ARTICOLO n. 29 / 2022

FORD ESCORT

Ricordo con precisione la prima volta in cui ho desiderato morire.

Avevo sette anni ed ero in vacanza con i miei genitori, sui Pirenei.

A loro piaceva molto girare l’Europa in macchina e tenda da campeggio e la Francia del Nord è stata una delle mete preferite di quegli anni d’infanzia.

Entrambi i miei genitori parlavano fluentemente il francese e si erano appassionati alle zone meno turistiche del paese. In più, la qualità dei campeggi d’oltralpe era innegabilmente migliore rispetto a quella italiana: le piazzole erano immerse nel verde, enormi, i servizi igienici erano puliti, il silenzio era quasi assordante. 

In Italia ricordo invece dei bagni pubblici che più che toilette erano armi batteriologiche con notevoli esempi di quella di dripping su tutti i muri e a discapito delle leggi della gravità, piazzole talmente piccole da poter sentire i vicini copulare o russare, autostrade sopraelevate passare sopra agli spiazzi dei campeggiatori.

Una volta, in un camping del centro Italia, andò a fuoco la tenda di un nostro vicino ed eravamo così appiccicati gli uni agli altri in quel minuscolo spiazzo che abbandonammo in fretta e furia la vecchia canadese, convinti che avremmo preso fuoco anche noi. Per fortuna non successe: il vento girava a favore, perciò andò a fuoco l’altro vicino, quello che si trovava sventuratamente dal lato opposto al nostro.

La vecchia tenda canadese comprata dai miei genitori nel lontano 1983 diventava per un mese la nostra dimora itinerante. Il rituale di montaggio e smontaggio di pali, tiranti e stoffa impermeabile pesantissima, era un gioco familiare che mi emozionava sempre.

Ognuno aveva un compito: mio padre picchettava, mia madre che da sempre ha una mente logica e pragmatica metteva i pali nel posto giusto, io sistemavo le stuoie e i materassini nell’interno. 

Era un esercizio di convivenza, una sorta di propedeutica alla cooperazione sociale: montando quella tenda imparavamo a darci dei ruoli diversi, quasi paritari, tutti egualmente essenziali nella catena di montaggio e che esulavano per qualche ora dalla gerarchia che la struttura familiare spesso impone.

La notte mi sembrava di essere di nuovo piccolissima. Dormivamo tutti e tre nella tenda, che era uno spazio molto grande. Io sul lato sinistro e, separati di qualche spanna, mia madre e mio padre con il loro materassino.

Ho imparato la sopportazione, in quei viaggi. Mio padre russa come un trattore ingolfato e mia madre è talmente precisa da far saltare i nervi. Io, che ho il sonno da sempre leggero e soffro molto la precisione, vivevo quelle giornate come se fossero delle sfide intense e al tempo stesso dei divertenti giochi a premi per capire come poter essere meno confusionaria e imparare ad addormentarmi seguendo il ritmo cadenzato del russare del mio babbo.

Con questo peculiare allenamento sviluppai un discreto senso del ritmo e una metodologia paramilitare di impacchettamento e spacchettamento delle valigie che mi sarebbe poi tornata utile (molti anni più tardi, davanti all’inevitabile tournée di promozione del primo libro, mi sarei ricordata di quell’insegnamento sull’arrotolare i vestiti per poter ottenere più spazio nello zaino).

Ma il vero nucleo del viaggio, la sua anima, si svolgeva nelle tratte in macchina.

La vecchia Ford Escort a diesel azzurrina, immatricolata nel 1986, era un concentrato di lamiere, interni in plastica nera e sedili di un tessuto che sotto al sole sapeva raggiungere la temperatura di fusione del piombo. Ai miei occhi però, sulle strade di montagna e quelle parallele al Mare del Nord, diventava un rifugio accogliente in cui il tempo si cristallizzava per ore e ore e tutto perdeva la sua contestualizzazione: che anno era? E noi, eravamo davvero mortali?

Si potevano fare un sacco di cose nell’abitacolo del vecchio motore dal design simil-sovietico.

Leggere, mangiare, distendersi nel baule spazioso come un divano, dormire, fare giochi di società e perfino fare i compiti per le vacanze che mi dava la maestra.

Nei sedili sul retro avevo creato uno spazio perfetto in cui ogni mia richiesta era a portata di mano, mia o di mia madre, a cui bastava passarmi ciò di cui avevo bisogno senza neanche girarsi.

Grazie al mio stoico sistema vestibolare, non ho mai sofferto il mal di macchina – o di mare o d’aereo.

Perciò ho imparato presto che potevo leggere i miei libri anche mentre la vecchia Ford si arrampicava su per i tornanti più impervi e le strade più tortuose dei Pirenei.

Ero – sono tutt’ora – impressionante, non ho mai avuto un solo momento di esitazione gastrica.

Questa abilità mi permetteva di leggere ad alta voce i libri che divoravo nel tempo libero, cosicché potessero sentirli anche i miei genitori, come se fossi una sorta di antesignano audiolibro da ascoltare mentre loro erano concentrati sul viaggio.

Non ero fan della fiction per bambini, perciò spaziavo da Calvino ad Agatha Christie, da Buzzati alle poesie del Pascoli. 

Decantavo versi o pagine di narrativa distesa con le gambe all’insù e la testa penzoloni dal sedile, i piedi nudi, nessuna preoccupazione.

Davanti avevo mamma e babbo che pensavano a tutto il resto. Tutto quanto. E il tempo per me cessava di esistere.

Spesso non mi interessava neanche la meta finale della tappa.

Un microcosmo perfetto per una bambina, un luogo in movimento in cui fare conoscenza in modo filtrato (dai vetri del finestrino) di ciò che avevo intorno e diretto (con i libri) per ciò che invece contribuiva alla mia emotività.

Il punto fisso, ciò che rendeva unica questa esperienza, era ovviamente la presenza dei miei genitori sui sedili davanti, in una simbolica posizione di guida, del veicolo ma anche della mia stessa esistenza.

Osservavo con amore infinito le gestualità di mia madre che apriva il finestrino a manovella della Ford, che scricchiolava furiosamente con il sole ma che scorreva agile e senza rumore con la pioggia. O il suo sfogliare le mappe cartacee che a me erano indecifrabili e che lei invece sapeva decodificare così bene che non ci siamo mai persi, in tutti quei viaggi, per tutti quegli anni.

Ero incantata dall’accendisigari – questo cimelio automobilistico mi manca tantissimo nelle nuove macchine, era un capolavoro per noi tabagisti – che mio padre azionava premendolo per poi accendersi una delle sue sigarette che in Italia erano le MS e in Francia diventavano le Gitanes Papier Maïs: dopo che bruciava la punta della sigaretta, il mio babbo mi permetteva di tenere in mano quell’aggeggio misterioso e io guardavo il filamento di metallo diventare incandescente e luminoso per poi pian piano spegnersi. 

Ricordo il mangianastri.

Era un rito nel rito.

Cassette con su inciso Battiato (credo di sapere a memoria tutto La voce del padrone proprio grazie a uno di quei viaggi lì) o De André (Non al denaro non all’amore né al cielo lo imparai come se fosse un’unica preghiera). Cassette che spesso si incastravano nel mangianastri e dovevano essere riavvolte nella bobina con una penna, facendole girare su loro stesse.

Perfino gli impedimenti più noiosi del quotidiano, come dover fare pipì o riavvolgere una cassetta, diventavano speciali.

Avevamo tutto: i nostri luoghi, la nostra velocità, la nostra colonna sonora, la nostra casa su ruote e quella con stoffa e pali, su terra.

Fu netto, il pensiero.

Arrivò intrusivo e lucido, tagliente come un foglio di carta preso di striscio con il polpastrello. 

«Io non voglio che finisca mai».

Subito dopo successe una cosa che capitava di rado, vista la prudenza alla guida dei miei genitori: mio padre dovette sterzare di colpo per evitare un’altra auto che stava uscendo dalla sua corsia.

Fu rapido, velocissimo, come il rush di adrenalina che dai polsi mi prese il viso e poi i piedi.

Dicono che quando hai paura il sangue confluisca tutto alle estremità per garantire la fuga.

Eppure io non avevo avuto nessun istinto, nessun movimento involontario che facesse intendere il mio desiderio di ripararmi da un eventuale impatto frontale.

Io rimasi ferma, seduta nel mezzo, sui sedili posteriori, con lo sguardo fisso a quella macchina che veniva dritta verso di noi. Ero calma. Ero pronta.

Fu allora che arrivò a farmi visita quel pensiero.

Fu allora che desiderai di morire per la prima, primissima volta in vita mia.

Pensai, lo ricordo con chiarezza, che sarebbe stato bellissimo morire in un incidente, tutti e tre insieme, sul colpo, nella nostra Ford Escort azzurrina dal design simil-sovietico e con Battiato in sottofondo che cantava Summer On a Solitary Beach.

Sarebbe stato bellissimo perché in quel modo la nostra vacanza perfetta, il nostro limbo di amore familiare, sarebbe durato in eterno e privato dall’inevitabile sofferenza di chi invece è, per come va la vita, costretto a rimanere.

Non sapevo da dove arrivasse quell’immagine, non pensavo di essere capace di saper pensare alla morte, che allora io non conoscevo: nessuno era ancora venuto a mancare nella mia famiglia e io non ero sicuramente quella che si può definire una bambina cupa. Ero estremamente silenziosa, questo sì, ma non triste o quantomeno non così pragmatica da pensare alla fine della vita. Soprattutto a quella degli altri.

Pensai però che sarebbe stato bello finire felice, con un bonus sorrisi per chi rimaneva: una famiglia che se ne va in coro alla fine è meno triste e dolorosa di una famiglia che si estingue man mano.

Pensai che se fossimo morti in quel preciso momento nessuno di noi avrebbe dovuto affrontare il lutto per la morte degli altri due. E io sapevo, sapevo già precisamente che se tutto fosse andato come previsto dalla vita che riteniamo «lineare», quella persona che avrebbe dovuto affrontare la perdita sarei stata prima o poi io.

Fui talmente folgorata da quella che credevo essere una rivelazione geniale che, poco dopo il frontale evitato da mio padre, sottoposi ai miei genitori quel bizzarro finale di stagione che avevo previsto per la nostra vacanza: perché, dissi, non moriamo tutti e tre insieme?

E lì accadde una cosa che non avevo previsto minimamente e che avrei capito soltanto molti anni dopo: i miei genitori, senza neanche girarsi, scoppiarono a ridere.

Una risata unanime e di pancia, irrefrenabile, pura, che mi sconvolse perché davvero, davvero non riuscivo a comprendere cosa ci fosse di assurdo in quella mia richiesta così seria e apparentemente così lucida.

Loro ridevano di quella che per me era la via più semplice per tutti, quella che avrebbe comportato il famoso lieto fine.

Sono passati ventotto anni da quell’estate in cui per la prima volta pensai alla morte.

Nel frattempo ho sperimentato tante volte il lutto sulla mia pelle.

Ho imparato cosa voglia dire sopravvivere al dolore, al tempo e allo spazio che divide i corpi di chi va e di chi rimane.

Ripenso spesso a quell’estate sui Pirenei, alla nostra Ford azzurrina a diesel dal design simil-sovietico, ai miei libri letti a testa in giù e al rituale della tenda canadese.

E penso ancora, quasi quotidianamente, al momento in cui, se tutto andrà come ahimè deve, rimarrò io quella che deve sedersi al posto di guida. 

Adesso ho capito il senso di quella risata.

Gianna e Valerio ridevano perché loro erano già grandi.

Io, quel giorno, sui Pirenei ho urlato chiaramente che non ero pronta a diventare grande. Che io, il dolore, non lo volevo proprio considerare come alternativa, che la mia sopravvivenza era legata a doppio nodo con la loro.

E che a me andava benissimo così.

Anche se non è così che la natura opera.

Ci sono momenti, poco prima di dormire, in cui il pensiero di sopravvivere ai miei genitori mi rende impossibile il sonno.

E di nuovo sento quel rush di adrenalina che parte dai polsi e si dirige veloce alle estremità del mio corpo, preparandomi alla fuga.

Eppure mi trovo a dover rimanere in quella posizione senza vie di fuga, stavolta neanche immaginarie.

Il passaggio all’età adulta è smettere di cercare scappatoie dallo spazio ma soprattutto dall’andamento lineare del tempo, da cui non possiamo evadere, anche se a volte ci sembra possibile grazie a quei momenti di incredula bellezza che sappiamo vivere soprattutto nella prima, primissima infanzia.

Ricordo chiaramente la prima volta in cui ho desiderato di morire. 

E quando adesso ci ripenso mi viene da ridere. 

Di gusto, in modo cristallino e puro, proprio come Gianna e Valerio fecero ventotto anni fa in quella Ford Escort.

E capisco, tra una risata e un nodo alla gola, di essere diventata, finalmente e mio malgrado, un’adulta anche io.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.

ARTICOLO n. 88 / 2024