mondo di sotto e come tale non può che essere un ritorno laddove tutto è cominciato, l’Emilia; è un viaggio nella malinconia, personale e collettiva, privato del senso del tragico (che in Celati non esiste nemmeno nei momenti più cupi); è, letteralmente, uno sguardo alla casa che crolla e che ci si lascia alle spalle – e non per niente dopo Case sparse Celati all’Emilia nel suo lavoro non ci torni più, come se un percorso si fosse finalmente esaurito. 

Attraverso l’Inghilterra di Berger Celati può tornare all’Emilia e lasciarla andare: ciò che segue nei dieci anni successivi, gli ultimi significativi della produzione celatiana, è l’Africa, il (post)esotico, l’altrove. Berger è una figura infera perché conduce alla morte, permette di attraversare la morte, permette di guardare finalmente il mondo dall’altra parte della morte, come succede alla protagonista del racconto “Nella nebbia e nel sonno” che vede tutte le cose coperte di polvere, come saranno in un futuro postumo. Permette di arrivare appunto a un “cinema naturale” della mente, dove le cose scorrono come su uno schermo nella loro naturalezza: permette, cioè, di arrivare a una sorta di pace.

Pace

Il cinema di Celati parte dal movimento sovversivo e asignificante della slapstick comedy e arriva al lirismo calmo, a suo modo trascendente, di Diol Kadd; nell’esotico, o meglio nel post-esotico, il movimento si deterritorializza per riterritorializzarsi in una dimensione diversa, eterea; l’irrequietezza dello scrittore-camminatore, dello scrittore che per scrivere deve esaurire e disperdere le proprie energie, arriva a un fragile, precario punto di stasi, un fermarsi che non corrisponde più alla morte ma una sorta di esperienza spirituale. È una visione, letteralmente, filtrata dall’occhio meccanico del cinema. «Dolcezza del vivere e trascorrere del tempo», scrive ancora Belpoliti, «un tempo che non si esaurisce, che non fugge, ma che ricomincia». Ripartire stando fermi: in Diol Kadd Celati raggiunge la sua «levitazione spirituale», tiene a bada per un momento il demone del caos.

Ed è qui che il racconto che chiude Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, diventa la pietra angolare di una inaspettata svolta dell’opera celatiana. All’apparenza la trama è delle più classiche: due «vecchi amici un po’ avanti negli anni», che «passavano la vita senza far niente di speciale e al massimo di sera giocavano a carte oppure a biliardo nei bar di campagna vicino a casa» un giorno decidono di partire per un viaggio in Africa. La ragione del viaggio è che Cevenini, che è ottimista e posato, vuole curare con la magia l’amico Ridolfi, che invece è depresso e soggetto a incontrollabili attacchi d’ira. Durante tutta l’avventura, Cevenini scrive delle memorie che costituiscono la fonte del narratore del racconto: dunque abbiamo Celati, autore di un racconto (“Cevenini e Ridolfi”) che inventa un personaggio (Cevenini) autore di un diario delle sue “avventure in Africa” (come un libro di Celati) che il narratore del racconto (forse Celati, forse no) commenta e riassume: basterebbe questa contorsione metaletteraria degna del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore per farci capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di più che un racconto semi-comico, o semi-tragico, che è lo stesso, di avventure.

Infatti “Cevenini e Ridolfi” è quello che potrei definire il resoconto di un’esperienza mistica in uno degli scrittori italiani che apparentemente sembrano più lontani dall’idea di misticismo. Già dalle prime battute risulta abbastanza chiaro che Cevenini e Ridolfi sono due incarnazioni di Celati stesso, potremmo dire la luce e l’ombra che si combattono in tutta la sua opera, l’aspetto scanzonato e quello iracondo, la fiducia e la depressione; e il fatto che nel corso del racconto i due personaggi arrivino a scambiarsi i ruoli, con Cevenini che diventa via via più pessimista mentre Ridolfi viene investito da un’illuminazione che gli fa scordare il suo mal di vivere, ne è la prova. Ma è proprio il procedere del racconto, che (come tutti i racconti di Cinema naturale, ma qui forse in maniera più estrema, più consapevole) divaga fino alla destrutturazione, alla dispersione, alla perdita di sé, alla dissoluzione nell’astratto, a riportarci in maniera più decisa sui confini sfumati tra la fiction e la non-fiction, il racconto e la meditazione filosofica. Forse qui non appena prima del confine, ma appena dopo, in un altrove non completamente mappato.

Perché man mano che i due amici penetrano nel cuore dell’Africa, e Ridolfi penetra nel cuore della sua illuminazione, e penetrando nella sua illuminazione guarisce del mal di vivere e si ammala nel corpo fino alla paralisi e alla morte, ciò che il scopre nel suo filosofeggiare è la «bellissima calma delle cose buttate via»; scopre che il segreto della felicità è quello di «scaricare via le fisime dell’immaginazione, che poi fanno sempre venire delle foie, e con le foie dopo uno vorrebbe che tutto andasse come vuole lui»; che «le cose esistono solo in particolare, solo come cose particolari, una per una». E man mano che si ammala, o guarisce, perché forse tra le due cose non c’è differenza, Ridolfi diventa una specie di guru, impegnato solo nel dire frasi filosofiche come «la virtù è la mente che agisce e non patisce, le foie sono la mente che patisce e non agisce», oppure «sono triste ma la mia tristezza è naturale, non mi dà fastidio». E naturalmente c’è dell’ironia in tutto questo, c’è una comicità, e anche una grande tristezza, ma c’è anche, finalmente, un punto d’arrivo: uno sguardo che si apre ampio e calmo. Non c’è più bisogno di muoversi, ci si è persi abbastanza da non aver più bisogno di disperdersi.

Che cos’è infatti il cinema naturale se non questo sguardo terso, questo schermo su cui scorre lo spettacolo del mondo, nella sua naturalezza, senza l’immaginazione che produce desiderio, senza le generalizzazioni che producono concetti? Questo schermo su cui scorre la vita così com’è, le cose particolari, una per una? Che cos’è il cinema oggettivo di Dziga Vertov se non una metafora della mente come campo aperto dove le rappresentazioni del mondo passano senza essere trattenute, dove il mondo compare e scompare, si modifica, scorre? E che cos’è questa mente come uno schermo dove scorre l’apparenza del mondo se non una mente che medita, che ha raggiunto una forma di pace sufficiente da guardare le cose così come sono, senza bisogno di descriverle, di riscriverle, di inventarle, di sostituirle? Che cos’è questa mente-come-cinema, questa mente che medita, se non il punto in cui la scrittura si disperde totalmente, smette di essere necessaria?

Alla fine il movimento ha condotto alla calma, per quanto temporanea possa essere; lo spirito sovversivo del trickster a una forma di spiritualità; la discesa negli inferi, proprio come capita a Ridolfi, porta una nuova luce alla coscienza. Perdersi porta a ritrovarsi scoprendosi diversi. In questo agire senza patire, in questo tornare naturali, nel disperdere le energie mentali fino all’esaurimento, Celati trova il suo tama. Nell’altrove, scordando sé stesso, trova il punto al centro di sé stesso da cui in fondo non si è mai spostato. Trova il miracolo di una scrittura senza scrittore, di un cinema senza regista né personaggi né spettatori, in cui il mondo scorre davanti a una macchina da presa dietro la quale non c’è più nessuno. 

ARTICOLO n. 93 / 2024