ARTICOLO n. 66 / 2021

ESISTE IL NUOVO CINEMA ITALIANO?

Nuovo cinema italiano

Nel corso degli ultimi cinque anni a quasi tutti i registi e sceneggiatori italiani, soprattutto a quelli più giovani, è stata fatta la stessa domanda: «Il nostro cinema è cambiato?». Alcuni hanno risposto in modo approfondito e sincero; altri hanno evitato, e altri ancora, invece, sono stati lapidari. Sì, no, forse. Chi lo sa. Qualcuno ha azzardato: il cinema italiano non cambierà mai. 

Quando parliamo di rivoluzione interna dell’industria, scegliamo gli ultimi cinque anni come periodo di riferimento per un motivo particolare. Perché cinque anni fa – quasi sei, in realtà – in sala sono arrivati dei film che hanno cambiato – anche se per pochissimo – l’equilibrio del nostro cinema: Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari; Veloce come il vento (2016) di Matteo Rovere; Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti e Suburra (2015) di Stefano Sollima. 

Tre di questi film sono ambientati tra Roma e la sua periferia, uno è ambientato in Emilia. In Non essere cattivoLo chiamavano Jeeg Robot e Suburra si sono fatti notare due degli attori più famosi e seguiti degli ultimi anni: Luca Marinelli e Alessandro Borghi. E in Veloce come il vento ha fatto il suo esordio Matilda De Angelis, comparsa anche nella serie internazionale The Undoing. Quando questi film sono stati distribuiti, l’età media dei registi era di circa 45 anni, e anche questa è stata una novità piuttosto importante per l’ecosistema italiano.

Ovviamente non è stato un cambiamento radicale. Nei mesi e negli anni precedenti, altri film hanno preparato il terreno. Uno su tutti: Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia, all’epoca poco più che trentenne. Questi quattro film hanno in comune un’altra cosa: raccontano tutti, ognuno con le dovute differenze e con le proprie caratteristiche, storie di genere. 

Il genere all’italiana

Il genere, in Italia, non è mai scomparso veramente. Ma nel 2015 (e nel 2016) l’arrivo di questi film l’ha riportato alla ribalta. A parte Lo chiamavano Jeeg Robot, che è un film che contiene elementi fantastici, un altro punto in comune tra questi titoli è l’estremo realismo presente sia nelle immagini, sia nella costruzione del racconto. In questi film si muore, si soffre e soprattutto si affrontano i problemi di ogni giorno: debiti, dolore, malattia, povertà, droga, corruzione. 

Ognuno di questi film prende una strada diversa, è vero. Ma nonostante l’assenza di un vero coordinamento e di una regia a monte sono comunque riusciti a portare una ventata di novità e di speranza nell’industria italiana. C’è stata poi l’incapacità del sistema di approfittarne, e di innalzare questo nuovo sentimento a un altro livello (non ci sono stati sequel, per esempio; e chi ha provato a utilizzare il genere non è stato in grado di ripetere gli stessi risultati, con lo stesso apprezzamento di pubblico e di critica). Questo, però, è ancora un altro elemento, che approfondiremo a breve. Per ora, soffermiamoci su una riflessione più ampia: quella sul nuovo cinema italiano.

«A che ora è la rivoluzione?»

Prima di tutto: è mai esistita? Alla fine, questa rivoluzione è andata in porto? Risposta breve: in parte. Gli autori e gli attori di questi quattro film hanno avuto un momento di estrema visibilità, e sono andati avanti con le loro carriere. Ma molte delle novità che hanno introdotto si sono perse, e l’Italia – intesa come cinema e come industria – è tornata a un approccio più autoriale: con una figura unica al centro di scrittura e regia, e con una diversificazione molto limitata tra le produzioni.

Tutto è cominciato con Non essere cattivo di Claudio Caligari, presentato in anteprima alla 72° Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Il percorso intrapreso da Caligari, dagli sceneggiatori, Francesca Serafini e Giordano Meacci, e dai produttori, tra cui Valerio Mastandrea, è stato un percorso piuttosto atipico: fatto di tantissime rinunce, di tantissimi sacrifici e di un’alchimia straordinaria tra il regista e gli interpreti principali, Luca Marinelli e Alessandro Borghi. 

Con Non essere cattivo è nato un fortissimo sodalizio tra cast tecnico e cast artistico, e ancora oggi, a distanza di anni, è possibile ritrovarli insieme in attività, incontri e su altri set (Marinelli ha collaborato nuovamente con Serafini e Meacci per Principe Libero nel 2018). La trama di Non essere cattivo si concentra su due amici che provano a resistere e a sopravvivere, sul loro rapporto, sulle difficoltà che devono superare e sulla decisione – presa da uno dei due – di voltare pagina. È un racconto estremamente potente e tra i più belli del cinema italiano contemporaneo. 

Suburra di Stefano Sollima ha fatto un’altra cosa: ha preso Roma e ne ha mostrato i lati più oscuri, tra criminalità e politica. Anche qui uno dei protagonisti è interpretato da Alessandro Borghi, affiancato da una bravissima Greta Scarano e da un cast di prim’ordine (su questo, però, torneremo più avanti). Il tema principale del film non è la profondità della corruzione e del malaffare nell’amministrazione della capitale e nel Vaticano (sì, si parla anche di Vaticano). Sono i rapporti di potere. Sollima, dopotutto, li ha sempre raccontati: a partire da Romanzo Criminale (2008), primissima serie tv di Sky, altra rivoluzione made in Italy.

Le persone, in Suburra, sono appunto persone: non sono personaggi di un poliziottesco piatto e prevedibile; non sono solo luoghi comuni e cliché. In Suburra c’è la complicatezza della vita quotidiana: l’imprevedibilità delle scelte e le incredibili conseguenze che possono avere. Il più forte mangia il più debole: ma il più debole, a volte, riesce ad avere la meglio sul più forte. E anche questa è una delle lezioni contenute nel film di Sollima.

Veloce come il vento di Matteo Rovere è arrivato come un fulmine a ciel sereno: un film di corse, con riprese dal vivo su piste vere, con due personaggi interessanti e mai banali, che ha messo d’accordo pubblico e critica. Stefano Accorsi ha uno dei ruoli più belli della sua carriera; e Matilda De Angelis, che canta anche la canzone dei titoli di coda, Seventeen, dà una grandissima dimostrazione del suo talento. Rovere, come pochi altri registi, ha saputo lavorare con i suoi attori, e ha soprattutto saputo su quali elementi e su quali spunti insistere. 

Il mondo di Veloce come il vento è un mondo sospeso, e tuttavia estremamente credibile. Anche qui, come in Non essere cattivo, gli sceneggiatori hanno giocato un ruolo fondamentale: Rovere ha firmato la storia con Filippo Gravino e Francesca Manieri, ed entrambi in questi anni sono diventati due delle firme più cercate e apprezzate dell’ambiente, dai lungometraggi alla serialità televisiva.

Lo chiamavano Jeeg Robot è stato, tra questi film, quello più inatteso e sorprendente. Gabriele Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone hanno creato una storia semplicemente unica. Di più: hanno plasmato un cattivo iconico, così particolare e innovativo da diventare uno dei personaggi più amati dal grande pubblico nel giro di pochissimo tempo: Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli. Claudio Santamaria è il protagonista, ed è lui a dover rispondere alla chiamata dell’eroe. Ilenia Pastorelli ha un altro ruolo molto importante: è quasi una guida.

Ma Mainetti e Guaglianone non si sono limitati a giocare con i generi, a costruire un nuovo immaginario; sono andati oltre, hanno reso appassionante un tipo di storia fino ad allora piuttosto inedito tra le produzioni italiane, e hanno valorizzato al massimo i loro attori. Mainetti, in particolare, ha trovato il suo posto e la sua visione. Lo chiamavano Jeeg Robot è stato il suo primo film, e fino alla fine, fino all’ultimo giorno in sala, è sembrato una promessa: questo è solo l’inizio. E in un certo senso sì, è stato proprio un inizio. Perché Lo chiamavano Jeeg Robot, più degli altri tre film, è stato in grado di richiamare una parte di pubblico riportandola al cinema. Ma tanto è stato sufficiente?

Non ci sono solo protagonisti

Abbiamo parlato dell’importanza degli sceneggiatori e della divisione necessaria tra la figura del regista-autore e quella dello scrittore. Ma c’è anche un’altra cosa che questi quattro film, così “nuovi” per il panorama italiano, hanno fatto. Hanno dato spazio e spessore ai personaggi secondari. 

Da Non essere cattivo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ogni sequenza e ogni battuta hanno il loro ruolo e ogni personaggio che compare in scena è un personaggio memorabile, da ricordare. Con Lo chiamavano Jeeg Robot è stato particolarmente evidente, per la bravura e il talento di Luca Marinelli. Ma vanno citati anche: Antonia Truppo, Ilenia Pastorelli e Salvatore Esposito nel film di Mainetti; Silvia D’Amico e Roberta Mattei in Non essere cattivo; Paolo Graziosi e Mattei, di nuovo, in Veloce come il vento; Claudio Amendola, Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Adamo Dionisi e Giacomo Ferrara in Suburra.

Insomma, in questi quattro film il lavoro della regia e della scrittura è stato così profondo ed efficace da rendere ogni cosa, anche la più piccola, necessaria e determinante. Per il cinema italiano, questa non è sicuramente una novità. In passato è successo altre volte, certo. Ma un allineamento così forte di intenzioni e di punti di vista è, a suo modo, abbastanza unico. E va tenuto in altissima considerazione. Anche perché non stiamo parlando di film particolarmente ricchi, con super budget o con il sostegno deciso di grossi distributori. Parliamo di progetti pensati e scritti per bene, con una loro identità, con una loro forza, capaci di attirare e di tenere insieme talenti. E nient’altro. Ma cosa hanno fatto, alla fine, questi film?

Il vero cambiamento

Sono riusciti ad appassionare il pubblico; sono riusciti, soprattutto, a superare le dinamiche classiche della promozione, e a essere spinti dal passaparola. In alcuni casi, come in quello di Non essere cattivo e di Lo chiamavano Jeeg Robot, ci siamo ritrovati davanti a dei cult istantanei, ancora oggi apprezzati e consigliati dagli spettatori. Ma c’è stato anche un intervento deciso, da non dimenticare, da parte di chi si occupa della promozione. O meglio: di chi cura i materiali come poster, teaser e trailer. 

Federico Mauro e la società Vertigo, per fare un esempio, hanno giocato – anche perché liberi dai soliti dettami delle distribuzioni – con film come Veloce come il vento, e hanno usato Lo chiamavano Jeeg Robot per fare qualcosa di più: per raccontare la loro storia. I trailer, per la prima volta, non sono stati solo e semplicemente dei biglietti da visita: hanno creato e alimentato l’eccitazione e la curiosità del pubblico; sono stati, a loro volta, dei piccoli momenti rivoluzionari. Ogni nuovo contenuto ha fatto la differenza: ed è stato atteso, ripreso, condiviso.

Attenzione, però: se questi quattro film sono andati bene, e hanno incassato e sono piaciuti così tanto, non è stato merito unicamente delle distribuzioni e di chi ha seguito la fase promozionale. Erano anomalie, e come anomalie sono state trattate. Non c’era un disegno preciso; non c’era l’intenzione particolare di insistere. Il successo è arrivato, ma è arrivato per caso. E anche per questo la promessa di un nuovo cinema italiano sembra essere stata tradita. 

Non abbiamo saputo, in questi cinque anni, costruire un sistema capace di autosostenersi e di autoalimentarsi; non abbiamo trovato una terza via. Continuiamo ad attivarci sempre con una grande fatica. Si produce tanto, e anche oggi, dopo due anni di incertezze e difficoltà, ci sono novità e nuovi titoli ogni settimana. Ma il pubblico lo sa? E soprattutto: il pubblico è intenzionato a vedere questi nuovi film? Questo atteggiamento, questo approccio così vago e largo, ha ancora senso? 

Disney e Marvel, e gli altri colossi hollywoodiani, hanno mostrato chiaramente una cosa: il pubblico va al cinema se è convinto, se sa di potersi fidare; se c’è un brand conosciuto e riconosciuto. In Italia siamo riusciti a fare una cosa simile? Il genere, così tanto apprezzato e ricercato, ha avuto il suo spazio?

Il secondo film di Gabriele Mainetti, Freaks Out (2021), non ha ricevuto la giusta attenzione; ci si è mossi tardi, e questo è un fatto. E anche nel ritardo, non è stata trovata una strategia vincente e condivisa. Mainetti ha finito per spingere e per promuovere Freaks Out quasi da solo, con i suoi social. Aiutato unicamente dal comparto digital.

Punto e a capo

Torniamo alla domanda iniziale. Il cinema italiano è cambiato? Se parliamo di intenzioni, di voci, di nuovi autori, assolutamente sì. Ci sono produttori pronti a rischiare, oggi; produttori che hanno visto, o anche solo notato, il potenziale di determinate storie. Ma sono pochi. Si contano, forse, sulle dita di una mano. Matteo Rovere è un esempio. 

Il sistema, di fatto, è rimasto lo stesso. E quindi un nuovo cinema italiano, una rivoluzione, non ci sono mai stati. Siamo ancora in attesa. La nostra industria, in questi anni, non è stata in grado di fare autocritica, di cambiare, di correggere errori strutturali che vengono ripetuti da decenni. A monte, c’è un’idea da grande editore: questo è il film, questa è la data d’uscita; venite al cinema. Purtroppo però questa visione non basta più. Perché il pubblico e i suoi gusti non sono più gli stessi. 

Serve anche un’inclusività diversa, maggiore e ragionata: bisogna dare libertà alle registe e ai registi, alle sceneggiatrici e agli sceneggiatori; bisogna superare gli schemi tradizionali, ed essere pronti – non a rischiare ma – a investire. Ci sono talenti come quelli di Alice Rohrwacher, di Francesca Mazzoleni e di Susanna Nicchiarelli che si stanno facendo largo a forza, spinte dal successo dei loro film e da un apprezzamento internazionale. Non è una questione quantitativa, ma qualitativa: ci sono ancora molte resistenze, anche sotto questo punto di vista, in Italia.

Per molto tempo la colpa della crisi delle sale è stata data allo streaming: è colpa della loro offerta; è colpa del loro modo di fare e farsi pubblicità; è colpa di un catalogo insuperabile. Ma il resto – e quindi i cinema, intesi come strutture fisiche, la promozione e anche il processo di selezione di nuovi progetti – è rimasto perfettamente identico. Davanti alla minaccia dell’estinzione, il nostro istinto di sopravvivenza non ha fatto niente. Siamo in un nuovo mondo, ma abbiamo la stessa mentalità dell’inizio degli anni 2000.

Il nuovo cinema italiano, forse, arriverà: fa parte della natura ciclica delle cose, e anche dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Oppure questa fase verrà completamente saltata, e l’eredità di film come Lo chiamavano Jeeg RobotNon essere cattivoVeloce come il vento e Suburra sarà condannata a rimanere in secondo piano. Diventerà un promemoria per il futuro, e sarà un ricordo con cui consolarsi.

In questo articolo non vengono citati grandi successi commerciali come Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese ed esperimenti come Mine (2016) di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, e nemmeno l’esordio dei fratelli D’Innocenzo (2018). Abbiamo preferito concentrarci su questi quattro film e su questo periodo (2015-2016) non solo per ridurre il campo di indagine, ma pure per rendere più lineare il nostro ragionamento: Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra, Non essere cattivo e Veloce come il vento sono stati apprezzati dalla critica (recensioni positive) e dal pubblico (buoni incassi); sono tutti racconti di genere (con le dovute differenze, come abbiamo già detto) e hanno tutti dato spazio a nuovi talenti – attori, attrici, registi, sceneggiatori – del cinema italiano. Ancora una cosa: per Lo chiamavano Jeeg Robot va segnalato l’importante lavoro fatto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti.

ARTICOLO n. 93 / 2024