ARTICOLO n. 47 / 2023

ESISTE ANCORA L’ITALIANO LETTERARIO?

Questo intervento è stato letto dall’autore alla Camera dei Deputati, in occasione del Forum della lingua italiana, tenutosi il 23 maggio 2023.

“Seguono il navigatore e finiscono con la macchina nell’Oceano Pacifico”. 

Qualche anno fa, tre persone in vacanza hanno seguito con una tale fiducia le indicazioni del navigatore che, pur a un passo dal cadere nell’oceano, sono andate avanti, perché il navigatore ne era certo: la strada giusta era quella. Poco importa che quella non fosse una strada, ma il modo migliore per finire, appunto, nell’oceano.

Leggendo questa notizia su un importante quotidiano nazionale – nella fittissima mole di informazioni e dati prodotti in ogni istante e destinati all’oblio in ogni istante – potremmo chiederci come è successo? E quando è successo? Come è successo, quando è successo, che la nostra specie, la specie cui apparteniamo, ha iniziato a lasciarsi condizionare così tanto dalla realtà esterna? Quando ha iniziato a essere invasa da una così intensa assenza mentale?

Il nostro cervello è esploso a dismisura per milioni di anni. Quasi da sempre, ci è stato possibile, davanti a un cielo stellato, sentire la presenza di milioni di galassie. Sentire l’immensità. Sentire l’infinito. 

Uso la parola sentire e non capire, perché comprendere di essere felici, per esempio, è ben diverso che sentire di essere felici, così come comprendere di provare dolore è molto diverso dal sentire il dolore. Quando qualcosa si sente, la si vive. Se la si capisce, non sempre c’è la conversione: non sempre la stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Si potrebbe dire che i tre turisti, prima ancora che capire il pericolo di finire nell’oceano, non l’abbiano sentito. Non erano affatto nel presente. Con la mente, erano da un’altra parte, come capita in vario modo, a noi tutti, ogni giorno. Per questo appaltavano le decisioni al navigatore. 

La loro caduta nell’oceano, scenografica ma non così drammatica, può suggerire un sorriso, ed è giusto così: sorridere è un atto molto umano, se possiamo. Non deve però farci dimenticare che quei turisti siamo noi. E che noi tutti, ogni giorno, mettiamo sempre più da parte questo sentire, questo vivere nel presente, questo vivere nell’istante.

Si trattava di tre giapponesi in Australia ma, per quanto nel mondo sembra che ci siano ancora persone che non ne siano convinte, ogni essere umano è uguale a un altro: ha sangue rosso e lacrime salate, prova molto amore, prova molto dolore. Ognuno è responsabile della sua vita, certo, ma ognuno di noi è nell’universo, e quindi ogni essere umano (così come ogni essere vivente) siamo noi. Noi non siamo nella natura ma siamo la natura. Non ci siamo noi da una parte e il mondo dall’altra: noi siamo il mondo. 

Naturalmente il punto interrogativo che chiude il titolo di questo intervento – esiste ancora l’italiano letterario? – si configura come un piccolo muro di Berlino, che tiene fuori un’altra parte della domanda: esiste ancora l’italiano letterario, nell’era della distrazione, della disattenzione, o nell’epoca algoritmica che ha messo al centro, come forse mai prima d’ora, le istanze dell’ego? Ego che come una scheggia impazzita invade il mondo, esplode nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione?

E poi: esiste ancora l’italiano letterario, in un contesto in cui il dibattito (letterario e non) si contrae, si spettacolarizza, si infantilizza e in cui è sempre più esasperata la sovrapposizione – tutta del nostro Ventunesimo secolo – tra prestigio e numeri, talento e consenso, in cui in sostanza è molto più facile confondere il successo con l’opera artistica?

E infine: esiste ancora l’italiano letterario in un tempo in cui il nostro sentire è a rischio?

Non si può che chiedere scusa alle grandi domande per le piccole risposte. 

La risposta è sì. 

È innegabile che sono tempi ostici per la lingua letteraria, ma finché esisterà la nostra specie, ne sono convinto, esisterà questa scintilla, questo incantesimo.

Prima di addentrarci, però, è necessario specificare che cosa si intende, qui, per “letterario”. Naturalmente la prospettiva non è qui quella di un linguista, o di un sociologo della lingua, ma di uno scrittore o al massimo di un lettore.

Se prendiamo una ciotola d’argilla piena d’acqua e la svuotiamo, la ciotola ora è vuota. Così sembra. Eppure la ciotola è piena d’aria. Eppure il vasaio, per impastare l’argilla, ha avuto bisogno di acqua. Eppure il vasaio, per cuocere l’argilla, ha dovuto usare il fuoco. E senza l’aria, il fuoco non avrebbe divampato e il vasaio non avrebbe respirato. E poi: il fuoco non sarebbe stato possibile senza legna. E poi: senza la pioggia, senza il sole, senza la terra, non sarebbero cresciuti gli alberi. Quella ciotola, allora, ai nostri occhi può essere vuota, ma è evidentemente piena: di acqua, di aria, di fuoco, di terra, per esempio. 

Lavorare con l’italiano letterario – usare la lingua dentro uno spazio letterario – significa proprio questo: guardare ciò che non si vede. Indossare lenti speciali che permettono di andare oltre l’apparenza, oltre la forma. Reinventare il mondo, ma non a tavolino. Abbattere le pareti del linguaggio. Andare incontro all’ignoto.

L’ignoto non è un fatto vago. È qualcosa di concreto. È lo spazio non previsto, non immaginato. È lo spazio dove non siamo mai stati, il tempo che non pensavamo di poter vivere. Tuffarsi, con le parole, in questo ignoto, significa creare un fatto nuovo: qualcosa di impensato.

In questo senso, lavorare con l’italiano letterario è un atto politico.

La letteratura è fatta di materia, di presente, di virgole, di spazi, di punti e a capo. Ma è viva solo se sa fare questo tuffo nell’ignoto. Così la politica. È fatta di emergenze – come quella molto drammatica di questi giorni -, è fatta di piccole decisioni della vita quotidiana, ed è fatta di presente: ma non è viva se non sa guardare ciò che non si vede. Andare incontro all’ignoto, creare un fatto nuovo, passare dall’arte del possibile all’arte dell’impossibile. Permettere, quindi, ai significati, di proliferare.

Posso scrivere: Maria spegne la luce. Oppure posso scrivere: la luce spegne Maria. 

Se deve esserci una frase giusta e una sbagliata, per la letteratura quella giusta è la seconda. La prima è una frase didascalica, narrativa. È tutto chiaro. La seconda genera infiniti significati. Come può una luce spegnere Maria? E che significa spegnere? È tale l’intensità del fascio di luce da accecarla? O solo da addormentarla? O da immalinconirla? E che tipo di luce è? Da dove arriva? E chi è questa Maria? Una bambina? Di che tempo? O è Maria di Nazareth? Che cosa è successo?

Nel 1980, il poeta Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente gli chiede: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?» Il poeta risponde: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così […]. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Questa definizione è sicuramente da estendere alla letteratura tutta, e non solo alla poesia. 

L’atto letterario – come l’atto politico – equivale al cammino di un pellegrino. Se ogni viaggio separa la partenza da un arrivo, rischiamo di considerare gli spazi intermedi come un tempo inutile, da dimenticare, o da vivere il più velocemente possibile.L’atto letterario – come, credo, quello politico – invece deve abbattere l’idea di percorso. Tutto ciò che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo non è più intermedio: è una transizione, una catena di momenti da vivere il più intensamente possibile. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta – ci sono percorsi lunghi, e non esistono scorciatoie. Bisogna viverli. Appunto: sentirli. In questo modo, tutto diventa reale. Lo spazio in cui viviamo è reale. Il tempo che viviamo è reale. 

L’evento di oggi – leggo – nasce allo scopo di “valorizzare la lingua italiana in una prospettiva legata allo sviluppo culturale del paese”.

Non ho gli strumenti o, come si dice, le ricette, per immaginare come sia possibile valorizzarla. Spero tuttavia che sia possibile, un giorno, quantomeno suggerire che la nostra lingua – la nostra “materna locutio”, quella che, scrisse Dante, “riceviamo senza alcuna regola imitando chi ci nutre” – possa essere valorizzata nella sua complessità, e non bistrattata, trattata solo come uno strumento. Che possa servire a perforare le nostre certezze, i nostri tic, i nostri dualismi. Che possa essere utile a chi scrive, a chi legge, a chi fa politica, a chi vive nelle nostre città e nei nostri paesi, a ricordarci che qualunque sia la nostra attività bisogna essere come specchi. Lo specchio non può fare niente per riflettere un’immagine: può soltanto mantenersi pulito. Che possa, infine, essere il veicolo che ci spinga, come i tre turisti giapponesi, a tuffarci nell’oceano – nell’“oscurità da eccesso”, nell’ignoto, nella vita, nel futuro – ma questa volta senza GPS. E così, nuotare verso nuovi significati che non conosciamo.

ARTICOLO n. 93 / 2024