ARTICOLO n. 10 / 2025
FACCI UN SORRISO. “THE SUBSTANCE”
In occasione del ritorno in sala di The Substance di Coralie Fargeat, prosegue la collaborazione tra The Italian Review e I Wonder Pictures che lo distribuisce nelle sale.
Ho un’immagine in testa. Agli ultimi Grammy awards Bianca Censori, moglie del rapper Ye (fu Kanye West) si è presentata, sotto la sua onnipresente e soffocante ala, quasi completamente nuda, coperta solo da un velo di raso trasparente.
Seno e vulva esposti, Censori è rimasta immobile davanti a un muro di fotografi che urlavano il suo nome, chiedendole di posare, di girarsi, di sorridere a favor di camera.
Lei però non ha mai sorriso.
Non sembrava nemmeno troppo felice di essere lì. Anzi, era distante, come se non fosse presente a sé. Come se stesse guardando il vuoto, e non il muro di flash del photocall.
In compenso suo marito era molto orgoglioso di sfoggiare il corpo di sua moglie a tutto il mondo: tronfio, petto in fuori, completamente vestito di nero e con sguardo compiaciuto, mostrava l’oggetto che da mesi si porta dietro come se fosse una bizzarra borsetta di design.
Solo che l’oggetto in questo caso è umano, e ha un nome, un corpo e una precisa identità.
Guardando quelle immagini, che molte persone reputano allarmanti per la possibile violenza psicologica e coercizione a cui sarebbe sottoposta Censori da Ye (personalmente sono molto e purtroppo concorde con questa visione), mi trovo inavvertitamente a pensare a un film che ho visto pochi giorni fa, ovvero The Substance.
La pellicola diretta da Coralie Fargeat parla infatti in modo incessante, distopico, morboso e orrorifico di corpo femminile e sessualizzazione.
Elisabeth Sparkle (nome omen: il suo cognome si può tradurre come “scintilla”) è una celebrità nei suoi 50 anni. Volto e corpo famoso da decenni, tiene lezioni di aerobica in body succinti e pose provocanti nel programma del mattino.
La sua fama però è legata indissolubilmente al passare del tempo: più Sparkle invecchia e meno la produzione ne è felice.
Nonostante sia un volto storico del canale, nonostante sia impeccabile, sorridente, con un corpo tonico e allenato, questo infatti non basta a decretare la salvezza della sua carriera: nello showbiz – e non solo – le donne hanno una data di scadenza, che coincide con la loro età adulta.
Il produttore televisivo, un ripugnante (e per questo bravissimo) Dennis Quaid, silura Elisabeth nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, aprendo i casting per un’insegnante di aerobica nel morning show.
Sparkle non si dà pace. Non può credere che di punto in bianco la sua figura, la sua presenza, così tanto osannata e apprezzata dai piani alti dell’emittente televisiva, sia diventata un peso dal quale liberarsi. Si osserva completamente nuda allo specchio per interi, lunghissimi fotogrammi, analizzando ogni parte del suo volto, cercando nelle smorfie riflesse dalla superficie riflettente qualche segno di miglioramento, di non cedimento, di immortalità.
Svuotata da quello che a tutti gli effetti vive come il tradimento del proprio corpo, Sparkle viene in contatto con una droga, spacciata al mercato nero, che può sdoppiarla in due versioni: una è la lei del presente, l’altra è la sua versione giovanissima, sensuale, canonicissima e performante.
Nel momento in cui Elisabeth assume la droga e crolla in una sorta di coma che dura per una settimana (le due versioni del suo corpo hanno un’unica mente e devono alternarsi nella fase di riposo a turni settimanali), al suo posto – è proprio il caso di dire – emerge Sue.
Giovane, magra, soda, ammiccante, spregiudicata, Sue si reca negli studi del morning show e si candida per il posto di insegnante d’aerobica lasciato vuoto da Elisabeth.
Il produttore non ha bisogno di sapere neanche chi sia, da dove venga, quali siano i suoi progetti futuri o desideri, e la conferma immediatamente per la posizione, confezionandole addosso un programma ancor più sessualizzante, in cui Sue mima atti sessuali e ammicca a favor di camera, in cui si spoglia del body da aerobica rimanendo in un costume succinto, in cui recita per una pantomima in cui i volti perdono importanza davanti alle inquadrature dei culi, delle tette e dell’inguine.
Sue diventa un prodotto, spogliato quasi del tutto della parola (ripete solo ritmicamente dei “dài”/“andiamo”/“più veloce”). Il suo corpo diventa il centro assoluto della scena, in cui lei e perfino i suoi desideri scompaiono, inghiottiti da una duplice necessità di conferme e rassicurazioni.
Sue è la parte di Elisabeth che si crede invincibile, quella che crede di avere ancora molto da dare allo show business, quella che crede di avere un posto perché essenziale e insostituibile.
La verità è molto diversa.
Nessun corpo femminile è essenziale in un mondo patriarcale e capitalista. Tutti sono prodotti e il prodotto per eccellenza che il corpo delle donne deve sempre avere per poter avere rilevanza è la giovinezza.
Dennis Quaid, nei panni del produttore televisivo, lo spiega molto bene: il corpo femminile manipolato dagli uomini di potere è un oggetto nelle mani meno rassicuranti che ci siano.
Il corpo di Sue viene venduto per soddisfare l’ego degli imprenditori del canale, della produzione che punta a nutrire lo sguardo maschile oltre la cinepresa, a convincere quello femminile che l’unica rappresentazione valida per essere donna e di successo sia quella di spogliarsi, venendo a patti perfino con la morte (vedi: La morte ti fa bella, che per molti temi, anche se con linguaggi lontanissimi, mi ricorda The Substance), venendo a patti perfino con i propri desideri e le proprie libertà.
Sue (interpretata meravigliosamente dalla multi-talentuosa Margaret Qualley) si accorgerà solo alla fine della sua breve visibilità di quanto questa fosse fragile e meschinamente piegata alle logiche del mercato sessista.
La violenza del finale di The Substance riassume perfettamente quanto i corpi delle donne siano spesso e ancora strumenti usa e getta nella macchina dello showbiz.
Sono i prodotti più venduti di sempre, quelli che amplificano lo share e moltiplicano la viralità delle notizie; sono quelli che rendono ricchi chi li sfrutta e facoltosi chi ne possiede molti. Se fate una rapida ricerca su Google, potrete vedere come le classifiche sugli uomini più potenti del mondo si valutino in base a due elementi soltanto: i soldi e le donne che hanno avuto.
In un mondo dove i corpi femminili sono gli oggetti più vendibili e venduti, dove fino a poco tempo fa sembrava figo avere in tv una donna in ginocchio chiusa in una teca di plexiglas, dove per molto tempo le reti televisive – e i “grandi uomini” che c’erano dietro – ci hanno fatto credere che l’unico modo per essere famose fosse aspirare a fare le ragazze Cin Cin, il confine tra volere e dovere è spesso davvero molto labile.
Vogliamo davvero quella fama a tutti i costi o è solo una proiezione?
Davvero saremmo disposte a tutto pur di avere la nostra stella su Hollywood Boulevard?
E soprattutto: chi ha dettato le regole di quel gioco? Chi ha deciso che i corpi validi fossero solo quelli considerati conformi, giovani, abili, sessualizzabili?
Chi ci ha fatto credere che potesse esistere una sola regola?
La risposta è piuttosto facile: da sempre lo show business è dominato dagli uomini. Produttori, proprietari, investitori, direttori, registi.
Sono pochi anni – e solo in determinati settori – che la situazione si sta stabilizzando e che si comincia a parlare seriamente di male gaze, tropi sul femminile e sessualizzazione dei corpi delle donne.
Ma nonostante questa consapevolezza, ancora siamo ossessionati dalla freschezza del corpo-moneta, ovvero quello delle donne giovani.
Dalle paparazzate alle influencer con tanto di zoom sulla cellulite fino alle allusioni infinite su quali ritocchini avrebbero fatto le celebrities, la lente di ingrandimento di un pubblico finemente assoggettato e indottrinato dalle logiche di mercato è ancora e prepotentemente puntata sui corpi delle donne, pronta a decretare quando questi siano da buttare e quando invece da scopare, ammirare, adorare e odiare e invidiare al tempo stesso. Vuoi somigliare alla tua isola? Queste creme te lo permetteranno. Non vuoi finire vecchia e banale come la starlette decaduta? Vieni che ti vendiamo questi prodotti miracolosi per fingere di non stare invecchiando.
E questo dualismo, odio e amore, schifo e desiderio, è un meccanismo da cui non possiamo uscire facilmente, da cui non sappiamo uscire facilmente.
È il paradosso Sue/Elisabeth: sanno di essere prodotti, ma chi sarebbero se non lo fossero? Sarebbero davvero viste? Riconosciute nella loro bravura? Individuate come esseri complessi e completi?
Chi sarebbero Sue ed Elisabeth se al posto del produttore e i viscidi dirigenti di rete avessero trovato un altro ambiente? Chi sarebbero diventate se avessero trovato un mondo disposto a vederle come soggetti anziché oggetti meravigliosi da sfoggiare per fare share e vendere?
I corpi-accessorio, come dicevo all’inizio, sono ancora una questione su cui ragionare: accessori di uomini violenti che ci usano per far parlare di sé; accessori di chi deve fare soldi tramite la nostra immagine e poi ci sputa quando non siamo più conformi alle regole di un gioco che non abbiamo mai scelto ma al quale ci troviamo a partecipare; accessori di persone che un giorno ti amano e poi sono disgustate dal tuo invecchiare, dalla tua faccia che cade, dal tuo corpo che cambia e se prima ti adoravano adesso ti prendono per il culo senza alcuna pietà sui social media, con post in cui ti sezioneranno, pezzo per pezzo, come fossero chirurghi o macellai che devono tirare fuori il filetto perfetto da un trancio di carne morta; accessori di sguardi maschili che non riusciamo a spostare e rivoluzionare, nonostante la direzione progressista (seppur adesso molto precaria) della cultura.
Il corpo femminile nel film di Fargeat si autodistrugge, rende mostruoso, mutila, ferisce, si mangia da solo.
Sue/Elisabeth, sul palco del suo gran finale, grida al pubblico terrorizzato di essere pronta, di essere finalmente come hanno sempre voluto, di aver fatto di tutto per essere come gli sguardi silenziosi di un sistema patriarcale hanno sempre desiderato.
Eppure questi spettatori e i produttori urlano, scappano, vomitano, si dileguando disgustati e impauriti da quell’immagine che hanno contribuito a creare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio.
Il corpo femminile è ancora un territorio di battaglia.
E quindi mentre guardo Bianca Censori che sembra distante anni luce mentre posa nuda davanti ai flash di chi vuole un pezzo del suo corpo da vendere alle riviste, tenuta stretta dall’uomo che pensa di possederla come se fosse la sua borsetta, rifletto su The Substance e mi rendo conto che forse, per tutto questo tempo, abbiamo sprecato infinite energie a cercare il mostro nei corpi sbagliati.
Per il mondo dello showbusiness meravigliosamente narrato in The Substance, i veri mostri erano coloro che decidevano e decidono che forma darci, come modellarci e raccontarci, come divorarci e poi sputarci fuori senza pietà.
In quelle foto dal red carpet dei Grammy’s, la creatura ripugnante è in piedi, tutta tronfia e vestita da capo a piedi, di fianco a Bianca Censori, che guarda fissa in camera sperando di finire in fretta.
Chissà quando impareremo ad avere schifo per le giuste aberrazioni.
Trova la sala più vicina in cui vedere e rivedere The Substance.