ARTICOLO n. 39 / 2021
FANTASMI
ESTATE IN GIAPPONE
Nagoya, Giappone centrale. Primo mattino.
Il caldo aumenta attimo dopo attimo e la luce che oltrepassa i vetri è intensa: il sole sorge presto da questa parte del mondo. Ogni cosa che tocco è già tiepida, il piano di acciaio della cucina, la caraffa di vetro, il miscelatore del lavandino e persino l’acqua che apro fredda. Esco sul balcone per annaffiare le piante e Ōtake san, il mio vicino di casa, sta facendo lo stesso. Ci salutiamo attraverso l’intreccio di gelsomino che ci separa. Lui sta per andare a dormire dopo aver trascorso la notte a suonare malinconiche melodie blues alla chitarra e ad accendere molte sigarette. Il suo locale, un piccolo bar notturno frequentato prevalentemente da musicisti, è chiuso a causa dello stato di emergenza, il più severo dall’inizio di questa pandemia. Dichiarato a Nagoya a partire dal 12 maggio 2021, si aggiunge a una serie di disposizioni che hanno interessato il Paese nel tentativo di limitare la diffusione del contagio. Il Giappone non ha mai previsto veri e propri lockdown, preferendo per lo più misure che si basano sulla cooperazione dei cittadini e delle attività. Ci sono però alcune restrizioni imposte che riguardano in particolare ristoranti e locali, come nel caso di Ōtake san. Nonostante il riposo obbligato, il suo bioritmo resta uguale, mentre la mia giornata inizia ora: voglio andare al mercato che allestiscono nello spazio del santuario a fare un po’ di spesa. Mentre mi preparo, realizzo che questo è il primo anno – dei nove trascorsi qui – in cui ho presenziato a tutti gli appuntamenti ortofrutticoli mensili: la pandemia ha reso la dimensione del quartiere la mia dimensione. E se da un lato ha ridotto il mio raggio di esplorazione dall’altro mi ha fornito una sorta di lente, capace di ingrandire dettagli finora ignorati.
Varcato il grande torii di legno, mi accoglie la bandiera delle buone pratiche in fase di pandemia: oltre ai classici «distanziamento», «indossare la mascherina», «parlare a bassa voce», il divieto di mangiare in loco è sancito dal pittogramma di un omino con un onigiri nella mano destra, uno spiedino nella sinistra e la bocca spalancata, il tutto barrato da una diagonale stentorea. In effetti, rispetto alla consueta moltitudine – soprattutto nella stagione estiva – di banchi dedicati allo street food come yakisoba, dango, taiyaki, e rinfrescanti cetrioli crudi sullo stecchino (!) ce n’è solo uno di takoyaki che non ha nemmeno acceso le piastre. Se fosse un normale mese di giugno non solo le mandibole dei visitatori sarebbero già in azione, ma tra il verde brillante degli aceri vedrei i giochi dedicati ai bambini, come la pesca di pesci rossi o di piccoli palloncini che galleggiano sull’acqua, accerchiati da un mattiniero e nutrito pubblico.
La venditrice del banco delle verdure per un attimo dimentica la consueta compostezza, si sbraccia, vuole che mi affretti perché sono rimasti gli ultimi germogli di bambù. Oltre che buoni, i germogli di bambù freschi, hanno una sinistra bellezza: sembrano corni di un qualche animale fantastico. «L’anno prossimo vieni con noi a raccoglierli,» mi dice lei, nascosta da un cappello di paglia e da una mascherina con motivi floreali. «È un po’ faticoso ma dà molta soddisfazione, vedrai. Speravamo di poterti invitare già questa volta, ma con il covid…» reclina la testa e stringe gli occhi in segno di vero rammarico.
Io sorrido, sperando che lo capisca dal mio sguardo.
I germogli di bambù si raccolgono tra aprile e maggio, periodo in cui il Giappone ha vissuto una delle fasi peggiori per la diffusione del virus COVID-19. I contagi giornalieri, che dopo un incremento acuto a gennaio erano andati scemando grazie alle restrizioni, sono aumentati in modo lento e inesorabile in marzo e aprile, costringendo il governo a intervenire nuovamente: il 16 maggio si è raggiunto il picco di casi attivi nel Paese. Imprudente quindi organizzare uscite di gruppo nelle foreste di bambù per raccogliere e degustare germogli grigliati. Nonostante la pandemia in Giappone non abbia mai raggiunto i numeri spaventosi di Europa, Stati Uniti, o di altri Paesi del mondo, la situazione, in un alternarsi di restrizioni e riaperture che si susseguono ormai da più di un anno, non è mai stata davvero sotto controllo. Anche in questo principio d’estate, a causa del numero dei contagi, della pressione sul sistema ospedaliero, dei vaccini iniziati con serio ritardo, non è possibile dimenticare l’emergenza e provare il tanto atteso sollievo.
Carica di mele, germogli e radici, attraverso il santuario e raggiungo il parchetto adiacente: aiuole curate, una tigre da cavalcare, una sfera di esagoni su cui arrampicarsi, il saliscendi, la sabbiera. Una donna vestita d’azzurro spinge la sua bambina sull’altalena: visto l’orario e lo sguardo assonnato di entrambe più che un gioco sembra un modo per cullarsi al fresco delle canfore. La panchina accanto a loro è occupata da una bottiglia vuota: è una rarità incontrare immondizia abbandonata e attira la mia attenzione. Mi avvicino, è una ramune, bevanda gassata al sentore di limone, oggetto iconico e simbolo dell’estate giapponese. Creata in Giappone nel 1884 da un medico-farmacista scozzese, venne in origine promossa per la sua capacità prevenire il colera. Credo che la sua imperitura popolarità sia dovuta più che al gusto al design particolare della bottiglia in vetro. Brevemente: a sigillare l’imboccatura c’è una biglia; per aprirla bisogna usare un aggeggio apposito che spinge all’interno la biglia e lascia uscire il gas; al termine della bevuta la biglia rimane nel collo della bottiglia (grazie a una doppia strozzatura) trasformandola in un simpatico sonaglio. Lì, vuota e sola sulla panchina, è così bella che decido di fotografarla. E appena riguardo lo scatto l’effetto reverie si attiva: se ai mercati si è soliti mangiare passeggiando, durante le sere estive, soprattutto dopo un matsuri – celebrazione tradizionale che coinvolge la popolazione con feste, rituali e cortei –, la ramune rappresenta un classico rinfrescante e tintinnante. Ma neanche quest’estate con tutta probabilità ci saranno matsuri, se non in versione ridotta. E si sentirà – di nuovo – la mancanza di questi eventi solenni, conviviali, danzanti, affollati, talvolta selvaggi e sempre ricchi di fascino. Ricordo ancora, durante il mio primo anno a Kyoto, la grandiosa sfilata dei carri e dei palanchini sacri del Gion matsuri, uno dei più importanti del Paese, iniziato nell’869 come evento propiziatorio per scacciare le epidemie. Era il mese di luglio, le vie colme di persone, colori, simboli, flauti e percussioni. Un’umanità che si ritrovava nella celebrazione di un mondo per me ancora indecifrabile ma la cui vitalità dirompente riusciva a coinvolgermi in profondità. Lo scorso anno è stato il primo da parecchio tempo senza i grandi festeggiamenti, e anche in questo luglio 2021 la manifestazione si terrà in forma molto limitata.
Nonostante sia appesantita dalle borse e accaldata, decido di allungare di poco la strada per passare davanti a una delle case tradizionali che preferisco: ha delle bellissime ortensie blu appena fiorite, un albero di cachi e una lanterna di pietra. La proprietaria è l’anziana signora Ikeda, e non esce spesso. L’ultima volta che ci siamo incontrate era appena passato il Capodanno, lei era sul marciapiede, intenta a sistemare il suo sacchetto della spazzatura per il ritiro settimanale: conteneva una manciata di resti, quasi vivesse di nulla. Faceva molto freddo e, rimanendo distanti, ci siamo scambiate gli auguri e poche parole – i suoi famigliari, giustamente prudenti, non erano venuti a trovarla dalla capitale per le celebrazioni di hatsumode, ma le avevano comprato un cellulare con lo schermo grande. Ogni volta che raggiungo l’ingresso con i bassi gradini di muschio, mi fermo e do uno sguardo al giardino della signora Ikeda – le piante, le ombre, la parete tutta finestre. E ogni volta immagino la casa come poteva essere un tempo, abitata da una giovane famiglia – padre, madre e due bambini – che si riunisce sulla veranda a guardare le stagioni cambiare. Nel rovente pomeriggio estivo i due bambini sono seduti con le gambe penzoloni e mangiano spicchi di costosa anguria. Appena cala il buio accendono stelline scintillanti, candele magiche che rendono ampi e luminosi i loro sorrisi. E poi, insieme ai genitori, si avventurano al porto per lasciarsi incantare dai fuochi d’artificio.
Il forte rumore pneumatico e metallico che sento prima di svoltare l’angolo dovrebbe allertarmi e invece no, avanzo spensierata con il blu delle ortensie già negli occhi.
Ecco, qualcosa che questa pandemia non ha per nulla rallentato in città è il moto distruzione-ricostruzione: vecchie case per nuove case o vecchie case per terra in vendita o vecchie case per parcheggi. Nel quartiere sono diverse le dimore addormentate, chiuse, inghiottite dai rampicanti, coperte dalla polvere e consumate dalla ruggine. Qualcuna è abitata da persone sole, anziane, spesso invisibili, qualcuna è abbandonata. La loro presenza non è una prerogativa del tempo della pandemia ma credo che ultimamente le cose stiano andando un po’ troppo veloci. Solo negli ultimi due mesi ho assistito alla demolizione di un ryokan, di uno storico ristorante di udon, di un complesso di mini appartamenti, di due case signorili, di un barbiere vintage ma ancora in attività, di una pasticceria e di una grande villa con un vecchio ciliegio. Al ciliegio hanno concesso un’ultima fioritura fra le macerie, ma poi è sparito anche lui.
La casa delle ortensie, dell’albero di cachi e della lanterna di pietra è sventrata, posso vedere le piastrelle bianche del bagno, il wc sradicato, i tatami per metà sospesi nel vuoto. Distolgo lo sguardo il più rapidamente possibile e accelero il passo: è un’intimità rivelata con troppa crudezza. E la signora Ikeda? Ad agosto in Giappone si festeggia Obon – occasione in cui le famiglie si riuniscono per onorare gli spiriti degli antenati che tornano fra i vivi – e voglio pensare che i suoi figli abbiano colto l’occasione per portarla a vivere con loro a Tokyo. Mentre io scopro la forma dei suoi lampadari di vimini, lei si troverà in un appartamento al tredicesimo piano di un grattacielo, immersa nella densità urbana di Shinagawa, oppure in una villetta della tranquilla e residenziale Minami-Nakano. Immagino la signora Ikeda rivedere Tokyo dopo tanti anni e ritrovare la megalopoli in un frangente così particolare, senza turisti, con il traffico umano ridotto.
Non vado a Tokyo da molti mesi, è uno dei periodi più lunghi di separazione dalla capitale pur trovandomi a poche ore di Shinkansen. Questa estate avrebbe dovuto finalmente essere quella dei Giochi olimpici e paralimpici, e invece, nella migliore delle ipotesi, si terranno a porte chiuse o con pubblico contingentato. Un danno economico, una ferita. A marzo 2020, quando è stato deciso il rinvio dei Giochi al 23 luglio 2021, eravamo tutti convinti che le cose, arrivati a questo punto, sarebbero state molto, molto diverse. E invece no, o almeno non proprio. A oggi circa l’80% della popolazione non vuole le Olimpiadi, e da più parti sono state avanzate richieste di posticiparle nuovamente o addirittura cancellarle. Tra queste spicca una petizione proposta da Utsunomiya Kenji, avvocato e più volte candidato sindaco di Tokyo, che in soli due giorni ha raccolto più di 200.000 firme. I motivi riguardano principalmente la sostanziale impossibilità di garantire la sicurezza di atleti, personale coinvolto, e popolazione durante un evento che, anche senza pubblico (straniero e forse nemmeno giapponese), mobiliterebbe comunque migliaia di persone, e il fatto che il sistema sanitario del Paese, già sotto grande stress per la carenza di medici impegnati nella gestione dei pazienti covid e nella campagna vaccinale, non potrebbe coprire anche le esigenze derivanti dai Giochi.
Matsuri, street food, caldo umido, ramune, anguria, fuochi d’artificio. Per completare in maniera soddisfacente il quadro dei simboli dell’estate giapponese ne manca almeno uno, per me imprescindibile, ed è il frinire delle cicale. Colonna sonora di ogni scena estiva, sia in campagna sia in città, la loro voce è insistente, esasperante e bellissima. Le cicale che stanno per nascere e che sanciranno l’inizio della stagione, hanno trascorso gli ultimi due o tre anni sotto terra a sperimentare la trasformazione. Vivranno poche settimane durante le quali, come sempre si nutriranno, canteranno e daranno origine a nuovo ciclo. Mentre mi allontano dal fragore della demolizione e dal pensiero di un’olimpiade così complessa, mi fermo sotto i ciliegi e resto in ascolto: le chiome sono ancora silenziose.
Nagoya, Giappone centrale. Al tramonto.
I germogli di bambù li cucino seguendo le indicazioni della signora del mercato: prima bolliti interi nell’acqua torbida di lavaggio del riso, poi sbucciati, tagliati a spicchi e cotti in brodo dashi, salsa di soia, mirin, e infine cosparsi di fiocchi di bonito essicato. La loro consistenza tenera mi sorprende sempre e anche il loro sapore, simile a un profumo da inghiottire. Intanto la sera avanza, calda e densa. Appena sento Ōtake san uscire sul balcone per una sigaretta lo raggiungo e gli chiedo quando, secondo lui, arriveranno le cicale.
«Manca poco» mi risponde attraverso il gelsomino. Il verde è quasi nero nel buio, e il bianco dei fiori è opalescente.
«Sarà un’estate di nuovo strana, di nuovo a immaginare la prossima» dico io.
Lo sento aspirare fumo, espirare, esitare «Però le cicale del prossimo anno, da qualche parte, ci sono già» aggiunge.
E allora speriamo di ascoltarle con un animo più lieve, durante una stagione in cui le icone tutte si manifesteranno pienamente, senza più rinvii, cancellazioni e troppe solitudini.
Ōtake san sta per rientrare, fa scorrere la zanzariera.
«Credo che tu abbia dimenticato un simbolo, uno importante» mi dice. «L’estate è la stagione dei fantasmi. Non hai mai partecipato a un hyakumonogatari kaidankai? Cento storie per cento apparizioni soprannaturali, una candela viene spenta a conclusione di ogni racconto. E al termine dell’ultimo, forse il più spaventoso, si resta nella completa oscurità.»
Questa notte nel cielo non ci sono stelle, non si vede la luna. Ōtake san lascia il balcone. Riprende la chitarra, le note sono quelle di Rambling on my mind.