ARTICOLO n. 74 / 2021

DONNE CHE CORINNE IN REALTÀ NON CONOSCE

Traduzione di Camilla Pieretti

La professoressa di archeologia

Nella cittadina del Sud in cui Corinne ha affittato un appartamento per l’estate, ha trovato anche un centro yoga. È un po’ più vecchio stile rispetto a quello in cui va di solito a Boston. Là le donne sono levigate e depilate al laser, i leggings aderenti e le posizioni impegnative. In questo posto, situato sopra un centro di assistenza tecnica, tutti indossano pantaloni larghi e magliette sformate. Pagano lasciando contanti o un assegno bancario in un cesto e segnando la propria presenza a penna su un taccuino. Sbuffano quando si piegano. Corinne srotola sempre il suo materassino nell’angolo in fondo, cercando di tenersi in disparte.

La professoressa di archeologia è l’unica altra donna con dei veri pantaloni da yoga. Una che riesce a portarsi la gamba all’orecchio. Ha una lunga chioma di ricci rossi. Ascoltandola di nascosto, Corinne ha scoperto che insegna all’università e che il marito è professore di chimica nello stesso ateneo, ma che stanno divorziando.

Corinne ha molte domande. Se l’insegnamento di ruolo e il mercato del lavoro faranno sì che la donna e il suo ex continuino a vivere nella stessa minuscola cittadina per tutto il resto delle loro vite. Se, quando ricominceranno ad avere una vita sentimentale, finiranno inevitabilmente per uscire con qualcuno che l’altro conosce. C’è un solo ristorante elegante in zona, e Corinne già si immagina la scena: la professoressa che aspetta il suo accompagnatore all’ingresso mentre l’ex è lì a cena con un’altra donna, proteso verso la candela al centro del tavolo, la forchetta negli spaghetti di lei.

Corinne sa ben poco della professoressa, le ci è voluto un po’ anche solo per afferrarne il nome, ma può figurarsene alla perfezione la vita: un appartamento pieno di libri, qualche bicchiere di vino con l’amica titolare della cattedra di studi sulle donne, un gatto, un viaggio didattico ogni due anni, in Israele o in Grecia. Non riesce a fantasticare allo stesso modo sulle donne a Boston, che si truccano prima di fare yoga, né sulle altre donne qui, con i loro vestiti macchiati di erba tagliata (riconosce che, in entrambi i casi, il suo è puro snobismo). Qualcosa, nella professoressa di archeologia, ha catturato la sua attenzione, qualcosa che la spinge a cercarla con gli occhi a ogni lezione, a seguirla con lo sguardo mentre si allontana nella sua Subaru.

È origliandone le chiacchiere che Corinne scopre dell’ultimo scandalo locale: il portiere della squadra universitaria, la liceale in visita di cui ha abusato, l’improvviso interesse nazionale. Sempre origliando, scopre anche che le iscrizioni all’ateneo sono calate, che il nuovo rettore non gode di grande popolarità e che qualcuno ha imbrattato con scritte razziste la lavanderia di un dormitorio, anche se è probabile che sia stata opera di uno del luogo. Gli altri, a yoga, sembrano usare la professoressa come linea diretta per qualunque notizia riguardante l’università. In particolare, chiedono della violenza commessa dal portiere.

Corinne la sente dire: «Almeno la ragazza lo ha denunciato, e subito. Spesso non si fanno neppure avanti».

La vede al negozio di alimentari, in biblioteca, ma l’altra non dà segno di averla riconosciuta. Corinne si domanda se non abbia una cotta per lei, ma no: l’ha semplicemente notata e, in un’estate priva di altre forme di intrattenimento, la professoressa è divenuta una celebrità. Divinità, attori, membri della famiglia reale: al momento, nel mondo di Corinne non c’è nulla del genere, perciò un brandello primordiale della sua mente ha mitizzato la donna, la sua chioma arturiana.

Nel breve periodo trascorso qui, Corinne si è sentita sempre meno se stessa. Si sveglia nel seminterrato che ha affittato e niente di ciò che vede le appartiene. Cammina per la città e nessuno le appartiene. Nell’appartamento non ci sono specchi, cosa che da principio le è sembrata una gran seccatura, ma che ora le pare straordinariamente liberatoria. Si rende conto che nelle ultime settimane ha visto il volto della professoressa molto più spesso del proprio. Un giorno fa per sistemarsi la coda e si sorprende nel ritrovarsi capelli lisci e sottili, anziché selvaggiamente ricci.

Qualcosa, dentro di lei, si è smosso. 

Corinne vorrebbe presentarsi, avere un’amica in città, ma già dopo quindici giorni, dei due mesi che passerà lì, è troppo tardi. Non avrebbe la pazienza di perdersi in convenevoli quando ha già immaginato così tanto della vita di quella donna, e non ha alcuna voglia di scaricarle addosso i dettagli della propria esistenza. Sono qui per fare ricerca. Gli archivi dell’università. Un ambientalista del xix secolo: ne hai sentito parlare? No, è una noia. Otto settimane. Una fondazione privata, in realtà. Sì, due maschi, sono al campo estivo. Sì, le montagne sono una meraviglia.

La moglie del ragazzo che l’ha stuprata

A casa, Corinne non ha mai avuto la tentazione di cercarlo. Ogni tanto ci pensava e ogni volta veniva percorsa da un’ondata di repulsione e insieme di orgoglio, perché non aveva bisogno di sapere. Aveva valutato se chiedere al marito di googlarlo per lei. Ma lui, dopo che gli ha raccontato dello stupro subito, anni fa, non ha mai più sollevato l’argomento, per cui Corinne teme che, se lo menzionasse, ne riceverebbe in cambio solo uno sguardo vacuo. Non potrebbe immaginare niente di peggio.

Qui, però, ha tempo, non ha niente da fare e sente il bisogno di provare qualcosa. Per prima cosa si mette a googlare il caso del portiere, solo così, per curiosità, per vedere la faccia del ragazzino di cui si parla tanto. La violenza si è verificata un anno e mezzo fa, ma ora c’è il processo. In breve si ritrova a googlare il ragazzo-che-fu e finisce a fissare le foto di Elise dal suo lettuccio rigido.

Per quel che vede da Facebook, la donna di nome Elise vive a Tampa con tre bambini (due femmine e un maschio) e con il ragazzo, che ormai è diventato un uomo. Gli si è gonfiato il viso, ma solo quello. Alcolismo? Il suo account è privato o poco attivo, con una semplice foto profilo, lo sfondo di un tramonto e la menzione di una raccolta fondi, cinque anni fa. L’account di lei, invece, è una timeline che sembra non avere fine, un decennio di insulsa vita quotidiana.

Pare che Elise lavori in azienda, il tipo di impiego che a Corinne non interessa affatto. Il ragazzo è diventato nientemeno che un medico, un podologo. Le sue recensioni online sono perlopiù positive.

Per quanto ne sa Corinne, c’è stupro e stupro. Se il suo fosse stato uno stupro violento, avrebbe già contattato Elise. Per come stanno le cose, ha solo pensato all’account fittizio che potrebbe creare, al messaggio che potrebbe inviarle.

Una sera, a tre settimane dal suo arrivo in città, apre un nuovo documento Word. Si dice che può scrivere una breve nota senza mandarla e che, dato che non vedrà il suo strizzacervelli per tutta l’estate, la cosa potrebbe anche avere un effetto catartico. Conoscevo tuo marito all’università, inizia, ma cancella tutto e ricomincia, parlando solo di sé. Non ci conosciamo, scrive, ma devo raccontarti una storia. Parla del college senza nominarlo, racconta di come si era ritrovata a cinque Stati di distanza da casa sua. Non farà il nome di Kyle finché non sarà riuscita a guadagnarsi le simpatie della donna. A un certo punto menziona la festa, la confraternita e la scuola. Qualcuno aveva messo della droga nel punch, ho scoperto poi. Come in un brutto film. Probabilmente, però, non si è trattato di Kyle, che era una matricola e non faceva ancora parte del gruppo. Per la maggior parte racconta quello che si ricorda, cioè praticamente niente. La mia compagna di stanza ci ha visto andare via insieme. Ero alla festa, poi all’improvviso era mattina, ero nuda nel mio letto e mi faceva male tutto. La testa, ma anche tutto il resto.

Elise corre mezze maratone. Questo gliela rende subito antipatica. Non perché Corinne disapprovi, ma perché quelle che lavorano in azienda e corrono mezze maratone non fanno per lei. Se Elise avesse un impiego in campo umanistico, se Elise avesse pubblicato foto di sé con le amiche e qualche cocktail, se Elise scrivesse post di stampo politico, Corinne potrebbe provare una qualche affinità per lei. Ma posta solo foto di gare o della famiglia agghindata per Pasqua, in tonalità lavanda e blu marino. Citazioni in corsivo su come le madri siano fatte d’acciaio, su come non bisogna farsi abbattere dalle preoccupazioni.

C’era del riso bianco cotto sparso per tutto il pavimento della stanza. Non ho mai capito perché.

Se Corinne percepisse la benché minima somiglianza con Elise, potrebbe anche mandarle la lettera con le migliori intenzioni, da sorella a sorella. Parte di lei, però, vuole contattarla per i motivi peggiori: per provocarle dolore. Per rovinare il suo matrimonio. Per dimostrarle che il mondo è un posto orribile e che l’uomo che ha sposato, da ragazzo, era un mostro, che lo sia ancora o meno.

Ragion per cui non si permetterà mai di scriverle davvero.

La mia compagna di stanza gli ha detto: «Non azzardarti a toccarla, è troppo ubriaca». Più tardi, quando lo ha incrociato in corridoio, mentre usciva dalla porta, lui le ha detto: «Non ho seguito il tuo consiglio». Si è stretto nelle spalle, ha raccontato la mia compagna di stanza, ha sorriso e ha fatto schioccare la lingua. È importante che tu sappia che si è stretto nelle spalle.

Salva il file. Di tanto in tanto lo riapre, lo rilegge e lo rivede. Anche solo guardare il portatile chiuso, che riposa sulla scrivania, le dà un’iniezione di adrenalina.

L’ex del suo amico

Un giorno, il suo amico George le ha raccontato di una donna che aveva frequentato intorno ai vent’anni. Una che voleva essere immobilizzata con la forza ogni volta che facevano sesso. E non solo all’inizio: per tutto il tempo. In pratica doveva fingere di violentarla. Se provava a baciarla, a farla godere o a lasciarle il braccio, perdeva l’attimo, lei si rialzava, si rivestiva e si metteva a rispondere alle e-mail.

La sera che glielo aveva raccontato, George aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e non faceva caso a ciò che diceva. Corinne ci aveva pensato diverse volte alla settimana, da allora, non per uno scabroso interesse, ma con genuina curiosità: che cosa, in quella donna, le faceva passare la voglia, se lasciata libera di agire?

Visto che era ubriaca anche lei, aveva chiesto a George se ciò che faceva con quella donna lo rendeva felice: «Ero felice di farla felice», era stata la risposta, «ma alla fine è per quello che ci siamo lasciati».

Quando gli aveva domandato come mai, lui era arrossito e si era raddrizzato sulla sedia, come se si fosse reso improvvisamente conto di essere solo in un bar, con un’amica, a parlare di sesso. «Non avrei potuto andare avanti così per sempre», aveva detto, «non solo così per sempre. E poi, insomma… era faticoso. Fisicamente».

Dopodiché aveva cambiato discorso.

Da allora, di tanto in tanto, Corinne dà una scorsa ai contatti Facebook di George alla ricerca della donna, di cui però non ha mai saputo il nome. Cerca donne più o meno dell’età di George, donne di cui non si sospetterebbe mai che possano celare un simile desiderio. O, al contrario, che sembrano le più adatte a coltivarlo: dirigenti di impresa, socie di grandi studi legali. Cerca donne che assomiglino vagamente a George, con i suoi stessi ricci scuri e quel suo sguardo perennemente sorpreso. E poi cerca l’esatto opposto: donne con lineamenti duri e capelli chiari.

Quando è in piedi, Corinne preferisce appoggiarsi a un muro o far sporgere un’anca quanto più in fuori possibile. Le piace percepire dei limiti e immagina che per quella donna sia lo stesso. Vagheggia di tornare a guardare tra i contatti Facebook di George, per vedere se trova qualche donna appoggiata a un muro di mattoni o seduta a gambe incrociate.

Un giorno, ai primi di luglio, fa un sogno in cui George le presenta la donna, che è la professoressa di archeologia. Corinne commenta: «Avrei dovuto saperlo». E l’altra risponde: «Avresti dovuto saperlo».

La cantante di cui suo marito salva le foto

In primavera, aveva dovuto scaricare i moduli per il campo estivo dei ragazzi dal computer di Wallace. Aveva cliccato l’icona di un file sul suo desktop e si era trovata di fronte le foto. Non sapeva chi fosse quella donna, ma ben presto fu sicura che non era qualcuno che Wallace conosceva, sicura che le foto non gli erano state inviate di persona. Scatti pieni di filtri, il culo ambrato della donna illuminato alla perfezione. In alcune succhiava un lecca-lecca, si leccava le labbra o si copriva i capezzoli con due dita per mano.

Corinne cercò l’attrice per cui l’aveva scambiata, ma non era lei. Due settimane più tardi la vide cantare a Saturday Night Live e la riconobbe. «Ti piace?», chiese a Wallace.

Lui rise. «Mi pare un po’ esagerata», rispose. Poi aggiunse: «Pensa che l’ho incontrata, qualche mese fa. Per quella faccenda della Fun Run». Wallace collaborava all’organizzazione di un evento benefico per la sua azienda, a cui partecipavano anche celebrità minori. «Si atteggia molto da diva».

Quella sera, Corinne controllò quando erano state salvate le foto. Alcune poco prima della Fun Run, alcune subito dopo, altre ancora sei settimane più tardi. Perché avesse bisogno di salvarsele, invece di farsi una sega davanti ai risultati di Google e basta, Corinne non riusciva a immaginarlo. O forse sì: una ricerca su Google avrebbe mostrato la cantante insieme al fidanzato, la cantante da bambina, la cantante fotografata per strada senza trucco. La raccolta di Wallace invece era curata, impeccabile. La donna vi appariva sempre sola.

Corinne non pensò nemmeno per un secondo che potesse esserci stato qualcosa tra Wallace e la cantante. Quasi si sarebbe augurata di poterlo credere. Al contrario, l’intera faccenda lo faceva apparire come un omuncolo triste e patetico. Lo immaginò mentre guardava la cantante dall’altro lato del tendone della Fun Run, fasciata da pantaloncini cortissimi. Lo immaginò mentre le stringeva la mano con il palmo umido o chiedeva se desiderava dell’altra acqua, abbastanza vicino da percepire un profumo che, Corinne ne era certa, conteneva note di vaniglia.

Quella sera, aveva passato un’ora a leggere tutto ciò che poteva su di lei. La cantante era stata sposata tre volte, mai per più di un anno. La cantante era una vegana che di tanto in tanto mangiava bacon. La cantante era stata scoperta all’età di dodici anni in un talent show a Disneyland. O forse il premio era andare a cantare a Disneyland. Non si capiva bene.

A luglio, seduta sul suo letto nell’appartamento del seminterrato, si mette a curiosare sul suo account Twitter. Come prevedibile, è pieno di tweet di bassa lega. Pultroppo, scrive, faccio fatica a credere in me stessa. Per fortuna ci siete voi a sostenermi!

Corinne non riesce a pensare a niente di meglio che mettere Mi piace al post per poi potersi togliere la soddisfazione di rimuoverlo, di vedere il cuoricino che passa da rosso a trasparente.

La professoressa di archeologia, di nuovo

Un giorno di fine luglio, mentre è nella posizione della pinza in piedi, il viso rivolto all’indietro tra le caviglie, Corinne si rende conto che ciò che la affascina – o meglio, ciò che la affascina della sua stessa fascinazione – è che per lei la professoressa di archeologia non è né bella né brutta. Non capita spesso. Ha interiorizzato una misoginia tale che in genere prova rabbia, conscia o inconscia, verso le donne che le sembrano più belle di lei. Vuole vederle fallire, vuole che vengano punite per la loro bellezza (con l’età, la bruttezza, la stupidità). Per le donne meno belle di lei, magari perché più vecchie, più tarchiate, più sgraziate, con una dentatura peggiore della sua, invece, prova pena. Una pena rabbiosa e vendicativa.

È al tempo stesso la regina cattiva che vuol vedere Biancaneve morta e la stessa Biancaneve, disgustata da quella vecchia megera.

Queste sue valutazioni in genere non sono il risultato di un pensiero razionale, quanto una sensazione di pancia. Qualche anno fa, però, ha iniziato a cercare di riconoscere i segnali sparsi del proprio razzismo, per cui ora cerca di fare lo stesso con la misoginia.

Sa benissimo che ci sono uomini a questo mondo, uomini pieni di teorie sulle donne, che la definirebbero perfidia, che chiamerebbero in causa l’evoluzione, la competizione. Invece non è affatto così. Ha assimilato quella rabbia dalle riviste, dalla TV, dalla sua stessa madre. Ha imparato a odiare il corpo femminile, suo e di qualunque altra donna, da un film che ha visto ancora troppo giovane, in cui degli universitari nerd filmano di nascosto le ragazze che li hanno rifiutati. Nella pellicola, i ragazzi vengono presentati come degli eroi. L’ha imparato dagli spot della birra, dai video musicali, dagli insegnanti di danza e da un mondo in cui se sei bella ti aggrediscono per strada, se sei brutta ti aggrediscono online.

Il suo giudizio si applica solo alle estranee. Se conosce una donna, la considera un essere umano qualunque. Se non la conosce, però, è così facile vederla come la vede il resto del mondo, con gli occhi degli uomini, quindi come un oggetto.

Quando una donna che è stata bella ma adesso non lo è più fa ancora di tutto per sembrare giovane, la sua misoginia prorompe con prepotenza. Donne dalla fronte inamovibile, donne che si ostinano a insaccare i propri corpi ormai stagionati in abiti succinti. Quell’attrice, con le labbra gonfie e tirate fino a renderle il viso volgare, vaginale. Le odia, vorrebbe ridere loro in faccia, vorrebbe trovare foto sempre più inguardabili quando le cerca su Google. Alla fine, vorrebbe vederle con i vermi che gli escono dalle cavità oculari, le labbra a canotto che si screpolano fino a sanguinare.

Non per davvero. Ma a livello molto profondo.

Corinne pensa a tutto questo mentre è ancora chiusa a pinza. La professoressa di archeologia, chiusa a pinza anche lei, si infila agilmente le mani sotto la pianta dei piedi.

La ragazza nella caffetteria

Corinne svolge la maggior parte del suo lavoro nella biblioteca che, in fin dei conti, conserva gli archivi dell’ambientalista del xix secolo su cui è venuta a fare ricerche. Ma l’aria là dentro è fredda e secca, gli archivi chiudono alle 16:30 e c’è una caffetteria, in città, con divani in pelle sdrucita e incrostazioni alle finestre. Nonostante l’ondata di afa, se si siede dritta sotto il getto del minuscolo condizionatore se la può cavare.

Dovrebbe preoccuparsi di indicizzare la sua ricerca o di richiedere maggiori sovvenzioni, invece si ritrova a scorrere la pagina del campo estivo dei ragazzi in cerca di foto che dimostrino che sono vivi, abbronzati e sorridenti.

La ragazza indossa una felpa della squadra di pallavolo dell’università, deve essere rimasta in città per un qualche lavoro estivo. È lì insieme a un ragazzo che continua a prenderle il telefono, a guardare tra le sue foto e a chiedere: Chi è questo? Chi è quel tipo? Sembra un tappo. Un tappo con la faccia da cazzo. Come si chiama?

Poi comincia a leggerle i messaggi. La ragazza fa quel risolino di disagio, quello spasmo involontario di allegria di cui Corinne ha faticato tanto a liberarsi.

«Adesso lo cancello, quello là», dichiara.

La ragazza dice No, fermo! e vorrebbe che lui si fermasse, ma, forse perché lo dice piagnucolando anziché gridare, lui non le dà retta. Eppure non dovrebbe aver bisogno di gridare. La ragazza tenta di riprendersi il telefono.

La liceale

La studentessa violentata dal portiere ha testimoniato contro di lui in tribunale e la notizia ha fatto il giro del mondo. Da quelle parti è sui giornali già da un po’, ma in fondo Corinne è arrivata lì solo quell’estate.

Il volto della ragazza non è stato reso pubblico, i suoi dati non sono trapelati, ma la sua testimonianza sì. Non aveva bevuto, ma il portiere e i suoi amici le hanno fatto mangiare quattro caramelle gommose alla marijuana. Forse in quel momento era ancora tutto uno scherzo: vediamo cosa fa questa liceale. Si sentiva stordita, per cui era salita al piano di sopra, nella confraternita, per sdraiarsi un attimo. Si era risvegliata con lui sopra di lei e aveva raccontato che era stato come trovarsi in uno di quei sogni in cui si è mezzi svegli e si cerca di muoversi, ma il corpo, ancora addormentato, non reagisce. Si prova a urlare e non esce niente.

Il ragazzo sostiene che non sapeva fosse minorenne. Sostiene anche che è stato tutto consensuale.

Ci sono molti più precedenti legali di casi legati all’alcol.

Corinne guarda il sunto della testimonianza da un baretto in città, in una sala dalle pareti rivestite in legno dove la gente del luogo tiene il proprio boccale personalizzato appeso a un gancio. Alle quattro del pomeriggio, oltre a lei, nel locale c’è solo una coppia di anziani con giubbotti Harley-Davidson. Ordina un calice di pinot grigio e si domanda se venga dalla stessa bottiglia di quando è stata lì l’ultima volta, una settimana prima.

Secondo il notiziario, in tribunale è emerso che la ragazza “si era depilata l’inguine” prima della festa. L’avvocato della difesa, uomo, l’ha tempestata di domande sul perché avrebbe fatto una cosa del genere se non era in cerca di sesso.

La conduttrice legge parte della trascrizione mascherando a fatica la rabbia.

L’avvocato della difesa ha chiesto se la ragazza assumesse la pillola contraccettiva. Ha chiesto se l’avesse presa anche il giorno stesso della festa.

Corinne vorrebbe sfasciare il televisore.

La donna della coppia di centauri scuote la testa, dicendo: «Ecco, vedi. Ora si spiega tutto».

La moglie dell’uomo con cui va a letto

Corinne la odia di un odio puerile. Odia i suoi lunghi capelli neri, il collo longilineo, la quantità di amici meravigliosi che la abbracciano nelle foto.

Con lei è stata la prima volta che si è fatta risucchiare dalla vita di qualcuno online. I suoi profili social; il sito web della sua società di consulenza; l’annuncio del suo matrimonio, ormai vecchio di dieci anni.

Non la cercava da diverso tempo, ma un giorno di inizio agosto, nella sala degli archivi, stanca degli scatoloni di corrispondenza indecifrabile (l’estate le spezza la schiena e le annebbia la vista), Corinne prende il computer e per prima cosa riapre l’ipotetica e-mail a Elise. Non ci conosciamo, ma devo raccontarti una storia. Cerca Elise su Google, per vedere che altro riesce a trovare. Indossa ancora i guanti protettivi quando digita sulla tastiera. Svariate menzioni su pagine di gare importanti. Tempi che per Corinne non significano niente. Un profilo LinkedIn che non può vedere gratuitamente. Dato che è già caduta nella trappola del Web, e dato che la vita di Elise non è poi così interessante, finisce per cercare su Google la moglie. È una dermatologa. Di quelle che fanno le iniezioni, non che curano i melanomi.

Quando Corinne è con George, o quando gli scrive, non usa mai il nome della donna. “Tua moglie”, la chiama. Non vuole che George la lasci: che ci dovrebbe fare con lui, poi? Di certo non sposarlo. Non lasciare il marito. Sarebbe troppo faticoso. George sarebbe troppo faticoso. È tutto troppo faticoso.

Non erano finiti a letto la sera in cui George le aveva raccontato della sua ex, quella a cui piaceva farsi immobilizzare. Ma l’intimità di quella conversazione aveva sicuramente fatto scattare qualcosa tra loro. Era successo un mese più tardi, quando lui l’aveva accompagnata a casa dopo una festa da cui Wallace se ne era andato in anticipo, dichiarando di avere mal di testa. Da allora erano passati tre anni.

È questione di logica: è gelosa della moglie perché ha George. Ma – e si rende conto di quanto sia ipocrita – non si augurerebbe mai di essere sposata con George, perché George è il tipo d’uomo che tradisce la moglie (Wallace, pur con tutti i suoi difetti, non lo farebbe mai, non riuscirebbe mai a fare quel che serve per arrivare a quel punto). Quindi si dispiace per la moglie, perché è sposata a un tizio di cui in realtà non sa praticamente niente. Ma la moglie è felice, o almeno lo sembra. Una felicità sbagliata. Mentre Corinne, che sa la verità e che per qualche tempo ha avuto George tutto per sé ogni martedì pomeriggio, almeno, non è particolarmente felice. La domanda è: come diavolo è possibile?

George ha l’abitudine di spezzarle il cuore. Non appena Corinne inizia a fare affidamento su di lui, ad ammettere a se stessa di esserne innamorata, se ne esce dicendo di aver bisogno di spazio. Oppure svanisce. Non appena il suo cuore si crea una nuova barriera protettiva, eccolo che torna. Corinne aveva pensato che cambiare aria, allontanarsi da lui per un paio di mesi, potesse aiutarla a ritrovare se stessa.

O forse no: ad agosto si rende conto che quello che voleva veramente, che ha sempre voluto, era che lui le corresse dietro. Che si presentasse sulla soglia del suo appartamento nel seminterrato per una notte, due notti, una settimana.

Invece le scrive gli stessi messaggi insignificanti del marito: Raccontami qualcosa di bello. Ti auguro una buona giornata. Sì, qui tutto a posto. Voleva prendere le distanze, ma non questo.

Quando è arrabbiata con George, quindi abbastanza spesso, pensa che un giorno scriverà alla moglie una lettera anonima, su carta, e la spedirà da un’altra città. Non le racconterà di sé, ma della donna con cui George è andato a letto al lavoro; della donna che ha frequentato per un certo periodo, qualche anno prima; dell’amica della moglie che ha baciato, da ubriaco, a una festa nella sua stessa casa. Fossi in te mi farei un test, le scriverebbe. Lo dico da amica. Ovviamente, quella parte sarebbe falsa. Quell’estate, in calce a un documento pieno di ricerche inutili, scrive anche quello, un’aggiunta alla serie di lettere che non manderà mai.

Apre il sito della moglie: Botox, Restalyne, Juvederm, dermaplaining. Ed eccola lì, una bellezza non eccezionale, ma il cui volto emana una discreta luminosità, con le labbra piene e, a meno che la foto non sia stata ritoccata, la pelle del collo che non fa gli stessi orrori di quella di Corinne.

Corinne sa parecchie cose su di lei, spesso poco lusinghiere. Sa che fa bagni lunghi anche cinque ore, che mangia l’insalata con le mani, foglia dopo foglia, e che, ancora vergine a ventitré anni, quando aveva incontrato George, non aveva idea di cosa fosse davvero un pompino.

Lo strizzacervelli di Corinne dice che il suo odio per la moglie è odio malriposto verso se stessa, sublimazione della colpa. Corinne non può negarlo. Ha declinato l’offerta fattale dal terapista di continuare le loro sedute per telefono, durante l’estate. Probabilmente è una cattiva idea, ma, strano a dirsi, le sembra di riuscire ad articolare i pensieri con maggiore chiarezza, nella sua testa. Senza qualcuno con cui discuterne, deve ragionarci su a fondo da sola.

Dà un’occhiata ai prezzi di alcuni dei servizi offerti dalla moglie. Ottocento dollari per filler della durata di sei mesi. Cinquecento dollari per un trattamento al laser. Le foto del prima e del dopo sono notevoli, se vere. Volti lisci come se fossero stati stirati, pelle illuminata fino a sembrare… bruciata, sì, ma anche più giovane.

Prima, dopo. Prima, dopo. Prima, dopo. Corinne potrebbe andare avanti tutto il giorno.

L’aprile precedente, George aveva detto a Corinne che lui e la moglie avrebbero partecipato a una protesta fuori da un edificio federale. Corinne aveva risposto che pensava di andarci anche lei, anche se fino a quel momento non le era nemmeno passato per la testa. Era una manifestazione talmente piccola che quando era arrivata li aveva visti subito. George teneva sulle spalle il figlio minore. La moglie sembrava conoscere metà dei presenti.

Era stato allora che Corinne si era resa conto di dover cambiare aria. Non si riconosceva più, una pazza tra la folla.

Persino adesso non è sicura del perché ci sia andata. Di certo non per dire qualcosa. Quella è solo una sua fantasia, che non diventerà mai realtà. Si dice che forse ci era andata per osservare, raccogliere informazioni. Non per usarle, ma per togliersi una curiosità. Per potersi dire: È fatta così. È così che si muove. È così che parla, con un tono più alto di quanto si potrebbe pensare. È così che vive la sua vita. Guarda che belle scarpe.

La ragazza nella caffetteria, di nuovo

La giovane coppia è di nuovo lì. Corinne li guarda studiare l’uno vicino all’altra. La ragazza si alza per andare in bagno e il ragazzo le dice: «Lascia qui il telefono.»

«Eh? Perché?»

«Così so che non mandi messaggini sconci a nessuno.»

La ragazza dice: «Sei ridicolo.»

«A che ti serve portarti il telefono il bagno?»

E lei: «Lo lascio qui, ma lo blocco.»

«Perché dovresti bloccarlo?»

La ragazza gli lancia il telefono addosso e lui lo appoggia a faccia in giù sul tavolo.

Corinne scribacchia una frase su un tagliando della biblioteca preso dalla sua borsa e si mette ad aspettare fuori dalla porta della toilette. Quel ragazzo è uno stronzo, ha scritto. È così che le cose cominciano ad andare male. Quando la giovane ricompare, glielo porge.

Teme che la ragazza mostrerà il foglietto al compagno e che si prenderanno gioco di lei, ma aspetta un instante prima di entrare in bagno e, quando la guarda, vede che si sta infilando il foglietto in tasca.

Per qualche ora Corinne si sente molto orgogliosa di sé, poi comincia a domandarsi perché non ha detto qualcosa, perché non ha affrontato quel tizio. Le piace pensare che, se per esempio avesse visto un ragazzino dire a un altro di tornarsene in Pakistan, sarebbe intervenuta a gran voce. Avrebbe fatto una scenata.

Per le donne, però, no: solo sussurri, foglietti.

La figlia del ragazzo che l’ha stuprata

Con il passare dell’estate, man mano che l’appartamento si riempie di strati di ciarpame, Corinne trascorre sempre più tempo al computer. Fa avanti e indietro tra Twitter e Facebook, in attesa che succeda qualcosa di interessante. Scava tra le e-mail a cui non è riuscita a rispondere l’anno precedente.

Una notte sogna di aver fatto un brutto scherzo al marito, riempiendo una pentolaccia con i servizi di porcellana ricevuti in regalo per il matrimonio e chiedendogli di colpirla. È il suo compleanno e, quando la pentolaccia cade a terra, spargendo cocci da tutte le parti, è evidente che Wallace si sente profondamente tradito. Nel sogno, Corinne scoppia a ridere, ma si sveglia tormentata dall’acidità di stomaco.

Si stordisce rimanendo sdraiata a letto a fissare il telefono, ma, per qualche ragione, quella mattina decide di provare a fare una ricerca su Instagram con il cognome del ragazzo, che è piuttosto inusuale. Lui non c’è e sua moglie nemmeno, ma c’è la maggiore delle figlie, che avrà all’incirca 14 anni: troppo pochi per avere un account pubblico del genere, troppo pochi per pubblicare quelle foto in bikini.

Corinne si domanda se la madre lo sappia, si chiede se non debba fare qualche screenshot da mandare a Elise in forma anonima. Ma no, no, no, no. Com’è possibile che stia pensando di segnalare una ragazzina che si fa fotografare mezza nuda, ma non il padre per aver commesso uno stupro?

Beh, lo sa benissimo come.

La moglie dell’ambientalista del xix secolo

Si chiamava Mae e compare spesso tra le ricerche di Corinne, anche se non è per quello che lei si trova qui o che ha una borsa di studio.

Mae era un’erborista. La sua domestica, Annunziata, un’immigrata italiana, fu arrestata nel 1892, quando il marito morì per aver ingerito dell’olio di mandorle amare che la moglie gli aveva somministrato come cura. Annunziata dichiarò che pensava fosse olio di mandole dolci, un medicinale del tutto innocuo, e che c’era stato un malinteso con il farmacista a causa del suo inglese zoppicante, per cui era il farmacista a dover andare a processo.

Corinne rimane turbata dalla vicenda, soprattutto dalla versione in cui Annunziata avrebbe amato il marito e gli avrebbe somministrato il farmaco letale per errore. La versione migliore? Il marito la picchiava e Mae le aveva spiegato cosa fare. A quale altra forma di giustizia avrebbe potuto affidarsi in quei tempi oscuri? Su quale forma di giustizia si può mai fare affidamento?

Annunziata rimase al servizio di Mae fino in tarda età.

La conduttrice

È visibilmente furibonda quando spiega che il giudice ha condannato il portiere ad appena tre mesi. Tre mesi nel carcere della contea, due anni di libertà vigilata. Eppure non sta conducendo un programma di opinione ma un telegiornale, il suo compito è riportare la notizia. Corinne immagina che abbia idee e informazioni sui peli pubici, sulle pillole anticoncezionali, sull’interdizione, sull’avvocato della difesa, sul giudice.

Le piace il suo modo di fare. È una conduttrice che lavora per una rete locale, che Corinne ha scoperto solo da quando è arrivata in città. Ricorda di aver sentito qualcuno dire che, siccome i conduttori devono comprarsi da sé gli abiti che indossano in onda, le donne rischiano la bancarotta per acquistare sfilze di giacche dai colori vivaci e blouse dai toni gioiello. Non possono mai vestirsi allo stesso modo due volte. Gli uomini, al contrario, alternano sempre le stesse cinque giacche e camicie.

Il ragazzo è stato espulso dall’università, ma è stata organizzata una raccolta fondi online per “aiutarlo a cadere in piedi”.

Corinne osserva la conduttrice contrarre ritmicamente la mano sinistra, le unghie rosa perfettamente curate. Anche la manicure avrà un costo.

La professoressa di archeologia, di nuovo

Corinne la scorge al mercato che viene allestito ogni sabato mattina all’ingresso del piccolo giardino botanico della città. Lei non è lì per fare acquisti (il suo appartamento ha un fornello microscopico, quindi cosa potrebbe mai farsene di cipolle, cavoli e patate?), ma, quando nota la professoressa con le braccia cariche di sporte di iuta, rimane nei paraggi e compra qualche fiore. La professoressa guarda le zucchine, assaggia del formaggio.

Le cuciture di una delle sporte cedono e un sacchettino di carta cade a terra, sul marciapiede. Mirtilli ovunque.

Corinne vorrebbe dare una mano, ma è pietrificata al suo posto. La professoressa si inginocchia a tentare di raccogliere il tutto, con l’aria di una che sta per scoppiare a piangere. Fino ad allora, Corinne l’ha sempre vista serena, con quel suo atteggiamento profondamente yogico. In quel momento, sembra che sia la quindicesima volta che le capita qualcosa del genere quel giorno, come se fosse a tanto così dal disastro e dalla disperazione più nera.

Corinne decide che la prossima volta che andrà al centro yoga le pagherà di nascosto un pacchetto di lezioni.

Tuttavia il lunedì successivo, una volta sul posto, è troppo intimidita per presentarsi alla reception con quella strana richiesta. Di sicuro, tutti lì conoscono la professoressa. Ma nessuno conosce lei. Alla fine, quindi, non fa niente. Però ci ha pensato e, per un po’, la sola idea la fa stare bene.

Le donne nei film di bondage

È il solo porno che Corinne voglia vedere, ora. Donne legate, costrette a godere contro la loro volontà. Strumenti, fruste, file di uomini, strane configurazioni con le corde, imbavagliamenti.

Deve credere che i film siano stati girati in maniera etica, che se una di quelle donne fosse mai stata in difficoltà se ne accorgerebbe, lo capirebbe dalla sua espressione.

(E a quel punto che cosa potrebbe fare? Chiamare la polizia? La donna nel porno che sto guardando ha l’aria infelice).

Vorrebbe che gli uomini non vedessero quei video, mai. Non vuole che i ragazzini pensino che sia così che funziona.

Naturalmente, non vuole neppure essere presa per strada, rinchiusa in un sotterraneo e ritrovarsi segnata dalle corde. Non vuole essere le donne nei video e non vuole essere gli uomini nei video, ma non vorrebbe neppure essere una delle altre donne nei video, di quelle che partecipano facendo cose a quella legata. Vuole solo starsene lì, sul suo letto, a guardare.

Le piacerebbe che quei siti potessero raccogliere statistiche di genere su chi guarda che cosa. Magari è così, chi lo sa.

Le piacerebbe poter cambiare ambito di ricerca ed essere lei a raccogliere quei dati. Chiederebbe agli utenti di compilare dei sondaggi facoltativi, quando escono dai siti porno. Niente informazioni personali, al di là di genere ed età, ma cose come: Questa cosa ti ha dato fastidio? Ti è piaciuta? Hai odiato quella donna? L’hai adorata?

Quello che fa, nella realtà, è inviare i link a George. Gli aveva già mandato delle cose, prima, ma non di questo tipo. Tra dieci giorni sarà di nuovo a casa, ma è piuttosto sicura che la sua assenza abbia messo fine a qualunque cosa ci fosse tra loro. Quando si rivedranno sarà strano, formale. Niente abbracci appassionati. Non era quello il punto, in fondo?

Lui scrive: È questo che vuoi? E lei: No. Poi aggiunge: Credo di voler essere la frusta.

L’esperta di cura personale

Corinne è di nuovo nella caffetteria e la donna dall’aria sciatta seduta accanto a lei sta guardando un video, di quelli con il primo piano di qualcuno che parla, sul portatile, senza auricolari. A casa Corinne se ne lamenterebbe, ma qui è sempre cosciente di essere un’estranea, con l’accento da Yankee. E poi non sta combinando nulla in ogni caso.

La donna nel video è un’esperta di cura personale e sta parlando di compartimentalizzazione: «È impossibile assimilare tutte le brutte notizie che colpiscono le persone nel mondo», dice. Indossa un blazer giallo pallido ed è di una calma inquietante, la voce come la lama di un pattino da ghiaccio.

Corinne pensa che quella sia la peggiore sciocchezza che abbia mai sentito, una scusa per badare solo a se stessi, ai propri familiari e a persone che ci ricordano la nostra famiglia.

La donna consiglia di immaginarsi la propria mente come una serie di barattoli col coperchio. Consiglia di inserire le questioni romantiche in un barattolo, quelle finanziarie in un altro, chiudendo mentalmente i tappi.

Corinne si chiede se sia questo ad averla mandata in tilt, quell’estate: ha perso la capacità di compartimentalizzare. A casa, correre dietro ai figli, lavorare, cenare con Wallace, vedere George, usare il computer solo per fare ricerca, tenere in ordine la casa, tenere in ordine l’ufficio… ogni cosa aveva il suo posto. Qui, il suo mondo si è fatto caotico e disordinato quanto la stanza che ha affittato. Tutto quello che le è successo, tutti quelli che ha conosciuto sono lì, nel suo computer, in attesa che lei muova il mouse per riportarli in vita.

È rimasta rapita dal video della sua vicina così a lungo che non ha notato la coppia di studenti, la giovane universitaria con quel suo orribile ragazzo, entrare nella caffetteria. Sono in coda, intenti a guardare gli enormi pasticcini attraverso il vetro sporco. Si tengono per mano. Corinne infila il portatile e le carte nella sua borsa, affrettandosi a uscire prima che la ragazza la veda… sempre che che non l’abbia già vista, sempre che quel loro tenersi per mano non sia un modo per mandarle un messaggio.

Invece di andare al bar per un drink, e sebbene abbia ancora una mezza bottiglia aperta a casa, compra del vino rosso e mette in borsa anche quello, sentendolo sbatacchiare contro il computer.

Quando arriva nell’appartamento, uno scarafaggio sbuca fuori da sotto la porta dell’armadio, grosso come un topo. Corinne riesce a non urlare: al contrario, si batte le mani contro le cosce, girando su se stessa. Pesta i piedi qua e là, ma lo scarafaggio è già sparito.

La studentessa all’ultimo anno di liceo

Corinne ha finito la bottiglia aperta e iniziato quella nuova.  Non ricorda di aver seguito la cantante da cui è ossessionato Wallace sui social, ma a quanto pare lo ha fatto. Eccola lì, in un halter a fasce nere così striminzito che pare che qualcuno ci abbia dato dentro con il nastro adesivo. In effetti ha pure del nastro adesivo sulle labbra, a formare una X nera. “In difesa delle vittime del silenzio”.

Che diavolo sono le vittime del silenzio?

Nel tweet subito sotto – Corinne ha un momento di dissonanza cognitiva nel rendersi conto che la cantante ha menzionato la città in cui lei si sta ubriacando in quel momento – ha postato un articolo sul caso dello stupro.

Hanno pubblicato le dichiarazioni della vittima, ma non il nome. Corinne legge il documento, e non è affatto male. Chissà come, si era persa il fatto che, dopo la violenza subita durante la visita al campus, la giovane aveva comunque scelto di studiare lì e vi aveva trascorso un anno come matricola. Pensa alla ragazza della caffetteria, si chiede se si conoscano, se si siano mai confrontate in classe.

La scelta di iscriversi all’università era stata usata contro di lei. Era la migliore delle scuole che mi hanno accettato, ha scritto, forse perché sapeva che avrebbe dovuto giustificarsi. Mi hanno offerto la borsa di studio più vantaggiosa.

La ragazza – anzi, la giovane donna, perché ormai è all’università ed era stato allora che Corinne aveva iniziato a definirsi una donna – aveva scelto di frequentare l’università, ma quando aveva visto il suo stupratore nel campus era crollata. A quel punto era andata in terapia, era riuscita ad articolare quanto le era successo e si era rivolta a un avvocato.

Corinne trova un tweet in cui si mette in discussione la decisione della giovane di immatricolarsi all’università, se era davvero così traumatizzata.

Perché, risponde Corinne, quale “istituto senza stupratori” avrebbe dovuto scegliere?

La donna nella foto

Corinne si sveglia con la sensazione di un martello pneumatico in testa, l’amaro in bocca, le luci troppo forti. Si è scolata tutta la bottiglia senza aver cenato.

Ricorda un ex alcolista che era stato a tenere un discorso nel suo liceo e aveva detto: «Ho capito di avere un problema quando ho iniziato a bere da solo. Non c’è mai una buona ragione per bere da soli». Lui, però, era un uomo. Non capiva che, per le donne, bere da sole è molto più sicuro. È bere in gruppo che è pericoloso.

Sennonché con lo smartphone tra le mani e il portatile accanto al letto ormai non si è più davvero soli, e pian piano Corinne si rende conto che quello che ha fatto non era un sogno ma un ricordo, acre e viscoso come qualunque cosa le stia invischiando la lingua.

Eppure… cos’è che ha fatto, di preciso? Ha fatto tutto al contrario. Ha fatto tutto al contrario di proposito, seguendo una qualche logica dettata dall’alcol che alla fine potrebbe salvarla, anzi, salvare tutti quanti, cosa che non era nelle sue intenzioni ma di colpo lo è diventato. Sempre che si sia ricordata di usare un account falso. Trascina il computer in bagno, si siede sul pavimento accanto alla tazza e controlla, le dita che le tremano per la sbronza ma forse anche per il nervoso.

Sì, vede che ha usato l’account falso di cui si serve per prenotare posti gratuiti ai raduni di politici spregevoli, in modo che restino vuoti.

In più di un’occasione si è stupita della propria capacità di scrivere lucidamente, o perlomeno di produrre un testo impeccabile, da ubriaca. E anche questa volta non è da meno: senza errori di ortografia, con i nomi cambiati, ha preso la nota che aveva scritto su George, sulle sue varie avventure extraconiugali (a parte la loro), e l’ha inviata a Elise, la moglie del ragazzo che l’ha stuprata, all’indirizzo e-mail indicato sui suoi profili social. Ha sostituito luogo di lavoro e mestiere con quelli del ragazzo (a un convegno medico, ha scritto, perché, pensa, lui ora è un medico, uno che i pazienti sembrano adorare); ricorda che è andata sulla sua pagina Facebook, ha trovato il nome di un’amica molto attraente con cui si era taggato a una festa e ha inserito il suo nome nel messaggio (Prova a fare qualche domanda a Debra Wenman). È possibile che la menzogna venga smascherata all’istante. Debra Wenman potrebbe essere lesbica, potrebbe essere morta, potrebbe essere la cugina. A meno di non essere colpevole, il ragazzo sarà sicuramente in grado di protestare la propria innocenza con tutta la convinzione di un vero innocente. Potrebbe persino passare il test della macchina della verità.

Ma perché è così preoccupata per lui? Ciò di cui lo ha accusato è assai meno agghiacciante di quello che ha fatto in realtà, solo più recente. Ha accusato l’uomo, quella è la differenza, non il ragazzo.

Per un orribile istante, le viene il dubbio di aver inviato alla moglie di George il messaggio pensato per Elise, di aver accusato George di aver stuprato qualcuno ai tempi del college. Ma no, non c’è niente del genere tra le e-mail inviate. Controlla il telefono per vedere se ha scritto qualcosa anche a lui, ma l’ultimo messaggio visibile è ancora la faccina che sorride a testa in giù che George le ha inviato due giorni fa e a cui lei non ha mai risposto. Solo così riesce a sentirsi a posto: quando è lei a farsi attendere e lui ad aspettare.

Non le è certo sfuggito che ha fatto tutto questo da ubriaca, e che anche il ragazzo era ubriaco quando le ha fatto quello che ha fatto, vent’anni prima.

Qualche anno fa, quando un altro stupro universitario aveva fatto notizia, la sua amica Suzanne (ormai ex-amica) aveva sostenuto che il ragazzo non poteva essere colpevolizzato per ciò che aveva fatto da ubriaco. Bere, aveva replicato Corinne, non ti cambia completamente l’indole. Un uomo normale non uccide la moglie, quando è ubriaco, un marito violento sì. Non si dichiara il proprio amore a qualcuno da ubriachi, a meno di non esserne davvero innamorati. «Io non vado in giro a violentare gente, quando sono ubriaca», aveva detto Corinne, «a prescindere da quanto ne sia attratta. Perché non sono una stupratrice». Eppure, mentre era in stato confusionale ha mandato un’e-mail che è tutta una menzogna e non farà altro che ferire gli interessati. Questo che cosa fa di lei?

Le viene in mente che forse, quando il polverone sarà passato, il rapporto tra il ragazzo ed Elise ne uscirà più forte. In fondo, vuol dire che qualcuno deve essere geloso di uno di loro, per mandare quell’e-mail. Qualcuno vuole dividerli, e cosa può esserci di più romantico?

Corinne vomita tre volte. Beve un po’ d’acqua e vomita anche quella. Si chiede se il rimorso velato di panico che prova per aver inviato quel messaggio sia parte del rimorso generale che la assale ogni volta che si trova a smaltire i postumi di una sbornia, il disprezzo di sé che vuole essere espulso insieme all’alcol.

Il suo stomaco vuoto, terribilmente vuoto, per una volta sembra piatto. Quando riesce a tornare a letto, si sfila la maglia, tiene in alto il telefono e scatta una foto al suo torso nudo, il petto, il collo, il viso. Ha una faccia tremenda, pallidissima, ma rimedia applicando qualche filtro. In genere non manda mai a George foto che includano sia il corpo sia il viso, solo l’uno o l’altro, per prudenza, ma si sente spericolata e incline all’autodistruzione, perciò la invia.

Aspetta la sua risposta, che però non arriva. Si addormenta e quando si risveglia sono passate due ore, ma lui ancora non le ha scritto. Detesta essere l’ultima a premere Invia, detesta trovarsi in quella situazione di limbo, vorrebbe non aver mai inviato quella foto.

Prima di cancellarla dal telefono, la osserva. Sembra un cadavere, gli occhi chiusi, il corpo rigido e immobile sul lenzuolo bianco.

Ha bisogno che i ragazzi tornino dal campo estivo. Ha bisogno di tornarsene a casa sua. Quanto si è rivelato facile perdere ogni contatto con la realtà.

La professoressa di archeologia

È l’ultima lezione di yoga di Corinne allo studio. Ha quasi finito di svuotare l’appartamento e ha scritto un biglietto di ringraziamento per l’archivista della biblioteca.

Vorrebbe poter rimanere in quella stanza, su quel materassino, per sempre.

I momenti più felici, per lei, sono quelli in cui il suo corpo è annodato su sé stesso, le gambe incrociate una sull’altra al pari delle braccia, oppure con le braccia premute contro le cosce, i piedi chiusi tra le mani, o ancora con le mani incrociate dietro la schiena. Ha bisogno di percepire i limiti del proprio corpo e la durezza del pavimento sotto il materassino.

A fine lezione si prende del tempo per mettere via le sue cose, raccogliendo mattoncini ed elastici con tutta calma. La professoressa di archeologia sta parlando con l’istruttrice. Corinne deve essersi avvicinata più di quanto pensava: quando l’istruttrice si volta, sembra sorpresa nel trovarsi il volto di lei a pochi centimetri dal suo.

Quello che Corinne vorrebbe dire – e quasi inizia la frase, come in un sogno, come se non riuscisse a controllare ciò che verrà dopo – è: «Ho fatto casino e ho bisogno del tuo perdono». Ma, visto che non sta sognando e visto che se ne sta lì, a piedi nudi, sul freddo pavimento in legno, tutto quello che le viene da dire è: «Ti è caduto questo».

Poi, però, non riesce a pensare a cosa, mentre la professoressa e l’istruttrice di yoga la guardano, in attesa.

La mano di Corinne è nella tasca della sua felpa, e nella stessa tasca ci sono i venti dollari che voleva lasciare nel cestino per i pagamenti delle lezioni. Porge la banconota arrotolata alla professoressa.

«Oh!», esclama lei, le sopracciglia inarcate in segno di incredulità. «Sul serio?».

«Sì, sì», risponde Corinne, allontanandosi prima che possano farle altre domande.  Domani passerà furtivamente a lasciare altri venti dollari nel cestino. Anzi, ne metterà cinquanta. Le sembra più giusto. O cinquanta e un biglietto di ringraziamento. O cinquanta e una scatola di caramelle morbide di quel posto su Main Street. Deve pur esserci una formula, un quantitativo ideale che riesca a compensare la sua goffa esistenza, i suoi peccati.

La donna nella paninoteca

È l’ultimo giorno di Corinne in città e la donna avrà 60-65 anni. È seduta da sola, a mangiare un’insalata.

Terminato il pranzo, si spazzola accuratamente i denti con uno spazzolino asciutto, osservandosi in uno specchietto. In qualche modo, riesce a non farlo sembrare disgustoso. Si rimette il rossetto. Si alza e si stira i polpacci, uno per uno, dedica un minuto a riorganizzare la borsetta. A rimettersi in ordine. Corinne non pensa mai a rimettersi in ordine, non si ferma mai a chiedersi, a metà giornata, a che punto è. Rimane incantata dalla cura che quella donna ha di sé, dal suo modo di fare le cose una alla volta.

La donna si avvicina e le chiede se sa come arrivare al giardino botanico. «Penso che debba andare dritta verso est», le risponde Corinne.

Invece di Non sono di qua. Invece di Insegnami a vivere

© 2021 by Rebecca Makkai, first published in Harper’s. Used by permission of the author.
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ARTICOLO n. 93 / 2024