ARTICOLO n. 82 / 2022

GLI EFFETTI DELLA MEDITAZIONE

Descrivere un proprio stato interiore richiede capacità letterarie fuor dal comune – che sia il deflagrare di un innamoramento, l’ascesa del prurito dopo una puntura, l’appiccicore che decanta sul viso quando è sudato; trovare le parole per riferire sensazioni la cui natura è ondivaga non è affatto facile. Lo sapeva Marcel Proust, maestro in questa difficile arte, quando scrisse che «quel che noi crediamo il nostro amore, la nostra gelosia, non è la medesima passione continua, indivisibile. Essi sono composti di un’infinità d’amori successivi, di gelosie diverse ed effimere, che tuttavia per la loro moltitudine ininterrotta danno l’impressione della continuità, l’illusione dell’unità». Se narrare la più semplice delle esperienze quotidiane è complesso, non stupisce l’imbarazzo di mistici e mistiche di qualunque epoca e tradizione nel comunicare l’ineffabile natura della propria esperienza, che travalica a tal punto il linguaggio da rendere inadeguato anche il silenzio. Ecco come “fallisce” una delle autrici del Novecento la cui prosa forse si avvicina di più a esprimere il mistero, Clarice Lispetor:

Dovrò forzarmi a tradurre segnali telegrafici – tradurre l’ignoto in una lingua che ignoro, e senza neppure capire a cosa corrispondono i segnali. Parlerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio. […] Io mi domando: se osserverò l’oscurità alla lente, cosa potrò vedere più dell’oscurità? La lente non dissipa le tenebre, non fa che rivelarle maggiormente. E se osserverò la chiarità alla lente, potrò appena in una lacerazione vedere la chiarità più intensa. Ho intravisto, eppure sono cieca come prima poiché ho intravisto un triangolo incomprensibile. A meno che pure io non mi trasformi nel triangolo che riconoscerà nell’incomprensibile triangolo la mia stessa fonte e il mio doppio.

Analizzare e descrivere gli effetti della meditazione è un compito difficile, ma questo non significa che non siano stati fatti moltissimi tentativi nel corso dei millenni. Tra le più celebri tassonomie dell’Occidente mi viene in mente il Il castello interiore di Santa Teresa d’Avila, che divide in sette fasi (dimore) l’ascesa dell’anima verso Dio, o le tre vie di Giovanni della Croce (purgativa, illuminativa e unitiva), passaggi indispensabili per chiunque voglia giungere al divino. Anche Bonaventura enumera alcuni gradini del percorso spirituale, per la precisione sei, e li chiama potenze: il senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, l’apex mentis o scintilla della sinderesi. È però a Oriente che sono state intrecciate le mappe più intricate, soprattutto nella tradizione Buddhista, con i suoi quattro jhana, degli stadi della meditazione cui poi seguono altri quattro, e che tutti assieme fanno parte dell’ottava fase dell’ottuplice sentiero, un percorso etico, pratico e spirituale per ottenere la liberazione – ho molto semplificato, ma basta per capire che ai buddisti le classificazioni piacciono moltissimo. Va inoltre ricordato che questi stadi non sono mai esperiti in ordine lineare né sono da intendere come mete, che nella meditazione non si raggiungono ma si perdono. E che, come ho scritto altrove, di meditazioni ne esistono moltissime, ognuna con le sue peculiari caratteristiche e fasi, che a loro volta interagiscono con l’ampia varietà delle costituzioni individuali, anch’esse in preda a oscillazioni quotidiane, o, per essere più esatti, in ogni istante percepibile.

Per omaggiare questa passione tassonomica che attraversa i millenni propongo una lista anch’io, non tanto per dividere gli stadi della meditazione quanto per ordinare i suoi effetti. Li raggruppo dunque in effetti psicologici, ovvero quelli che influenzano il comportamento a medio e lungo termine, così come lo stato soggettivo di chi medita durante e dopo la pratica; neurologici, ovvero quegli stati fisici misurabili che sottostanno agli effetti psicologici; esistenziali, che non voglio ridurre a quelli psicologici, perché sebbene si tratti anche qui di comportamenti e stati mentali, afferiscono a una visione globale dell’esistenza, che fa da sfondo, illumina o adombra qualunque esperienza. Potrei chiamarli “spirituali”, ma questa espressione si è usurata negli anni ed evoca – spesso ingiustamente – atmosfere New Age ingenue e non di rado antiscientifiche.

Iniziamo dunque dagli effetti psicologici; la prima difficoltà che incontriamo alla loro ricerca è piuttosto ovvia: a quale meditazione riferirsi? E a che tipo di praticanti, esperti, principianti, o ambedue? Nonostante varie convergenze, infatti, è facile immaginare che i risultati mutino in base all’esperienza, al metodo utilizzato e alla cornice culturale di riferimento, al punto da rendere poco attendibili le generalizzazioni – i limiti della philosophia perennis diventano più evidenti non appena ci proponiamo uno studio scientifico. Da un punto di vista quantitativo, la maggior parte delle ricerche ruota attorno alla mindfulness e alla meditazione buddista, di cui la prima è una derivazione (e semplificazione) ed è dunque più difficile esprimersi in merito ad altre forme di meditazione, come quella cristiana, che è molto meno studiata. Ciononostante, nelle ricerche psicologiche è possibile individuare delle invarianti che ci permettono di azzardare una lista di possibili vantaggi di questa prassi, che trovano spesso un riscontro letterario nei minuziosi resoconti di mistici e mistiche di varie epoche e tradizioni. Tra i benefici riscontriamo dunque una riduzione dei sintomi depressivi; un miglioramento dell’umore generale; una maggiore resilienza allo stress; un potenziamento dell’attenzione e della concentrazione; una certa efficacia nel trattamento delle dipendenze; una migliorata gestione dell’ansia; un effetto analgesico rispetto a dolori temporanei o cronici.

È facile capire perché risultati simili siano ben pubblicizzati dai gruppi che si occupano di meditazione, ma questa prassi presenta anche dei rischi, soprattutto se non si ha una buona guida o se si approccia in maniera non graduale. Si tratta di effetti meno discussi nella letteratura divulgativa e scientifica, ma non sono sconosciuti in quella mistica, dove si parla spesso della necessità di attraversare una “notte oscura” dell’anima, come la chiama Giovanni della Croce, una fase purgativa che per essere superata richiede un feroce ribaltamento psicologico, in cui perdere quel che amiamo non è più fonte di dolore ma di sollievo, tanto da accogliere con gioia anche il dileguarsi dell’io. In Il pensiero tibetano (Giunti) Dejanira Bada scrive: 

C’è da dire, però, che la meditazione non è per tutti. Può rivelarsi controproducente in alcuni casi – quelli di individui affetti da schizofrenia o disturbo borderline di personalità – e pericolosa in altri – quelli di individui con tendenze suicide. Perché meditare significa scavare a fondo nell’inconscio, e se questo nasconde traumi irrisolti il rischio è di farsi travolgere in modo irreparabile, entrando in un vortice da cui è difficile uscire. Anche alcuni soggetti senza disturbi psichiatrici che abbiano osservato lunghi periodi di meditazione – che abbiano, per esempio, partecipato ai ritiri vipaśyanā di tre mesi – hanno subito in più occasioni fenomeni di dissociazione, depersonalizzazione e psicosi. Alcuni sono stati addirittura ricoverati in ospedale a causa della gravità dei danni.

Per godere dei pregi di una prassi bisogna conoscerne i rischi e sebbene la meditazione offra notevoli benefici psicologici, non si deve ignorare i pericoli né proporla come una panacea. Dal punto di vista personale ho avuto finora la fortuna di godere di ognuno dei benefici che ho elencato senza sostanziali effetti collaterali – ma forse avevo già vissuto la mia notte oscura, o è lì che mi attende.

Chi volesse approfondire questi (e altri) temi comunque si troverà davanti a una bibliografia sterminata, ma per iniziare consiglierei l’ottimo lavoro di Franco Fabbro, o la buona sintesi di The Cambridge Handbook of Consciousness a cura di Philip David Zelazo, Morris Moscovitch e Evan Thompson, purtroppo solo in inglese. Sarà proprio un testo di Fabbro, La meditazione mindfulness (il Mulino) a introdurre il tema degli effetti fisici e neurologici. Per quanto sia evidente che stati cerebrali e stati mentali siano fortemente correlati, la relazione tra i due domini non è chiara – è anzi uno dei più grandi enigmi della filosofia – e può essere utile monitorare cosa accade durante la pratica meditativa anche da un punto di vista fisico. Fabbro scrive che i primi studi di neuroscienze della meditazione sono di

un fisiologo giapponese, Tomio Hirai (1927-1993), su un gruppo di monaci zen con una lunga esperienza meditativa. Lo studio ha evidenziato che i monaci erano in grado di entrare velocemente, nel giro di alcune decine di secondi, in un profondo stato meditativo caratterizzato da onde alfa (8-12 Hz) e onde theta (6-7 Hz), tipiche delle prime fasi del sonno. Tuttavia, anche se i monaci sembravano essere in uno stato neurofisiologico simile al sonno, essi erano attenti agli stimoli del mondo sia interno che esterno. Inoltre, durante la meditazione i monaci presentavano una riduzione del ritmo respiratorio (4-5 respiri al minuto) e un lieve aumento della frequenza cardiaca (circa 80 battiti al minuto). Ciò significava che la meditazione Zazen era in grado di equilibrare le componenti simpatiche e parasimpatiche del sistema nervoso autonomo (ctr. cap. quinto, par. 1.1) [Hirai 1980]. Successivamente sono state compiute numerose ricerche sulle modificazioni EEG indotte dalla meditazione. Questi studi hanno valutato sia le modificazioni dell’attività cerebrale durante gli stati meditativi sia i cambiamenti nei tratti della personalità, come ad esempio il livello di consapevolezza, l’equilibrio emozionale, la sensazione di benessere interiore, ecc. L’insieme di questi studi indica che la meditazione è correlata con un aumento della potenza nelle bande di frequenza alfa e theta ed è in grado di influenzare sia gli stati sia i tratti della personalità [Cahn e Polich 2006; Lomas, Ivtzan e Fu 2015].

Anche lo stesso Fabbro ha condotto degli studi con l’Università di Udine, riscontrando l’attivazione di alcune strutture cerebrali durante e dopo il training meditativo. Nello specifico, si tratta della corteccia prefrontale laterale destra, correlata con l’attenzione volontaria; il corpo caudato di sinistra, collegato con l’orientamento dell’attenzione e la regolazione cognitivo-motoria; l’insula anteriore, correlata con l’autocoscienza. Le strutture che si disattivavano invece erano la corteccia rostrale prefrontale, un nodo del default mode network, e l’area somatosensoriale primaria, collegata con la sensibilità sensoriale discriminativa. Alla luce di quel che sappiamo di neuroscienze, questi risultati sembrano essere in linea con le conseguenze psicologiche di cui si parlava in precedenza. Ma gli effetti fisici non si limitano al cervello; ci sono studi che suggeriscono che praticare la meditazione abbassa la pressione sanguigna (diminuendo così il rischio di ictus o infarto), migliora le difese immunitarie, diminuisce i disturbi infiammatori, aumenta l’attività dell’enzima telomerasi, indispensabile alla buona tenuta cellulare. Insomma, pur tenendo presente che si tratta di una prassi che presenta dei rischi, tutto sembra suggerire che sia psicologicamente e fisicamente salutare. Se poi ci si allontana dalla scienza e ascoltiamo la voce delle antiche tradizioni, la lista dei benefici fisici aumenta vertiginosamente. La tradizione induista, ad esempio, elenca numerosi poteri (siddhi) che si acquisiscono grazie alla meditazione; Patanjali, il celebre autore dello Yoga Sutra (5-600 d.C. circa) parla della capacità di ridurre il proprio corpo alle dimensioni di un atomo o di estenderlo fino a dimensioni infinite, del potere di diventare senza peso o pesantissimo, di arrivare in qualsiasi luogo, di convincere chiunque, di controllare gli elementi, eccetera. Nonostante l’abbondante aneddotica non esiste uno studio scientifico delle siddhi e anche dal punto di vista personale devo confessare che non ho avuto accesso a nessuno di questi poteri – ma d’altra parte sono poco più di un neofita. Siddhi e superpoteri sono però un perfetto ingresso per l’ultima categoria degli effetti della meditazione, quelli esistenziali. Un avviso ricorrente anche nello stesso Patanjali è quanto sia pericoloso sviluppare un attaccamento ai poteri concessi dalla meditazione – che siano psicologici, fisici o magici – pena l’abbandono della strada della mistica per quella più terrena della magia. Nell’importante differenza tra esaudire i desideri e abbandonarli giace il discrimine tra un mago e un mistico: il primo è il potenziamento di un essere umano ed è dunque ancor più in difetto, perché la sua forza apparente lo assoggetta maggiormente alla schiavitù del desiderio e alla prigionia della personalità, mentre il secondo ha oltrepassato i dolorosi vincoli dell’umano ed è libero dall’essere e dal non essere. Nella sua autobiografia, il santo tibetano Milarepa (1051 – 1135) racconta di aver imparato la magia nera per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia, ma che una volta realizzata l’entità del dolore inflitto ai suoi aguzzini e ai loro cari, si pentì della scelta e, per ripulire il proprio karma, abbracciò la vita mistica. Ed ecco dunque il primo degli effetti esistenziali, antinomico come si conviene a questo argomento: rinunciare all’attaccamento e a tutti i risultati della meditazione. Ho già detto che degli effetti esistenziali non si può parlare, perché giacciono al di là di ciò che è esprimibile col linguaggio – un paradosso che si ritrova in tutti i testi lasciatici da mistici e mistiche di ogni tradizione, che scrivono quanto e più di me. È evidente che stiamo entrando in una sfera che, per quanto includa completamente la realtà che esperiamo, la trascende infinitamente, ma nel tentativo di definire gli effetti esistenziali direi che implicano spesso l’acquisizione di una visione rinnovata dell’esistenza (o la perdita di qualunque visione), un evento irriducibile che ha importanti ricadute comportamentali e psicologiche anche nella realtà condivisa. È la famosa “esperienza mistica” che William James ha introdotto nel contesto scientifico col suo celebre Le varie forme dell’esperienza religiosa; un fenomeno talvolta liminale con la follia – basti pensare agli “stolti in Cristo” o a certi tantristi – in quanto rivoluziona lo sguardo abituale e condiviso sull’esistenza. Comunicare un’esperienza mistica è impossibile, vi si può solo alludere, ciononostante è un evento psicologico di estrema intensità che presenta tratti in comune in contesti anche molto diversi, come testimoniano le somiglianze di molti resoconti di mistiche e psiconauti di epoche e luoghi lontani tra loro. È il ritorno al mondo che segna una differenza più marcata; se spesso si trovano relativamente poche differenze tra la descrizione di un’esperienza mistica di una scienziata contemporanea che assume LSD rispetto a quelle di un monaco medievale del Tibet o di un esicasta cristiano, il modo in cui questo vissuto viene interpretato all’interno del contesto culturale e personale cambia notevolmente. È difficile dire se a mutare sia l’esperienza stessa, la sua lettura o come venga assimilata nella vita quotidiana; si tratta di un evento quasi sempre trasformativo, ma la direzione in cui porta dipende forse più dal contesto socioculturale e individuale che dall’evento in sé – cosa che in effetti vale per molte esperienze.

Ad ascoltare sante, mistici e buddha le ricadute esistenziali sono le più importanti, tanto che potremmo definire gli altri meri effetti collaterali. La loro radicalità risiede nel muovere chi medita in un altrove profondo, forse seguendo un imperativo analogo a quello del celebre verso di Rilke che tanto colpì il filosofo Peter Sloterdijk: «Devi cambiare la tua vita». E la meditazione spesso la cambia.

ARTICOLO n. 93 / 2024