ARTICOLO n. 94 / 2022
W. G. SEBALD, NEL SEGNO DI SATURNO
I profeti del presente
Avevo sempre desiderato visitare Orford Ness, “l’isola” come la chiamano gli abitanti del luogo, anche se a separare questa striscia di terra dalla costa del Suffolk c’è solo il sistema fluviale composto dai fiumi Alde e Ore e la traversata in barca dura pochi minuti. Però da quando nel 1993 il National Trust l’ha acquistato dal Ministero della Difesa bisogna prenotare, ed è aperto solo nei fine settimana per impedire che i turisti disturbino gli uccelli che ci nidificano, barbagianni e falchi di palude, ma anche i mammiferi come le lepri e i caprioli d’acqua. “L’isola” quindi era rimasta sempre esclusa dalle mie peregrinazioni sulla costa, fatte in gran parte durante gli anni della pandemia per sfuggire alla noia e all’oppressione delle notizie di morte che arrivavano dal resto dell’Inghilterra. Da Londra ci vogliono tre ore di macchina, e da Norwich, la città più vicina raggiungibile con un treno diretto da Liverpool Street, non ci sono collegamenti comodi. Ci avevo girato intorno, a Nord e a Sud, senza mai trovare l’occasione di andarci.
Orford Ness ha una bellezza strana e inquietante; un po’ come Dungeness, il borgo del Kent dove nel 1986 Derek Jarman è andato a morire all’ombra della centrale nucleare, materializzando un giardino dalla sabbia e scrivendo il suo diario dell’AIDS. Con Dungeness, Orford Ness condivide il suffisso –ness, che indica un promontorio o un luogo di confine, i residui arrugginiti di un passato industriale e la spiaggia di shingle, un tipo di ciottoli che definire “ciottoli” è riduttivo ma per i quali in italiano manca una parola adatta. Soprattutto, però, in entrambi i luoghi la natura selvatica si mescola a un senso di minaccia tutto umano. Entrambi i paesaggi sono ampi, spaziosi e vuoti.
La peculiarità di Orford Ness si deve al fatto che tra il 1913 e il 1987, quando a gestirlo era l’esercito, è stato il sito di un gran numero di esperimenti bellici, che hanno riguardato la balistica dell’allora neonata aviazione militare e le onde radio, l’utilizzo di piccioni viaggiatori e la bomba atomica; Orford Ness è il luogo in cui è stato inventato il radar, e negli Anni Settanta la RAF ha utilizzato i suoi grandi spazi per disfarsi delle bombe divenute inutili con il disarmo alla fine della guerra fredda, tanto che ancora oggi è obbligatorio camminare su un unico percorso per evitare di incappare in ordigni inesplosi. Quando l’ha acquistato, il National Trust ne ha fatto un parco naturale, e ha lasciato che le sue sinistre strutture militari decadessero dolcemente o venissero inglobate nella vegetazione. Si respira l’aria che immagineresti a Chernobyl; non per niente viene spesso paragonata alla Zona del film di Tarkovskij.
Nei pochi edifici ancora accessibili sono stati allestiti un piccolo museo, una libreria che sembra uscita da un romanzo di Stephen King, nella quale si vendono oggetti incongrui come libri per bambini e maglioni fatti con la lana delle pecore che pascolano placide sempre all’orizzonte; c’è una torretta d’osservazione e un edificio nero ottagonale nel quale un tempo venivano studiati i sistemi di navigazione radio dei bombardieri e in cui oggi ci si può sedere e ascoltare i versi del poeta ucraino Ilya Kaminsky che descrivono il panorama. L’installazione è parte di un progetto artistico intitolato Afterness, un nome quanto mai appropriato per descrivere un luogo così postumo. Un amico che mi accompagnava, evidentemente dotato di un maggior senso poetico di me, ha fatto notare che a Orford Ness il vento non si vede, vale a dire che lo senti sulla pelle ma non smuove i rovi e i bassi arbusti che crescono ai lati della strada. La sensazione è irreale, come se qualcosa nel contesto non quadrasse.
È la quintessenza di quello che Robert Macfarlane ha chiamato, in un’articolo scritto sul Guardian qualche anno fa, “la eeriness della campagna inglese”; è anche la quintessenza del Suffolk, un territorio nel quale la storia militare è così mescolata al panorama che è impossibile ignorarla, dalle torri Martello costruite nel XIX secolo per proteggersi dal rischio dell’invasione napoleonica ai bunker della Seconda guerra mondiale che servivano per proteggersi dall’invasione nazista: né Napoleone né Hitler sono mai riusciti ad arrivare sulle coste britanniche, ma il senso del pericolo è ancora presente. Passeggiare per il Suffolk significa attraversare diversi secoli di archeologia dei bunker, come l’avrebbe chiamata Paul Virilio. Durante e dopo la guerra sono arrivate le basi americane, come quella di Woodbridge, il paese in cui è nato Brian Eno, che ha raccontato più volte come il suo amore per la musica sia cominciato quando a metà degli anni Cinquanta osservava i soldati americani ballare rock’n’roll e doo-wop.
Probabilmente è anche questo senso di un pericolo mai realizzato, o lo spettro del complesso militar-industriale e dell’annichilimento che porta con sé, ad aver reso questa terra così spettrale; oppure gli eserciti si sono concentrati qui perché percepivano la presenza dei fantasmi: come scrive Geoff Dyer in Sabbie bianche, è difficile capire cosa venga prima e cosa venga dopo, eppure «l’effetto cumulativo di tutti quegli andirivieni rimane e si insinua nelle fondamenta», e il paesaggio «diventando una rovina rivela il suo circuito originario». È così che nasce l’anima dei luoghi.
Mark Fisher, che di fantasmi e di eeriness si intendeva parecchio, e che in Suffolk sarebbe morto suicida, ne ha parlato diffusamente nell’audio-essay che ha co-realizzato con Justin Barton, On Vanishing Land, un tentativo di enfatizzare la spettralità implicita in On Land di Eno. Il lavoro di Fisher e Barton parte dalla «vastità inesplorata» del porto di Felixstowe e finisce a Sutton Hoo, il misterioso luogo di sepoltura sassone a poca distanza da Woodbridge. Le parole che Fisher utilizza per descrivere questo paesaggio si adattano perfettamente a Orford Ness: “eerie”, “deserto”, “irreale, “appartato”. Il Suffolk è anche il luogo in cui uno dei grandi cercatori di fantasmi della nostra epoca, W.G. Sebald, ha ambientato il suo libro più celebre, Gli anelli di Saturno. Inutile dire che ho sentito parlare di Orford Ness per la prima volta da Sebald, e che la mia passeggiata era un pellegrinaggio, o meglio ancora un rito.
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A Orford Ness Sebald è arrivato nel 1992, quando “l’isola” galleggiava nel limbo tra il suo vecchio passato militare e il suo futuro ancora non realizzato di attrazione turistica. All’epoca non c’era il rischio di spaventare i falchi di palude e i caprioli d’acqua, se è vero ciò che Orford Ness «continuava a essere evitata da tutti», e «persino i pescatori della costa, per i quali la solitudine è moneta corrente, dopo un paio di tentativi avevano rinunciato a gettar l’amo laggiù di notte, secondo quanto dicevano perché non ne valeva la pena, in realtà perché in quel luogo abbandonato da Dio e proteso sul nulla non si riusciva a resistere, anzi il permanervi aveva causato addirittura disturbi psichici duraturi»; meravigliosa, tragica ironia sebaldiana. Solo ora, rileggendo il passaggio per scrivere questo saggio, mi rendo conto che anche Sebald nota il vento: «era una giornata cupa», scrive, «opprimente, con una tale calma di vento che non si muovevano nemmeno le esili spighe delle graminacee». E continua: «Già dopo pochi minuti avevo l’impressione di avanzare in una terra inesplorata, e mi sentivo […] perfettamente libero, ma anche in preda a un’ansia immensa. Non un solo pensiero si agitava nella mia mente. A ogni passo il vuoto, dentro di me e intorno a me, si faceva più vasto e il silenzio più profondo».
L’idea di una passeggiata sebaldiana era nella mia mente da quando sono arrivato in Inghilterra dieci anni fa, perché Sebald, e Gli anelli di Saturno in particolare, è tutto un invito a ripercorrere i passi già tracciati da qualcun altro: dalla Storia, certamente, ma anche dalla memoria individuale, e da quel conglomerato di Storia e memoria individuale che è stato Sebald stesso, l’uomo Sebald, lo scrittore, ma anche il suo mito, la traccia che ha lasciato dietro di sé. Visitare Orford Ness ci ha preso tutto il giorno. L’idea per la giornata successiva era andare a Norwich, dove Sebald ha insegnato alla University of East Anglia per trent’anni, e poi al piccolo cimitero della chiesa di St Andrew a Framingham Earl, dove è stato sepolto dopo essere morto in un incidente stradale nel dicembre del 2001. Però quando ci siamo svegliati c’era il sole, non la pioggia prevista dalla BBC, e faceva caldo; così invece di andare a Nord rispetto al nostro AirBnb sperso nella campagna siamo andati a Sud, alla città fantasma di Dunwich, che nel XIII secolo era grande quanto Londra ma che è pian piano stata ingoiata dal mare, tant’è che oggi il villaggio conta solo 84 abitanti. Naturalmente anche Dunwich compare negli Anelli di Saturno. Alla sua distruzione sono dedicate alcune delle pagine più belle di tutto il libro.
Ho detto che Sebald, come uomo esistito in carne e ossa e come scrittore, invita a ripercorrere delle tracce, ma c’è anche qualcosa di più sottilmente inquietante in questo bisogno di camminare dove ha già camminato qualcun altro, e specialmente qualcuno che ha fatto di queste camminate l’oggetto ma anche la forma della propria scrittura. Nel caso di Sebald questa ritualità assume i contorni di una vera e propria necromanzia. Già nel 2012 il regista Grant Gee poteva girare un film oggi di culto e quasi introvabile come Patience (After Sebald), che non era solo un documentario sulla vita di un autore amato ma una prima camminata nel solco tracciato dagli Anelli di Saturno. Fisher non era un amante di Sebald, e le sue influenze erano tutt’altre, ma è impossibile ignorare che i luoghi di cui parla nel suo audio-essay e altrove siano in parte gli stessi del libro. Nello stesso 2012 anche Teju Cole, uno scrittore che ha dedicato il suo libro più famoso, Città aperta, proprio a Sebald, ha scritto per il New Yorker un saggio in cui racconta le sue camminate sulle tracce sebaldiane. Il saggio si intitola Always Returning: cos’altro torna continuamente se non le nevrosi e i fantasmi?
La “afterness” dell’installazione artistica a Orford Ness allora non è solo la destinazione di un movimento lineare, qualcosa che viene dopo, plausibilmente alla fine della Storia; è anche la descrizione di un moto circolare, un continuo ripercorrere gli stessi percorsi, ancora e ancora. Mentre ci pensavo mi sono accorto che solo due categorie di persone continuano a camminare sullo stesso sentiero. La prima è quella dei pensatori, o meglio di quel particolare tipo di pensatori che per pensare ha bisogno di camminare, come Kant che usciva tutti i giorni per una passeggiata alla stessa ora e la sua puntualità era tale che gli abitanti di Königsberg sistemavano gli orologi quando lo vedevano comparire in strada. La seconda è quella dei depressi, intrappolati in quella che Freud ha chiamato coazione a ripetere, per i quali camminare gli stessi sentieri è una forma della pulsione di morte. C’è qualcosa di funereo nel ripercorrere le tracce di Sebald negli anni, nei decenni: è una maniera di partecipare al lutto che pervade ogni singola pagina della sua opera, anche quelle più divertenti.
Poi però mi sono accorto che l’atto di camminare ha anche una valenza opposta, e che esiste un terzo tipo di camminatori, una categoria della quale fanno parte i flâneur e anche, in fondo, lo stesso Sebald: quelli che cercano di sfuggire alla depressione camminando. In Italia abbiamo un grande esempio, quello di Gianni Celati. Camminare, muoversi, non fermarsi mai, è un modo di tenere a bada quella inesorabile distruzione di cui parla Sebald, proiettandola con equanimità su città medievali e aringhe, sui ghiacciai e la sepoltura delle urne, sull’Olocausto e il teschio di Thomas Browne, quella distruzione da cui non c’è scampo e che minaccia di inghiottirci non appena ci fermiamo. Non per niente Gli anelli di Saturno si apre con il narratore ricoverato all’ospedale di Norwich per una misteriosa malattia che lo riduce «in condizioni di quasi totale immobilità».
Per questo la scrittura di Sebald, come quella di Celati, come quella di Teju Cole, come quella di Thomas Browne, come quella di Geoff Dyer, è una scrittura “camminante”, divagante, che rifiuta di seguire un percorso lineare, che rifiuta persino di avere un inizio e una fine. Lo era anche la scrittura di un altro grande malinconico, anzi del primo autore moderno di un libro sulla malinconia, Robert Burton. Burton oscilla continuamente tra poli opposti, dalla dimensione dionisiaca della divagazione infinita, del movimento che non vuole accettare di fermarsi, a quella propriamente malinconica della coazione a ripetere: sappiamo che ha scritto The Anatomy of Melancholy per tutta la vita, e che quando è morto a Oxford nel 1640, all’età per l’epoca veneranda di 73 anni, non era ancora soddisfatto della forma finale assunta dal libro; ma sappiamo anche che The Anatomy of Melancholy è un testo che trascende continuamente sé stesso, si spaccia come trattato medico ma non può fare a meno di essere scritto in prima persona, dovrebbe trattare il tema della tristezza ma è attraversato da una corrente inarrestabile di ironia, ed è in fin dei conti un testo enciclopedico nei mezzi e nelle finalità. La malinconia, nel libro di Burton, è una lente attraverso cui osservare tutto, e in quanto tale coincide con la vita. Queste scritture sono insofferenti al confine: proprio l’opposto di ciò che capita nel caso dell’astro evocato dal libro di Sebald.
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Vale la pena riprendere integralmente lo straordinario incipit degli Anelli di Saturno, qui nella traduzione di Ada Vigliani per Adelphi:
Nell’agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare per quelle contrade, spesso solo scarsamente popolate, a poca distanza dalla costa. D’altra parte, però, adesso ho come l’impressione che l’antica e irrazionale credenza secondo cui certe malattie dell’anima e del corpo vanno allignando in noi preferibilmente sotto il segno del Cane, potrebbe essere in qualche modo giustificata. Ad assorbire i miei pensieri nel periodo successivo fu, in ogni caso, il ricordo non solo della splendida libertà di movimento goduta allora, ma anche dell’orrore paralizzante da cui ero stato più volte assalito davanti alle tracce della distruzione che, persino in quella località sperduta, risalivano al lontano passato. Forse fu per questo che, a un anno esatto dall’inizio del mio viaggio, mi ricoverarono, in condizioni di quasi completa immobilità, nell’ospedale di Norwich, il capoluogo della regione, nel quale qualche tempo dopo avrei cominciato a scrivere, almeno mentalmente, le pagine che seguono.
Nella raffinatezza della traduzione italiana finisce per perdersi il principale riferimento del brano: nell’originale inglese Sebald non parla di «canicola», ma scrive «when the dog days were drawing to an end», rimandando evidentemente al «segno del Cane» che segue qualche riga dopo. Nell’antichità greco-romana, i giorni del cane erano quelli in cui Sirio sorgeva all’alba insieme al Sole, alla fine di luglio; erano i giorni più caldi dell’anno (da cui appunto l’italiano “canicola”) e indicavano l’arrivo di una catastrofe; Sirio è la stella più brillante del firmamento, ma già nell’Iliade era associata all’arrivo di guerre e disastri. Dis-astri: cattive stelle. Nella prima riga del suo libro, Sebald pone tutto ciò che seguirà sotto l’influenza dei cieli, e nello specifico di un pianeta nefasto, che porta morte e distruzione su scala immane.
Nel 1964 il grande studioso warburghiano Raymond Klibansky ricordava nel suo libro sul tema che il rapporto tra Saturno e la malinconia affonda le radici nella teoria degli umori di Ippocrate di Coo: al temperamento malinconico o appunto “saturnino” era associata la bile nera; l’organo era la milza, l’elemento la Terra, e gli attributi che lo contraddistinguevano il freddo e il secco.Saturno era l’ultimo pianeta conosciuto del sistema solare, dato che Urano sarebbe stato scoperto nel 1781 e Nettuno nel 1846: era il più freddo e il più distante dal Sole, e aveva ereditato il nome dall’anziano dio dell’agricoltura romano che a sua volta aveva mutuato gli attributi dal Crono greco, il re dei Titani e signore del tempo che divorava i propri figli, così come appare nella più celebre delle pitture nere di Goya. Saturno era dunque il pianeta del limite: si trovava al confine dell’universo conosciuto, ai margini del buio dello spazio profondo, e la sua influenza riguardava i limiti invalicabili delle cose, il tempo che tutto consuma, la morte inesorabile. Per questo il suo elemento era la terra, a cui tutti torniamo e a cui tutti siamo legati dalla forza di gravità. È Saturno che compare nel cielo nell’incisione Melancholia I di Albrecht Dürer, descritta da Sebald e prima di lui da Warburg. È a “Saturno Signore della malinconia” che è dedicato Anatomy of Melancholy.
Il dibattito sulle influenze astrali del temperamento malinconico aveva preso una piega inaspettata nel 1489, quando nel De Vita Triplici il grande malinconico Marsilio Ficino aveva tentato di trovare un rimedio alla disdetta della sua vita: essere nato con Saturno nell’ascendente. Ficino fa notare che spesso gli studiosi sono malinconici, istituendo così per primo un collegamento tra genio e malinconia che sarebbe arrivato dritto al Romanticismo e oltre; ma è anche il primo di quelli che potremmo chiamare “astrologi trasformativi”, una branca di pensiero che avrebbe portato all’alchimia e poi alla psicologia del profondo: lungi dall’accettare l’influenza degli astri in maniera passiva, vede l’astrologia come uno strumento per curare i mali provocati dall’astrologia stessa. Nel caso specifico di Saturno, raccomanda di bilanciare gli influssi negativi tramite l’azione di astri positivi come il Sole, Giove, Venere e Mercurio. Al temperamento malinconico, descritto dall’inventore della stenografia Timothie Bright come «tardo nel passo, taciturno, neghittoso, avverso alla luce e al concorso degli uomini», Ficino propone di contrapporre il vino, l’aria fresca e la musica. Non è un caso che due di questi tre rimedi riconducano direttamente a Dioniso.
Di tutti questi collegamenti mi sono accorto solo confusamente mentre camminavo nel Suffolk: come il passato militarizzato dell’East Anglia, rimanevano sullo sfondo, ne ero solo parzialmente cosciente. Ero ben consapevole però di star ripercorrendo un sentiero già battuto innumerevoli volte, forse già battuto da sempre, in un eterno ritorno nicciano o in un’esplosione su scala cosmica del Jack Torrence di Shining rivela di «essere sempre stato il custode». Ed ero ben consapevole che niente in noi e fuori di noi si muove senza l’influsso dei pianeti e le voci degli dèi, quelli nel macrocosmo e quelli nel microcosmo. Il sole era troppo caldo per un giorno di ottobre: altri dis-astri all’orizzonte.
L’altra cosa che avrei scoperto solo più tardi, leggendo Klibansky nel tentativo di trarre una linea narrativa da questo groviglio di fili intersecati che si perdono all’origine del tempo, è che c’è un aspetto meno conosciuto di Saturno, un lato-ombra che sembra negare la terribile fama che il pianeta si è costruito nei millenni. Nel passaggio dalla Grecia a Roma, quando Crono è stato tradotto in Saturno, il “dio anziano” ha perso gran parte della sua brutalità originaria, venendo associato principalmente all’agricoltura: il tempo non è dunque più solo il Titano che divora i propri figli, ma anche il principio benefico che fa crescere e maturare le messi; la terra non è solo una metafora della morte, ma anche della vita; e il limite inesorabile è il passaggio necessario per un nuovo inizio. Tant’è che le feste in onore del dio, i Saturnalia, erano una specie di carnevale, un momento di gioia e dionisiaca sospensione delle regole. Si celebravano dal 17 al 23 dicembre, ed è probabile che parte del culto sia confluita nel Natale cristiano, a sua volta un simbolo di nuova vita.
Ecco allora che la afterness, questo essere sempre “after Sebald”, si ribalta nel suo opposto: non c’è solo il moto lineare che conduce oltre la fine della Storia, oltre la fine dell’universo, oltre la fine di tutte le cose nel buio assoluto e totale dello spazio profondo; c’è anche il moto circolare dell’agricoltura, della morte che permette la vita e che si ripete sempre uguale. Qui Dioniso e Saturno, questi due grandi principi del disturbo bipolare che in una forma o nell’altra ci affligge tutti, non sono più antagonisti, ma facce diverse dello stesso dio. È la realizzazione di quell’equilibrio che Warburg ha cercato tutta la vita senza mai trovarlo quando scriveva nel suo diario di aver provato «a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso autobiografico: la Ninfa (maniaca) da una parte e il malinconico dio fluviale (depressivo) dall’altra».
Lo stesso potremmo dire in fondo di Sebald, che non si è «mai sentito così libero» come durante le peregrinazioni nel Suffolk, e nell’ospedale di Norwich si trova costretto a letto dall’«orrore paralizzante» che ha provocato in lui la scala cosmica della catastrofe. Però, e chissà se aveva in mente la natura ciclica di Saturno mentre lo decideva o se è stata una scelta inconscia, la stasi e la malattia sono poste all’inizio del libro, non alla fine. O meglio, l’inizio e la fine sono la stessa cosa: ci si ferma, si cammina, si è liberi e ci si ferma di nuovo; ci si riposa, e poi si cammina di nuovo. Gianni Celati camminava per ore prima di scrivere, e scriveva solo quand’era esausto. Poi si riposava e riprendeva a camminare, o a scrivere, che in fondo per lui erano la stessa cosa.
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Ciò che invece ha continuato ad andare dritto lungo la propria strada è il progresso scientifico, che conosce interruzioni e improvvisi salti in avanti ma non ammette divagazioni, almeno in questa maniacale allucinazione razionalista in cui abbiamo trasformato la scienza. La teoria degli umori è stata sorpassata, e si può sostenere a ragione che la medicina moderna abbia salvato qualche miliardo di vite. Il concetto di malinconia, con la sua ricchezza semantica che includeva tristezza e nostalgia, rimpianto e disperazione, irascibilità e tedio, è stato rimpiazzato da quello «uniforme ma informe» della depressione, come ha scritto Silvia Arzola. Le voci degli dèi sono state ridotte a squilibri chimici nel cervello e vengono curate con le medicine. Che servono, certo, ma a volte non servono. Non riesco a fare a meno di pensare a Mark Fisher, a tutto ciò che ha scritto sulla depressione e alla sua morte autoinflitta e al fatto che abbia scelto proprio il Suffolk per vivere e morire, lui che era delle Midlands.
Siccome in fondo tutto finisce, come Gli anelli di Saturno racconta nel migliore dei modi possibili, non posso fare a meno di pensare anche alla morte di Sebald, che appare così casuale, così gratuita: un punto arbitrario per mettere fine alla vita del più grande divagatore del nostro tempo. La mano di Saturno, senza dubbio. Il dis-astro che si manifesta nel quotidiano, una sera di dicembre fuori Norwich.Nel 2012, l’anno dell’uscita di Patience (After Sebald) e della peregrinazione di Teju Cole, la sonda della NASA Voyager 1 è stata il primo oggetto costruito dall’uomo a uscire dal sistema solare: aveva sorvolato Saturno nel 1980. Dieci anni dopo si trova a 23 miliardi e 604 milioni di km dal Sole e comunica con la Terra ininterrottamente da 45 anni e 1 mese. Continua ad andare dritta, senza divagazioni, nel buio cosmico, sempre più lontana dagli uomini e dai loro dèi. Continuiamo a sentirla parlare, finché un giorno non la sentiremo più e sarà diventata solo un altro dei nostri fantasmi.