ARTICOLO n. 5 / 2021

Dopo Sanremo: meditazioni sul silenzio

Veronica Lucchesi & Dario Mangiaracina

Il silenzio, da solo, è tutto silenzio. Il silenzio, se ci sono io ad ascoltarlo, diventa significato. C’è bisogno di uno spettatore, di qualcuno che proclami di fronte a quella quiete: «Madonna che silenzio c’è stasera!».

Non basta un polo elettrico a suscitare una scintilla, ce ne vogliono due. Peter Brook ci ha insegnato che la tensione tra chi è in scena e chi sta in platea è come una corda di violino. Solo la giusta tensione fa sì che la corda possa risuonare. Da soli non c’è incontro, non c’è vita, non c’è lotta, non c’è genesi, non c’è speculazione, non c’è arte.

Sembriamo nati per questo ruolo, siamo interpreti e spettatori. Abbiamo imparato parole e suoni per esprimerci e raccontare a chi c’è dopo di noi o a chi non sa ancora vedere, il senso che diamo alla natura delle cose.

In teatro ci hanno insegnato ad andare in scena anche quando c’era un solo spettatore in sala, due occhi, due orecchie, un corpo.

Il teatro si realizza ogni qual volta ci sia una relazione tra almeno uno che agisce dal vivo in uno spazio scenico e uno spettatore che dal vivo ne segue le azioni. La parola singola “agisce” solo quando ne incontra una seconda che la provoca, diceva Rodari, costringendola a uscire dai binari dell’abitudine, a scoprirsi nuove capacità di significare. Ma allora, se diamo per assodato che quando performiamo davanti a una telecamera uno spettatore è tale anche dall’altra parte di uno schermo, cosa cambia anche se la platea è vuota?

Cambia tutto. Manca il rito, il silenzio, la terza fila che ti dice di fare silenzio se ti distrai, mancano gli sbadigli, i colpi di tosse, le celebri caramelle alla menta contro la tosse scartate nei momenti salienti del monologo, manca l’attenzione che accompagna il ritmo, manca il ritmo, l’attesa trepidante di coloro che saranno con te parte integrante dello spettacolo. Perché sì, il pubblico è parte dello show.

All’Ariston i fonici hanno dovuto ripensare completamente l’acustica del teatro per sopperire alla mancanza di pubblico. Credo che abbiano aggiunto teli e pannelli in platea. Farà ridere, ma il pubblico è anche il miglior materiale fonoassorbente che un teatro possa avere.

Il teatro è un’esperienza di vita. Vedere dal vivo un’opera ti cambia la vita. Sentire gli attori, le attrici, le musiciste, i musicisti vibrare, sudare, ti fa tremare le ginocchia. La potenza degli strumenti che risuona nella tua cassa toracica è musica da toccare, sono corpi da odorare, se sei in prima fila, è carne viva che ti parla.

Come un atto sacrificale, chi è sul palco si dona, in pasto. I dettagli dal vivo sono fatti per essere sviscerati, sono sangue caldo.

Mi raccontarono una volta che De Filippo, durante una replica, rispose così a uno spettatore che dal loggione urlò di alzare la voce: «Non si permetta! Quello che sto dicendo è qualcosa di intimo che deve rimanere tra me e mia moglie».

Nel rito dello spettacolo dal vivo c’è un momento per tutto. C’è il “dopo-spettacolo” che non ha nulla a che vedere con i commenti live mentre stai cantando in diretta streaming. Durante il lockdown, gli spettacoli in streaming, senza la ritualità codificata nei millenni dal teatro, ci restituivano la solitudine e l’alienazione stessa della quarantena, senza riuscire a sublimare il dolore di quei giorni, la crisi, nel più catartico degli ingegni umani, la messa in scena.

Ma dal vivo, c’è un focus su quello che stiamo vivendo insieme che non distrae, a meno che quello che senti e vedi non ti piaccia e allora ti alzi e te ne vai e anche questa azione non passa inosservata. E invece sui social entri ed esci a tuo piacimento. Lo spettatore è invisibile, è un numero on line, che interviene solo attraverso reazioni codificate, reactions che non sono altro che il surrogato delle emozioni che potremmo provare. Nel mondo dello spettacolo dal vivo, se te ne vai è un fatto. La gente si volta a guardarti, si fa delle domande, l’attore e l’attrice lo sanno, la regista lo vede, tutti capiamo qualcosa. In una stanza virtuale la porta che sbatte non fa rumore.

Poi c’è l’applauso. Lo scoppio finale. Il pubblico diventa un corpo solo come direbbe Canetti. Partecipa attivamente al rito. Durante una delle più celebri esecuzioni della Callas di Una voce poco fa, uno spettatore applaudì e gridò di gioia prima della fine dell’aria, e il pubblico lo ammonì per aver rotto quella magia. Le regole del loggione sono ferree. Si respira insieme, si capisce quando tacere, si cambia idea, si applaude insieme oppure si sta in silenzio rispettoso. Si incrociano le braccia per dissenso. Ci si alza in piedi come massima espressione di plauso, se le mani non bastano più.

C’è un attimo da vivere ancora quando la scena va al buio. A volte passano secondi prima che il pubblico capisca che lo spettacolo è finito. Quel tempo è il pensiero. Quegli attimi sono teatro nudo, sono musica.

I nostri maestri di teatro Civilleri/Lo Sicco erano affascinati e allo stesso tempo terrorizzati da quei momenti di silenzio. Hanno studiato il silenzio in teatro fino a cercare di cancellarlo inserendo dei bordoni invisibili all’orecchio che accompagnano tutta la pièce.

Dentro il rito c’è dell’altro. Si esce fuori dal luogo deputato allo spettacolo. E lì come il vento che sparge i semi di un soffione, lo spettacolo si sparge per le strade. C’è il dopo-concerto, il dopo-cinema, il dopo-teatro, il momento di incontro tra spettatori, che dibattono su quello appena visto, con forza, carichi della necessità di un confronto. Ci sono le attrici e gli attori, musicisti e musiciste da incontrare in carne ed ossa. Non ci si nasconde e ci si mette la faccia e si risponde a tono oppure si cambia idea.

È vecchio tutto questo? È già morto? Stiamo piangendo un defunto? Gli dei del teatro sono su tutte le furie. Le maschere adesso si occupano di beauty, e non vediamo altro che maschere di bellezza, i costumi li tiriamo fuori solo a carnevale, il corpo di ballo, l’abbiamo lanciato su Tik Tok, la dizione e il birignao ci hanno detto ciao, Dario Fo, a chi lo do? Carmelo Bene, benino, De Filippo, a casa Cupiello, Romeo… Castellucci di sabbia in spiaggia, Motus? Fermus. Emma Dante? in Via Castellana Bandiera, in barba a Eugenio Barba, Kantor, Grotowsky e Peter Brook li leggiamo sugli e-book.

Perché lo facciamo? Per uscire di casa, per mettere il naso fuori dalla nostra comfort zone, per metterci in discussione, per condividere un’idea, un punto di vista sulla vita e la società. Si riceve consenso o dissenso. Si cresce, si cambia punto di vista, ci si incontra, ci si innamora ai concerti. Sì, ai concerti ci si innamora e noi ne abbiamo le prove.

Si fa l’amore nei bagni del locale, ti vedo ballare e sei bellissimo, mi vedi piangere e ho voglia di farlo anche io, possiamo ridere insieme, scambiarci opinioni sulla vita. Ti posso toccare, sfiorare per sbaglio, cercarti in mezzo alla folla, perdermi, trovarmi, volare.

Dal vivo posso vedere rappresentato un mondo che mi appartiene o di cui voglio fare parte. Posso abitare un’utopia, stare dentro al mio sogno. Trovare una comunità.

Spesso ci siamo chiesti quanto gli artisti contribuiscano a formalizzare dubbi e punti di domanda drammatici nella vita della gente. Tantissime volte ci siamo soffermati a pensare quanto, con i nostri versi insinuanti nei confronti delle relazioni, della vita, degli altri, abbiamo potuto creare crisi difficili da superare. Scrivere, come abbiamo detto più volte, significa fornire a chi ti ascolta un vocabolario più o meno complesso di emozioni, significa costringere chi ti ascolta a ripercorrere il percorso interiore che hai fatto quando hai scritto quei versi. L’arte è maledizione, il teatro ti rovina, la musica ti consuma e noi non metteremo mai, né limiti né filtri, a questa carneficina.

Ma c’è un luogo dove questa scanna (per dirla con le parole di un drammaturgo Palermitano, Davide Enia) avviene in un setting protetto e regolamentato, c’è un solo spazio dove il respiro di una collettività, la violenza di chi è contrario, si esprimono nel rispetto come massima espressione della nostra umanità: quel luogo è il teatro (e tutti i luoghi dove l’arte avviene). Ed è per questo che non possiamo rinunciare alle platee e ai parterre, perché i corpi e la voci vive di chi si incontra in quei luoghi sono un’architettura fondamentale per costruire una società libera, critica, solidale e consapevole.

ARTICOLO n. 93 / 2024