ARTICOLO n. 38 / 2024

ERA PRIMAVERA

G ha deciso di buttarsi nella tromba delle scale in una mattina di aprile.

La festa era finita da poco, la droga anche. Spenta la musica, vuotati i bicchieri, gli ultimi ospiti erano usciti silenziosi dall’appartamento del sesto piano. Uno sciame composto e vestito di nero. Indossavano occhiali da sole e si muovevano in modo goffo, tutti quanti, cercando di non farsi notare troppo nella luce del giorno nascente.

I gesti bruschi e meccanici di chi ha mischiato cocaina e alcol fino a poco prima, le mascelle serrate e il respiro affannoso. Odore di sudore, ma nessuno di loro lo sente, le narici hanno smesso di funzionare da tempo.

Una volta arrivata all’incrocio, due palazzi più avanti, la bizzarra compagnia si è divisa senza salutarsi.

In quel momento – quando tutti se ne andavano, la droga non era ancora scesa ma fuori stava sorgendo il sole – vivere era terribile. E la paranoia diventava corrosiva.

Non dormirò mai, si ripetevano ogni giorno centinaia di persone sotto il cielo albeggiante di Milano, digrignando i denti come grosse cicale disperate.

Non dormirò mai, scandivano piano, cercando di prendere aria, di abbassare il ritmo del respiro.

La fine della notte era il momento peggiore per noi: per chi lavorava fino al mattino e s’infilava in un letto subaffittato da studenti fuori corso; per chi usciva dai locali in chiusura e doveva barcollare verso casa; per chi finiva la droga e strisciava verso la luce fingendosi sobrio sotto il peso degli sguardi altrui.

Sembrava un incubo, una processione di zombie, ma era la routine. E come succede con ogni routine, alla lunga nessuno la sentiva più come un peso: a Milano, in quegli anni, funzionava così tutte le sere. È questa la fregatura dell’abitudine: la puoi sviluppare con tutto, perfino con la noia.

Con l’arrivo del buio brulicavano per strada gruppi di persone vestite come delle rockstar, jeans attillatissimi, stivaletti chelsea anche in piena estate, camicie sbottonate fino a metà, chiodi in pelle o blazer dal taglio squadrato, cappelli a tesa larga o ciuffi indie, pezzi di corpo immacolati dai tatuaggi o tutti ricoperti di inchiostro come i rockabilly.

La città prendeva vita e un’intera generazione conquistava il suo spazio notturno: strette di mano che si passavano buste, i telefonini ancora con lo schermo piccolo e i tasti veri, e una rubrica fornitissima di numeri sempre disponibili. Gli angoli delle strade presidiati a qualsiasi ora, i bar pieni, la zona degli strip club con ragazze bellissime dai nomi inventati, i concerti negli scantinati di band famose in tutto il mondo, i club glamour dove il jet-set internazionale veniva a devastarsi.

Milano viveva una doppia esistenza: di giorno la città grigia degli uffici, la borsa, le fabbriche, il fatturato, di notte la metropoli piena di luci in cui perdersi era questione di un attimo.

Le feste duravano giorni, spingendo la notte più in là. Nessuno di noi voleva arrendersi: volevamo ribaltare il ritmo circadiano, fare del ritorno a casa una minaccia vaga e astratta, trasformare quell’attimo in cui saremmo stati nel letto mentre fuori c’era il sole in un pensiero distante e nulla di più.

Nessuno di noi voleva vedere il giorno perché di giorno non avevamo spazio; il mondo della notte invece ci aveva accolto con le sue braccia lunghissime, offrendoci tutto quello di cui avevamo bisogno: soldi facili, lavoro, anestetici per rendere meno dolorosa la caduta.

G ha deciso di buttarsi nella tromba delle scale in una mattina di aprile.

Mi fa strano iniziare questa storia proprio da G, eppure continua a tornarmi in sogno, come il fantasma di un Natale passato. Nella mia testa, dopo tutto quello che è successo, è diventato il simbolo della nostra generazione dispersa in quella città all’inizio del nuovo millennio.

G si è buttato nella tromba delle scale in una fottuta mattina d’aprile.

Ha preso la rincorsa e si è lanciato nello spazio tra le ringhiere e la colonna dell’ascensore, atterrando proprio di fianco alla portineria.

Un volo secco, improvviso, non premeditato, senza biglietti, regali, pensieri. 

Quando i vicini hanno provato ad avvisarci della sua morte noi dormivamo ancora. Il giorno, dopotutto, era il nostro momento di riposo.

Le ore successive alla notizia sono state febbricitanti.

Le giornate seguenti, fino al funerale, sono state sommesse e amare come se nessuno volesse parlare. Come se la colpa fosse di tutti. Come se il prossimo a volare dalle scale potesse essere chiunque tra noi.

Poi, semplicemente, abbiamo smesso di parlarne. Quasi non fosse mai successo.

Eppure ho pensato tantissimo a G, in questi anni.

Ho pensato più a lui che a chiunque altro di quel mio vecchio gruppo di amici e colleghi e conoscenti, che con me hanno diviso lo spazio di quella città e di quegli anni così veloci.

A lungo mi sono chiesta come mai G avesse scelto di buttarsi dalle scale dentro al palazzo e non all’esterno, nel giardino condominiale pieno di alberi e margherite, nel sole primaverile.

Poi, un giorno, quando ho pensato che la prossima a lanciarsi nella tromba delle scale sarei potuta essere io, ho capito. È la praticità a darti le risposte. Ho iniziato a covare quel pensiero intrusivo, e subito mi sono accorta di quanto siano i dettagli a fare la differenza. Perché Kassovitz nell’Odio ha detto una cazzata: il problema invece è proprio la caduta, non l’atterraggio.

Ed è davvero elementare.

Se durante la caduta ti accorgi che stai morendo, all’atterraggio mica ci vuoi più arrivare.

Ma se durante la caduta sei incosciente, l’atterraggio allora perde di valore. Se mentre precipiti ti spacchi il cranio sbattendo contro ogni ringhiera, dal sesto piano fino al primo, se nel frattempo perdi conoscenza e ti schizza il cervello sulle porte dei vicini, tu dell’atterraggio non ti accorgi neanche.

G è arrivato al suolo con due sicurezze: che dal volo non sarebbe uscito vivo, ma che almeno non avrebbe sentito il colpo finale. Perché forse era proprio quello il problema: l’impatto.

E mi ha fatto sorridere e rabbrividire vedere finalmente quanto l’ultimo volo di G nella tromba delle scale in quella maledetta mattina di aprile riassuma chi siamo stati noi in quegli anni a Milano.

Era primavera, stavamo cadendo e lo sapevamo perfettamente.

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Il racconto è un estratto da Animali notturni (Einaudi), il primo romanzo di Carlotta Vagnoli da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

ARTICOLO n. 93 / 2024