ARTICOLO n. 35 / 2022

FACING HIM

Un ritratto di Keith Jarrett

Siamo così abituati a vedere Keith Jarrett con i capelli grigi, perfettamente tagliati, che è bene ricordare il tempo in cui aveva una delle più lussureggianti chiome di chiunque, bianco o nero, abbia mai suonato jazz. La sua capigliatura ebbe la massima estensione negli anni ’70, quando era a capo di due band telluriche: il Quartetto Americano con Charlie Haden, Paul Motian e Dewey Redman, e il più lirico Quartetto Europeo con Palle Danielsson, John Christensen e Jan Garbarek. Dal 1980 in poi, i suoi stretti collaboratori furono il batterista Jack DeJohnette e il bassista Gary Peacock (scomparso nel Settembre 2020). Questa band era conosciuta come Trio Standards, sebbene per me la loro versione di I Fall in Love Too Easily o altre, risultano meno rapinose di quando hanno lasciato queste riconoscibili e molto amate pietre miliari nella loro scia. Celebrato come pianista, Jarrett è in realtà un polistrumentista.

Al Deer Head Inn jazz club, alla fine degli anni ’60, Stan Getz gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se sarebbe andato in tour con lui, dopo che lo stesso Jarrett ebbe finito un assolo con la chitarra elettrica. Eyes of the Heart, un sottovalutato album live del 1979, comincia con un lungo assolo di sassofono soprano. In Spirits e No End Jarrett suona ogni genere di percussione. I suoi lavori solistici al piano includono sia le proverbiali improvvisazioni, che registrazioni del repertorio classico. 

In confronto, pochi musicisti jazz hanno deviato in quest’ultima categoria. Si può pensare a Wynton Marsalis, ma il ruolo della tromba nel repertorio classico è piuttosto marginale. La tromba non ha raggiunto il suo potenziale espressivo come strumento solista fino a quando non ha trovato la via fra le mani di Louis Armstrong. 

Il piano, invece, è il centro della tradizione classica occidentale. Se i critici buttafuori all’entrata del Pantheon dei pianisti classici hanno esitato ad ammettere Jarrett, è in parte dovuto al fatto che lui non ha dedicato se stesso al canone con la risolutezza e l’esigenza dovute. Mentre le sue registrazioni de Il clavicembalo ben temperato sono spersonalizzate fino all’austerità – «questa musica non ha bisogno del mio aiuto» –, Jarrett sottolinea sempre che Bach era un improvvisatore. E Beethoven non poteva essere più felice di quando annientava potenziali rivali in quello che il lessico del jazz avrebbe definito cutting contests (battaglie musicali NdT). 

Per certi versi, quindi, il genio dell’improvvisazione di Jarrett, lo porta vicino allo spirito di questi, più che verso una devota aderenza ai loro spartiti. Paragonato ai maggiori concertisti di sempre, Jarrett ha coperto solo una minima frazione del repertorio. Non ha mai registrato una sonata per pianoforte di Beethoven. Perché Beethoven lo avrebbe messo alla prova e imposto un tributo in modo diverso da Bach o Shostakovich? Non importa, ci sono così tante registrazioni di Beethoven, ma esiste solamente un Köln Concert.

Se, in seguito a un cortocircuito cosmico, fossero cancellate dagli archivi tutte le interpretazioni di Beethoven eseguite da Alfred Brendel, sarebbe una perdita, ma avremmo comunque le versioni di Kempff o di altri. E anche se perdessimo tutte le registrazioni di Beethoven mai fatte, avremmo comunque gli spartiti: i documenti fondamentali su cui poggia la conoscenza. Ma se perdessimo Jarrett, avremmo perso la musica che lui soltanto era capace di creare, comporre e suonare.

Il Köln Concert è sia occasione che esempio iconico; molte delle sue registrazioni soliste successive sono più forti, anche se meno seducenti melodicamente. Le meravigliose melodie di Jarrett sono inseparabili dalla sua duttile potenza ritmica.

Ora, il ritmo è terreno di molti confronti, basta pensare a McCoy Tyner, alla sua devastante mano sinistra, ma Jarrett ha il talento di scatenare impennate ritmiche radicalmente eccessive in rapporto a ciò che sta facendo. Un elemento cruciale delle performance soliste, che diventa ancor più evidente con il trio – basta ascoltare i primi due accordi di Flying, Part 2 in Changes – dove lui, DeJohnette e Peacock rimbalzano da uno all’altro con effetto estatico. Sebbene sia un leggero peccato che Jarrett negli ultimi decenni non abbia collaborato maggiormente con altri, si è rassicurati da come il suo trio fosse infintamente flessibile. Sono stati funky, hanno suonato calypso, e addirittura il ragtime (purtroppo). Suonavano liberi, danzavano. 

Alla costante qualità di Jarrett su tutta la gamma di stili, corrisponde una longeva creatività. Chiaramente, il contributo di Ornette Coleman è storicamente più importante. Anche se Coleman non avesse registrato niente dopo il 1960, il suo lascito sarebbe stato al sicuro. Il rovescio della medaglia è che, nonostante l’attività frenetica, molto di ciò che Coleman ha fatto da allora somigliava ad un postscriptum. Per quanto riguarda la costante e variegata qualità di produzione nel tempo, nessuno potrà competere con Miles Davis, con cui Jarrett e DeJohnette hanno suonato nei primi anni ‘70. Tranne la pausa iniziata nel 1996, quando Jarrett fu frenato dalla ME (Myalgic Encephalomyelitis, in italiano Encefalomielite Mialgica, NdT) – i primi tentativi di recupero sono documentati in modo struggente in The Melody at Night, with You del 1999 – non ci sono stati altri momenti di aridità nella sua carriera. 

Ogni anno ECM pubblica materiale stupefacente dagli immensi archivi storici di Jarrett. Non è mai esistito un periodo in cui si andava a sentire Jarrett suonare solo perché era Jarrett, nello stesso modo in cui, in molti momenti, uno sarebbe potuto andare a sentire Bob Dylan (la cui My Back Pages, Jarrett, Haden e Motian registrarono nel 1968). Ci si andava consapevoli di avere buone probabilità di sentire qualcosa di irripetibilmente memorabile. È possibile che quei giorni siano davvero passati? C’è una traccia su Belonging del 1974 chiamata The Windup ma alcuni dei miei passaggi preferiti avvengono in quello che verrebbe chiamato il wind-down, la calma dopo i momenti di climax. In realtà, spesso è difficile essere esattamente sicuri di quando il picco sia stato raggiunto. La musica è sempre capace di scuotersi ancora, anche dopo molti climax. Il vocabolario sfortunatamente sessualizzato che si è intrufolato qui, almeno ci permette di affrontare il tema dei contorcimenti e dei gemiti di Jarrett. A volte i gemiti coincidono con i momenti di estasi. In altri momenti non sembra che stia facendo finta, giusto, ma che sia più l’irrefrenabile espressione di rapimento, le urla potrebbero essere il supremo sforzo di raggiungere una trascendenza che si dimostra sfuggente.

Si consideri Somewhere/Everywhere dall’album del 2013, Somewhere. Il trio comincia con il brano di Bernstein e poi scivola nella trance collettiva di un originale di Jarrett. Cresce, cresce e poi, avendo raggiunto la massima intensità e complessità, comincia la sua discesa finale intorno al quindicesimo minuto. Ma nei rimanenti quattro minuti, che avrebbero potuto felicemente estendersi a quattordici, come quaranta, il meglio deve ancora venire. Anche mentre scivola e si affievolisce nel silenzio, la musica contiene sempre la possibilità che potrebbe riprendere, di nuovo. Ecco perché l’applauso, il nostro apprezzamento, dovrebbe sempre essere ritardato.

Facing him di Geoff Dyer è tratto da Keith Jarrett, a portrait di Roberto Masotti. Prima edizione 2021 – Ristampa 2022 © Seipersei Books.

ARTICOLO n. 96 / 2024