ARTICOLO n. 83 / 2023
ELLIS, L’ULTIMO SCRITTORE POST-PUNK IN UN MONDO DI DEMOCRISTIANI
Il 17 gennaio scorso mi sono svegliata e, come prima cosa, ancora distesa nel mio letto, ho afferrato il telefono e ho ordinato il libro che aspettavo da tredici anni: The Shards, di Bret Easton Ellis.
Ho atteso questo romanzo per più di una decade, con l’ansia di chi ha una vera e propria ossessione per qualcosa o qualcuno, e mi sono subito lanciata nella lettura dell’opera in lingua originale.
Ho dovuto mordermi la lingua per mesi perché molte persone intorno a me attendevano la sua traduzione in italiano e non volevano spoiler sulla trama e sulla riuscita o meno di questo attesissimo romanzo. L’attesa è finalmente giunta al termine e io posso quindi svuotare il sacco.
Uscito la settimana scorsa in Italia per Einaudi (che ha acquisito i diritti su tutta la sua produzione precedente) con il titolo Le schegge e nella traduzione di Giuseppe Culicchia (che ha magistralmente tradotto tutto Ellis a partire da American Psycho: i due libri precedenti ovvero Meno di zero e Le regole dell’attrazione sono stati tradotti, in ordine, da Marisa Caramella e Francesco Durante), il libro è stato annunciato dalla casa editrice con un mini-tour italiano che toccherà Firenze e Torino.
Come è ormai prassi, Einaudi ha affidato la promozione sui giornali e nelle presentazioni con l’autore a un parterre di scrittori tuttiuominisullasessantina: prassi di una rassicurante democristianità, forse troppa, decisamente troppa per accompagnare quello che è forse l’autore più elegantemente post-minimalista, irriverente e scorretto della nostra contemporaneità.
Ma le cose qui da noi vanno così: giochiamo sul sicuro anche con chi, sul sicuro, non ha mai amato sostare. Ed Ellis questo ce lo ha sempre dimostrato, in tutta la sua produzione letteraria.
Dopo un’attesa lunghissima intervallata dal saggio Bianco, che sembrava quasi opera di uno dei suoi personaggi più caricaturali, Ellis è tornato alla narrativa con un lungo libro sull’adolescenza senza però essere a tutti gli effetti un romanzo di formazione in senso stretto. Anzi, forse ne è tutto il contrario.
Le schegge è il racconto fittizio del giovane Bret (Easton Ellis) nella Los Angeles del 1981 durante l’ultimo anno del liceo privato Buckley.
È una sorta di mockumentary: una – in parte – falsa documentazione della sua vita, così come lo era stato Lunar Park nel 2005, e una storia in salsa horror tenute insieme da un elemento di tensione narrativa che qui ha un nome e un cognome ben precisi, ovvero il misterioso personaggio di Robert Mallory.
Intorno alle vite dei giovanissimi protagonisti, narrati da Bret in prima persona e al tempo passato – Ellis nel prologo e nella conclusione ci racconta in una cornice come abbia impiegato più di vent’anni a trovare il coraggio e la serenità giusta per scrivere questa storia – si svolge una carneficina a opera di un serial killer più brutale e sadico perfino di Patrick Bateman: The Trawler, in italiano riportato come “il pescatore a strascico”.
Dopo questa scia di omicidi e questo ultimo anno di liceo, le vite dei personaggi, e quella di Bret in primis, non saranno più le stesse.
Sarebbe stupido quanto democristiano – e qui vi posso assicurare che non lo siamo – pensare a questo come a un romanzo di formazione o un romanzo della maturità emotiva dell’autore.
Ellis infatti qui non ci vuole infatti insegnare niente. Però ci regala una cosa preziosissima: un prequel.
In filmografia, il prequel indica una pellicola che, nonostante sia fatta uscire per ultima in ordine cronologico rispetto alle precedenti, affronta gli antefatti di quella che sarà poi tutta la produzione successiva del suo ciclo.
E Le schegge fa proprio questo: mette in ordine la storia della storia letteraria di Bret Easton Ellis.
Lo si capisce subito dallo sguardo dell’autore che, per la prima volta, è affezionato ai personaggi, prova affetto e pena per loro, ha uno sguardo di parte, fraterno, umano. E ne racconta le emozioni, ancora pure, ancora vive, ancora piene di speranza seppur già permeate dalla patina di quella che è la vera protagonista della produzione di Ellis: la noia, ovvero la sensazione più violenta che possa esistere.
Ellis ne Le schegge ci descrive un mondo precedente alla perdita delle illusioni, un mondo ancora non del tutto corrotto dalle promesse non mantenute, la noia della ripetitività, della assenza di regole, della droga.
Non siamo davanti al freddo distacco di Clay, Blair, Julian e i ragazzi di Meno di zero; non siamo davanti alla morbosa ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa possa darci una scossa, come i protagonisti de Le regole dell’attrazione; non davanti al delirio organizzato di American Psycho, ma neanche a quello disorganizzato di Glamorama; non siamo spettatori della disperata disillusione di Lunar Park e neanche del passivo rancore di Imperial Bedrooms.
Qui siamo davanti al paziente zero.
Siamo davanti a Bret che diventa Ellis e ci spiega come tutto abbia avuto inizio, come la sua penna, la sua storia, il suo essere scrittore e personaggio insieme, autore e distruttore, vizio e virtù, bugia e verità, aspettativa e distruzione abbiano preso vita, si siano mischiate insieme e, fino all’uscita di questo libro, non si siano mai più dipanate.
Le schegge ci mostra come lo stile tagliente, lucido anche quando descrive le cose più brutali e deliranti del mondo (vedasi il capitolo “uccido un bambino allo zoo” di American Psycho, non a caso escluso da quello che poi fu il suo adattamento cinematografico), disilluso, spavaldo, tossico, abbia preso forma.
E lo fa mettendo in piedi una struttura narrativa complessissima, in cui il giovane Bret del romanzo sta giusto iniziando a scrivere quella che poi sarà la prima bozza di Meno di zero.
Lo fa rendendoci partecipi di uno spaccato che fino a oggi era inedito: i veri sentimenti dei suoi personaggi. Bret sa provare amore, paura, rabbia, insoddisfazione, gelosia, tristezza. La noia, che divorerà ogni cellula di ogni personaggio del resto di tutta la produzione di Ellis, non è ancora entrata in scena.
Robert Mallory, che insieme al Pescatore simboleggia la fine dei sogni d’infanzia, cancellerà per sempre quello che Bret avrebbe potuto essere, quello che avremmo potuto leggere.
Ellis ci presenta il bivio della sua vita e lo fa nel modo che meglio conosce: con una storia di sangue e disillusione, con una storia che mette fine a un cerchio iniziato con Meno di zero nel 1985.
Lo fa inserendosi tra le pagine in modo soffuso, mai intrusivo, lasciando intendere quanto i suoi libri abbiano scritto la sua vita e viceversa: lo fa dandoci piccole confessioni in alcuni passaggi di quello che sembra quasi un memoir, in cui si lascia andare senza senso di colpa o vergogna a racconti sulla sua dipendenza da sostanze, il panico, la fama, la noia, la disperazione, la ricostruzione e la difficoltà del tornare in pista dopo che tutti ti pensano ancora una mina vagante.
Ellis ha raccontato come nessun altro la caduta di due generazioni e l’infrangersi dei sogni davanti al muro, violentissimo, della noia e della realtà.
Con questo libro davvero prezioso mette un punto su quella che a mio avviso è stata la storia letteraria più incredibile degli ultimi 35 anni.
E lo fa tornando alle origini, a quando tutto era più puro, a quando ha trovato l’attacco per quel Meno di zero che gli avrebbe cambiato la vita e lo avrebbe fatto sparire lì.
Le schegge è l’opera di cuore di Ellis che arriva alla fine di un ciclo durato tre decenni; è l’opera intima seppur fittizia dell’autore che davanti a noi ha provato a mutare forma ma non glielo abbiamo mai permesso del tutto. E allora muta da solo, di nuovo, grazie alla sua brillante letteratura. Il libro si apre con una dedica “per nessuno”, non a caso.
Dopo la lettura appassionata de Le schegge io rimango con un dubbio e una certezza.
Il primo è che questo libro possa essere la grande opera finale del miglior interprete post-punk nella letteratura contemporanea o che possa essere il nuovo, frizzante inizio di un filone ancora sconosciuto.
La certezza che invece ho è che Ellis democristiano non ci morirà mai.
Per nostra grande, immensa fortuna.