ARTICOLO n. 77 / 2021
DIVENTARE ADULTI
ritratto di Paolo Sorrentino
Da bambino ero quasi condannato a osservare perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempo che nel ricordo mi appare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfottò, le dinamiche del gioco, le psicologie.
PAOLO SORRENTINO, Vanity Fair, 20 maggio 2020.
Intervista di Malcom Pagani.
Nei film di Paolo Sorrentino i bambini sono ovunque: non sono piccoli e teneri, ma sono uomini e donne adulti, individui ostinati, spesso viziati, infantili, che si autoconvincono delle loro idee, che le ripetono fino allo sfinimento e che per tutto il tempo cercano – perché è questo quello che fanno: cercano – il loro posto nel mondo.
Essere liberi, per il Tony Pisapia de L’uomo in più (2001), significa essere sé stessi, significa vivere senza costrizioni e senza limiti, conoscere la sostanza delle cose nel profondo e farsela piacere, innamorarsene e poi abusarne fino allo sfinimento, fino a dimenticare. Ne Le conseguenze dell’amore (2004) Titta Di Girolamo ha la stessa paura di cambiare, e di crescere, di un adolescente: si protegge ripetendo gli stessi movimenti e gli stessi rituali; prova a seguire le regole che si è dato, e proprio alla fine, proprio quando pensa di aver perso tutto, vince. Stravince, anzi. Perché scopre l’amicizia, e nell’amicizia diventa completo: diventa adulto.
Il Geremia de’ Geremei de L’amico di famiglia (2006) vive con sua madre, e tutto il suo mondo ruota attorno a quest’idea assurda di amore-odio. Ricorda l’infanzia, ricorda quello che era, e nella malinconia per il passato diventa cattivo e meschino: fa quello che fa quasi per ripicca. Ama le donne ed è ossessionato dalla bellezza. Lui che, da tutti, viene considerato brutto. È un bambino. Quando la volpe non arriva all’uva, dice che è acerba, che non va bene. Geremia, quell’uva, la vuole comunque. Proprio come, nonostante tutto, continua a volere sua madre.
Ne Il Divo (2008) Andreotti gioca. Con il potere, con le persone, con quello che gli altri pensano e credono. E si diverte. È uno dei personaggi più ironici del pantheon sorrentiniano. Sembra un folletto: curvo, con le mani sempre raccolte, le orecchie grandi, la fronte enorme e spaziosa. Ha una vocina sottile, meditabonda. È intelligentissimo. Perché, proprio come i bambini, ha una visione diversa.
Anche il Cheyenne di This must be the place (2011) si trova in una dimensione sospesa, quasi alternativa, dove non si urla ma si parla piano, quasi sottovoce, dove tutto sembra ovattato e rallentato, e dove l’immensità dell’esistenza si risolve nelle piccole cose. Si mette in viaggio per ritrovare le sue origini e rivedere suo padre. Conosce la tristezza, perché nella tristezza ha trovato una compagna fedele.
Jep Gambardella, ne La grande bellezza (2013), si sente incompleto. Ha scritto un libro, ed è stato un grandissimo successo. Rimpiange, però, il suo passato; soprattutto rimpiange il suo primo amore che non è mai andato via e che, puntualmente, nei ricordi e nei sogni a occhi aperti, ritorna. I motoscafi, le isole, il mare azzurro. Tuff tuff tuff anche qui. I bambini che incontra nelle sue infinite passeggiate gli sorridono come, a volte, sorride la vita: all’improvviso e senza nessuna malizia. È l’innocenza. La stessa innocenza della Santa che dice: le radici sono importanti. E quindi è importante il passato ed è importante l’infanzia; è importante essere, ed essere stati, bambini.
In Youth – La giovinezza (2015) si parla proprio di questo, e cioè dell’immaturità genuina, spontanea, che risiede in ogni persona, e che non ha niente a che fare con l’età o con gli anni. Ogni rapporto, ogni relazione e ogni ruolo sono solo parti di uno schema più ampio, meno complicato e decisamente prevedibile: la vita è una linea, inizia e finisce; e sta proprio a noi capire che cosa farne. Quando però ci riusciamo è troppo tardi. Siamo soddisfatti, perché abbiamo risolto il rompicapo più difficile di tutti, e siamo, per la prima volta, consapevoli. Una Rossana può davvero essere la felicità.
Anche il Berlusconi di Loro (2018) è un uomo che vuole continuare a giocare, che non sa accontentarsi, che vede l’amore e il sesso come accessori, e che ne capisce pienamente il valore quando li perde. Non è una giustificazione, non è il tentativo di riabilitare una figura controversa della nostra storia più recente: è l’umanità intesa come caratteristica nella sua definizione più elementare. E quindi come sinonimo di fallibilità, di mediocrità, di errore, di imperfezione e di ironia.
In The Young Pope (2016) e in The New Pope (2020) il protagonista è stato abbandonato dai genitori, e per tutto il tempo, dal primissimo all’ultimo istante, fa quello che fa per ritrovarli, per risentirsi a casa e per essere finalmente accettato. All’inizio è viziato e arrogante, perché è arrabbiato. Poi, lentamente, riscopre il piacere della semplicità, dell’affetto vero, del bene fatto senza pretendere nulla in cambio. Diventa quello che deve diventare: un uomo.
Il filo rosso del cinema di Sorrentino
Tutto quello che Sorrentino ha raccontato è unito da questo filo rosso, sottilissimo ma evidente, fatto di ricordi, di piccoli frammenti e di battute bellissime: diventare adulti; non essere più bambini; prendere, finalmente, il controllo della propria vita. Ma la verità è anche un’altra. Perché non si smette mai di crescere, si è sempre figli di qualcuno e tutto, anche la cosa più complicata e assurda, può essere ricondotto alla logica del gioco.
Il cinema è una lente di ingrandimento o, a seconda dei punti di vista, un grandangolo per allargare la propria prospettiva sulle persone e sul mondo. Con il cinema, e con la parola scritta, e anche con la televisione, si può affrontare qualunque argomento e qualunque tema senza mai accontentarsi.
Il talento di Tony Pisapia è come il talento di Maradona, figura che ritorna spessissimo, anche citata per caso, nei film di Sorrentino. L’ironia di Andreotti è come l’ironia di Geremia de’ Geremei: spesso incompresa, a volte sottile e volutamente cattiva. Il successo, che unisce un po’ tutti i personaggi di Sorrentino, non è l’obiettivo, ma il mezzo: e quindi anche Jep Gambardella, così apprezzato e ben voluto, non sa ancora cosa essere da grande. Uno scrittore? Un giornalista? Un pensatore? Le domande si accumulano, e le risposte non bastano.
È stata la mano di Dio
In È stata la mano di Dio (2021) Fabietto, il protagonista interpretato da Filippo Scotti, è Sorrentino. Quando era giovane, quando viveva a Napoli, quando cercava la sua strada. È un film autobiografico, ma è pure un film di finzione, perché Sorrentino si prende le sue libertà e unisce racconti e ricordi, insegue una cronologia degli eventi più o meno precisa, e poi la ribalta. C’è lo scherzo, c’è la responsabilità delle scelte, e c’è quel passaggio fondamentale, centrale per tutto il tempo, dall’infanzia all’età adulta.
Per Fabietto essere grande vuol dire smettere di farsi chiamare Fabietto, vuol dire fare l’amore per la prima volta e non sognare più zia Patrizia; vuol dire affrontare la perdita dei genitori, e farlo nonostante l’impossibilità di poter dire addio. Ma vuol pure dire prendere un treno e lasciare Napoli, trovare qualcosa – qualcosa di importante – da raccontare, urlare finalmente la propria insoddisfazione e la propria frustrazione.
Fabietto è un personaggio che, nel corso del film, cresce. E prima è un figlio, poi è un orfano. Prima parla con suo fratello come un amico; poi diventa più serio, ed entrambi si confessano cose più difficili e importanti. In un certo senso, Fabietto si riscopre. Perché, nel profondo, è sempre stato la stessa persona: ha sempre visto Napoli, la famiglia, le zie e i cugini in un modo; ha sempre provato a mettere in ordine i pensieri e le parole; ha sempre desiderato, sognato e sofferto. Quando però perde i suoi genitori, tutto si amplifica: diventa insopportabile. Una detonazione di dolore e angoscia. Manca qualcosa, e si nota nell’espressione di Fabietto, si nota nel modo in cui, all’improvviso, rimane in silenzio: si nota nella camminata spedita ma non veloce, nella meraviglia che, piano piano, ritorna, nella serietà che prende il posto dell’approssimazione.
Crescere, dopotutto, richiede sacrifici e privazioni. L’età dell’innocenza finisce quando finisce il tempo dei giochi a tutti i costi e del futuro senza forma: quando si è grandi, quando si è adulti, bisogna decidere. E bisogna, poi, convivere con le proprie scelte. Ed è questo che, prima di ogni altra cosa, Fabietto deve imparare. Il cinema non può essere un capriccio: deve essere una risposta a una domanda specifica. E l’amore, come il sesso, non può avere la consistenza fumosa di un desiderio: deve farsi carne, deve trovare un corpo e avere delle sembianze precise.
Ma chi cresce deve anche essere in grado di trovare da solo i suoi maestri, di sceglierseli. Non è più il tempo della scuola e delle lezioni obbligate: da grandi, dobbiamo capire cosa vogliamo imparare e da chi, poi, vogliamo impararlo. Fabietto – come Sorrentino – trova in Antonio Capuano la sua guida. Anzi, meglio: l’innesco del suo cambiamento. Capuano lo sprona, lo mette davanti a un bivio: Napoli, il cinema, le storie, dire e non dire, parlare oppure tacere; capire cosa vale la pena inseguire, e cosa, invece, non serve, è solo una distrazione.
Crescere a Napoli, crescere lontano da Napoli
Crescere non è una cosa facile, e non c’è un libretto delle istruzioni da seguire per farlo. Crescere, spesso, è il risultato di quello che ci succede intorno, di quello che vediamo e che proviamo, di quello che ci dicono gli altri e che copiamo e riprendiamo da loro. Crescere, a volte, richiede tantissimo tempo. Altre volte, invece, succede all’improvviso: prima si è una persona, e il momento dopo un’altra.
Conta, in questo grande schema, anche l’ambiente, e quindi la città in cui si nasce. Per Fabietto questa città è Napoli. E in È stata la mano di Dio Napoli è ovunque. Nelle strade, negli scorci di mare, nei tuff tuff tuff dei motoscafi; nell’aria scanzonata e divertita dei contrabbandieri; nei pavimenti di marmo, nell’esultanza sui balconi, nel tifo religioso per un uomo, Maradona, e per una squadra.
Napoli rappresenta, come gli altri personaggi, un grande incontro. E, a suo modo, una grande riscoperta. Una città che vive nel sottosuolo e che è calda, pulsante, trafficata e rumorosa. Una città che è pure delicata, e che come il mare avvolge tutto, ogni cosa, ogni persona. Napoli è una religione, ed è pure una maledizione: perché ti forma, e ti costringe a una determinata idea. Se sei napoletano, dividi le persone in napoletane e non napoletane; se cresci a Napoli, ci saranno la tua città e la città degli altri. Viaggiare è una sfida, perché per trovare una nuova casa bisogna vincere una scommessa. E Fabietto lo sa: glielo si legge in faccia quando prende il suo treno per Roma («solo gli stronzi vanno a Roma»), quando si abbandona con la testa contro il finestrino, e rimane ad ascoltare.
‘O Munaciello
Nel cinema di Sorrentino, i bambini hanno qualcosa di più rispetto agli adulti. Sono estremi. Immuni ai compromessi. Ne La grande bellezza sono Roma stessa, perché giocano, sono felici, e perché sono confinati in uno spazio preciso, sorvegliati a vista. In È stata la mano di Dio, i bambini sono ‘o munaciello: e quindi sono a metà, esseri magici e mistici, fatti di carne e idee, di fede e scaramanzia. Alla fine, però, anche ‘o munaciello è solo un bambino, e quando si mostra alla luce del sole i sogni finiscono per coincidere con la realtà.
Ma in È stata la mano di Dio i bambini sono anche fastidiosi, insistenti; stanno lì e ti fissano, e ti fanno arrabbiare perché non vuoi essere fissato, perché sei in un momento particolare e vuoi rimanere solo con il tuo dolore, e invece loro stanno lì: si aggiustano i capelli, poi gli occhiali, e mentre aspettano il ritorno della madre ti guardano. E tu ti incazzi. I bambini, l’abbiamo già detto, sono estremi. Prima si spaventano per il rumore di una bottiglia che scoppia, poi sorridono divertiti.
La cosa più interessante, però, non è né il punto di partenza – il bambino, appunto – né il punto d’arrivo – l’adulto; la cosa più interessante è quello che unisce questi due punti, il viaggio da una forma all’altra, da un insieme di idee a un pugno di convinzioni (magari sbagliate). Chi cresce deve attraversare un mutamento, che comincia prima di tutto nella testa. Fabietto rimane fondamentalmente identico: gli stessi capelli, lo stesso orecchino, lo stesso modo curvo di stare in piedi e di affrontare le persone. Ma cresce, e cresce visibilmente: gli occhi conservano il loro taglio, ma si chiudono con una saggezza diversa; la voce esce fuori un po’ più lenta e impastata, e le cose importanti, di colpo, sono altre.
Essere adulti, forse, significa proprio questo: imparare a convivere con il dolore, non allontanarlo; imparare a fronteggiarlo e a provarlo con giudizio. Perché anche quello serve. E insomma, il gioco non si ferma: continua. Cambia la musica di sottofondo, e alla gioia di fare, tipica dell’infanzia e dell’adolescenza, si aggiunge la malinconia per il passato, per ciò che è stato e che non potrà più essere. Il cinema di Sorrentino è una guida, un atlante. Titolo: come diventare adulti.