ARTICOLO n. 90 / 2024

GIAN MARIA VOLONTÉ ERA UNA COSA SEMPLICE

trent'anni senza

Se ne andava trenta anni fa, in una camera d’albergo a Florina, un paese greco al confine con l’Albania e la Macedonia del Nord mentre stava girando Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. Un film sull’esilio e sulla guerra nel mentre del disfacimento tragico di quella che fu la Jugoslavia. La notte prima di morire Gian Maria Volonté aveva trascorso la serata festeggiando con la troupe, stando in compagnia e cantando Bella Ciao insieme agli altri. Per una sera si era concesso una festa, un’allegria lontana dalla sua immagine pubblica e dal suo umore spesso scostante, lontano da quella tristezza inquieta e liquida che traspariva dal suo volto anche nelle poche interviste che concedeva con estrema cautela. Era il 1994, dicembre, l’Italia in dieci anni era passata dalla folla dei funerali di Enrico Berlinguer a Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio. La Repubblica uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, quella dei partiti, quella dell’arco costituzionale antifascista, dei rimpasti, del pentapartito, degli accordi di programma e delle convergenze parallele era esplosa sotto i colpi dell’inchiesta di Mani Pulite.

Un mondo nuovo e a senso unico prendeva forma in un ludibrio costante della vecchia politica e delle sue regole ridotta a lacci e lacciuoli. Il paese era inebriato e attraversato da una gelida passione giustizialista al tempo stesso priva di alcuna morale ed etica. Il sogno era il medesimo miracolo di quaranta anni prima, ma sempre a costo zero. Si andava incontro a un mondo senza muri, così si diceva, per chi voleva crederci.

Un mondo che non convinceva per nulla Gian Maria Volonté, già da tempo in fuga dalla facilità di pensiero e dalle sue volgarità. Lo si rivede in alcune sequenze mai montate de Lo sguardo di Ulisse mentre fugge dai cecchini, lui Ivo Levi responsabile e custode della cineteca di Sarajevo insieme al regista interpretato da Harvey Keitel. Si vede la loro corsa e la tragica caduta. La fine di un secolo agli sgoccioli ormai consumato e privo di risorse, più che la caduta del muro e dei regimi comunisti (che pure avvenne) si avverte prima ancora la perdita della memoria e la capacità di farne buon uso. Quel conflitto freddo che si risolse con la violenza balcanica fin nel cuore dell’Europa e che ancora oggi è ben lungi dall’esaurirsi, mostrò insieme al desiderio di libertà e democrazia anche il prezzo di una scelta che si sarebbe rivelata inevitabilmente una scelta obbligata per quanto giusta. Una scelta suggerita per non dire imposta dal mondo che si vantava e si vanta ancora della propria libertà in promozione permanente. 

Diffidente dalle cose troppo appariscenti e scintillanti, dalle sicurezze convinte, Volonté prediligeva l’avventura minima e taciturna delle strade secondarie, viottoli dissestati come alternative possibili. Animato da una curiosità resistente e inadatta alle consuetudini delle verità spacciate come assolute, non era a suo agio né ai riti politici né tanto meno a quelli culturali. Come ricorda Marco Bellocchio nel bel documentario di Francesco Zippel presentato quest’anno al Festival del cinema di Venezia, Volonté. L’uomo dai mille volti, Volonté era in grado d’imporre una verità assoluta partendo dalla sua presenza sullo schermo, dalla sua voce, una verità scintillante e inappellabile, ma al tempo stesso un’idea di gioco attoriale intima feroce quanto bambinesca, come ricorda Fabrizio Gifuni. Un riferimento assoluto per qualunque interprete, ma anche un vivere contraddittorio figlio di un tempo di passaggio che vide la coda di quasi ogni utopia.

Un’inquietudine del vivere che oggi viene quasi sempre associata con banalità cinica a disadattati, falliti, tristi, malinconici. A quelle persone che durante il ventennio vennero definite disfattiste, termine che oggi potrebbe finire in bocca a tre quarti della classe politico-motivazionale mondiale. Fino a qualche anno fa ciò assumeva un senso derisorio mentre oggi, non certo in senso migliorativo, ha assunto un tono logico-medicale. La cura non come cura, ma come soluzione. C’è una categoria per ogni disadattato, una patologia per chi la sera ha preferito non uscire a festeggiare, non fare gruppo, non organizzare balli e cene. 

Per chi se ne sta in disparte la vita non è mai stata facile, ma oggi si aggiunge l’indice levato di chi accusa o peggio di chi propone una soluzione, la scelta giusta (e ovviamente sempre obbligata) da compiere perché c’è una sola strada giusta in mezzo a tutte le altre sbagliate.

In una puntata del 1983 di quell’indimenticabile contenitore televisivo che fu sulla Rete 2 della Rai, Gianni Minà intervista Gian Maria Volonté fresco vincitore del Prix d’interprétation masculine a Cannes per La morte di Mario Ricci del regista svizzero Claude Goretta. In quell’occasione Minà chiede all’attore: «Una volta non sarebbe andato Volonté a prendere un premio, dieci anni fa». La risposta è esemplare: «Ma io sono andato quando ci sono potuto andare, in altre circostanze no perché non potevo, dipende». Essere da un’altra parte quando tutto il mondo vorrebbe stare in quel posto, essere da un’altra parte in un esatto e preciso momento non è una scelta per forza sempre di resistenza o di opposizione a un luogo o a delle persone, ma più semplicemente è una forma di piacere altro, una curiosità che andrebbe indagata come tale e non ridotta e trasformata in una modalità conflittuale.

Certo Gian Maria Volonté non era solo questo, era anche romanamente un gran paraculo come ricorda Carla Gravina, sua compagna per un lungo periodo, raccontando delle sue fughe a Parigi che furono tutt’altro che legate a sbandierate motivazioni sessantottine. E proprio questo non toglie nulla, ma aggiunge e perfeziona il disegno di un’inquietudine curiosa e irresistibile di una figura che resta (fortunatamente) invalicabile non solo per la sua assoluta qualità di artista, ma anche per la complessità culturale di cui ogni suo elemento e tratto è intrisa. Un modo d’essere che dice molto di un secolo a cui Volonté appartenne interamente senza sconti alcuni. Dentro al quale le sue leggerezze e le sue inevitabili debolezze definiscono un’umanità frastagliata e spigolosa, priva di ogni gusto per un’organizzazione plastica e confortevole, il corpo per Volonté per gli uomini di quella generazione fu strumentale ai propri pensieri e alle proprie curiosità e non il fine di un’esistenza da musealizzare. Un modo di stare nel mondo senza riparo alcuno, nella vita pubblica quanto in quella privata.

Tutto ciò è qualcosa di molto difficile oggi da comprendere, là dove le categorie prevalgono ben più delle ideologie: schemi mentali forse necessari per un tempo rapido e per un’umanità sempre più in ritardo, così compressa tra destinazioni e obiettivi, liste e necessità di appagamento continuo.

Esporre se stessi richiede infatti una certa forma di cura e non di coraggio, richiede quella voglia insensata di correre nudi in mezzo a un prato perché è bello, punto, non per altro. Sprecare e rischiare, perdere tempo e apparire ridicoli. Ma cosa distingue quindi Gian Maria Volonté da una forma di narcisismo maschile oggi così diffuso? Sostanzialmente il fatto di essere Gian Maria Volonté, non nella sua accezione banale di celebrità o di figura storica, ma di appartenenza e totale aderenza al suo tempo. In questo si vuole intendere precisamente la grazia del movimento, la capacità di solidarizzare con l’altro e il diverso non solo e non principalmente in maniera conscia ed esplicita. Attraversare insieme all’altro la strada, entrare in un bar, girare il cucchiaio nella tazzina, obbligare il bottone della camicia nella sua asola, sospirare fumando sotto il cornicione di un palazzo in un giorno di pioggia. Movimenti intimi compiuti anche in pubblico ma non sotto l’occhio registrante e catalogatori di lenti che impongono un’apparenza continua. Una schiavitù che ormai come una forma di auto censura ci obbliga a una performance obbligata, non nostra, che ci riduce – oltre a lasciarci estenuati e nevrotici – a mediocri conformisti o in alternativa a vanesi saltimbanchi privi di ogni arte, ma solo colmi di ridicolo. La trahison des images, o ceci n’est pas une pipe.

L’incrinatura iniziale si avverte a partire dagli anni Ottanta, che possono essere identificati da una serie di fattori, dal liberismo dei complementari Ronald Reagan e Margaret Thatcher, l’hollywoodiano e la piccolo borghese, fino all’apparire della tv a colori che insieme a una disponibilità economica più facile e diffusa degli anni precedenti genera una pressione sociale che riduce anno dopo anno ogni individuo a strenuo spettatore di se stesso e non più semplice protagonista del proprio sé. Al punto che è quasi impossibile capire se Donald Trump e Giorgia Meloni (al netto dell’irrilevanza dell’Italia rispetto al Regno Unito) siano la versione 2.0 di Reagan&Tatcher o la loro parodia o, peggio ancora, la loro triste nemesi, con il cavalcante populismo di cui si fanno interpreti.

Non c’è alcuna differenza evidente tra Yves Montand che interpreta un piccolo imprenditore meccanico (in Vincent, François, Paul… et les autres di Claude Sautet) da chi imprenditore meccanico lo era davvero negli anni Settanta. Non c’è differenza nei modi spicci, nel portare i vestiti, nel mangiare frettolosamente, nelle mani che avevano per i maschi di allora un’origine comune un po’ selvaggia, un po’ rude e figlia di molta lotta. Ma al tempo stesso nulla distingue un medico o un architetto del tempo dai modi nevrotici e affettati di Michel Piccoli (in L’invitée di Vittorio De Seta) e non si tratta solo di una straordinaria capacità interpretativa, ma anche e soprattutto di un’aderenza storica a quel tempo che oggi si è in qualche modo rarefatta in una fluidità tanto evidente quanto fortemente inconcludente (e faticosissima). Perché il medesimo gioco lo si può replicare con Enrico Berlinguer a cui per esempio Elio Germano assomiglia poco o per nulla, rispetto ai visi e ai corpi di chi per esempio si accalcava a San Giovanni durante il funerale di Berlinguer come si vede nel bel documentario Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer di Samuele Rossi.

Del resto chi oggi potrebbe intuire, vedendone il passaggio su un marciapiede, le professioni delle persone? O anche solo la loro classe o ruolo sociale? Non è una questione di eleganza o di cultura, lo è anche, ma principalmente è una questione di una postura e di stare in un tempo estraneo che coinvolge chiunque, oggi. Si tratta di naturalezza dei movimenti, di aderenza emotiva alla terra come al cielo. 

Oggi tendiamo a vivere come ospiti non graditi, e questo tracima non solo nelle ansie e nelle tragedie del cambiamento climatico, ma nel nostro stesso modo di essere umani. Qualcosa, prima ancora che questi temi si schematizzassero (spesso ridicolmente) ha provato a dirlo una parte del cinema italiano degli anni Ottanta che fu parte in causa della medesima mutazione, ma che fu anche capace di produrre una denuncia utilizzando in chiave diversa e nuova dal cinema degli anni precedenti troppo ancorato a modalità ideologiche che ormai funzionavano poco per il tempo a cui si stava andando incontro. 

Perché se Mario Monicelli aveva ragione su tutto nel dibattere con Nanni Moretti davanti ad Alberto Arbasino a Match (sempre sulla vivacissima Rete 2 Rai di quegli anni), di certo Un borghese piccolo piccolo era tutto meno che un film ben riuscito. 

E allora da Nanni Moretti a Massimo Troisi, da Carlo Verdone a Francesco Nuti si provò con coraggio e spregiudicatezza a raccogliere tutta l’allegria dei Settanta, quella leggerezza utopica che qualcosa aveva smosso e non poco nella società italiana, per utilizzarla – con la sensibilità artistica propria di ognuno – come chiave per rivelare l’inganno a cui si stava andando incontro. Non si trattava di dinamiche politiche o economiche (quelle erano le conseguenze) e ancor meno si trattava di complotti e di grandi vecchi, di CIA e di Kissinger, c’erano anche quelli, come sempre, ma anche loro non erano che la triste conseguenza di un flusso inesorabile che stava portando tutti in alto mare. 

Non si possono non cogliere nelle sequenze di Bianca come di Palombella rossa, di Scusate il ritardo come di Le vie del Signore sono finite, di Un sacco bello come di Compagni di scuola, di Tutta colpa del paradisocome di Willy Signori e vengo da lontano un dolore intimo e struggente che affiora dal carattere stilistico di ognuno di questi registi e attori. Un dolore che fino ad allora venne considerato indicibile in quanto banale (forse per l’appunto disfattista, benché figlio di tutt’altra militanza) o vacuo e che invece loro seppero trasformare in una denuncia di non appartenenza a un mondo nel momento stesso in cui lo si va a rappresentare. Una capacità agrodolce di dare forma a se stessi anche nell’inevitabilità di essere parti integranti e si direbbe di successo di quel mondo a cui comunque seppero opporsi, riuscendo cosi di appartenere al proprio tempo senza tradirlo, ma denunciandone l’orribile movimento, l’inquietante degrado in corso. 

Gian Maria Volonté fu un osso duro, ma la sua lezione come quella di altri come lui prese forma prima di trasformarsi in icona iconica. Le sue prove d’attore lasciano a bocca aperta, non offrono margine alcuno alla riduzione e tanto meno alla mistificazione. È la differenza che corre fortissima tra il non fare le cose per rifiuto e il farne altre invece per infinito piacere. La differenza tra fuggire e rivelare se stessi prima di tutto proprio a se stessi. Era la bellezza seminale di Volonté che fu anche la sua grandezza artistica. Volonté in fondo era una cosa molto semplice, era un uomo bello e anche felice, poi certo c’era il mondo – faticosissimo – in cui stare, ma in cui lui voleva stare strenuamente e senza alcuna mediazione, sempre e solo a modo suo.

ARTICOLO n. 89 / 2024