ARTICOLO n. 39 / 2023

DESERTO VERDE

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini, che ringraziamo. Il volume sarà in libreria il 17 maggio.

Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci. 
La scienza evolutiva e le immagini della religione si sovrappongono, rigirano tra le mani lo stesso oggetto scuro, sbozzato, come un manufatto ultraterrestre o una concrezione lavica nel quale pare di scorgere un volto dalla bocca spalancata. Siamo scimmie spaventate, il giardino dell’Eden è sbarrato alle nostre spalle, una spada fiammeggiante ci separa dal riposo e dall’abbraccio universale, la coscienza della nostra nudità ci esalta e ci umilia. Cerchiamo di leggere il mondo e vi proiettiamo speranze e minacce, sogni di comunione la cui dolcezza sbiadisce al risveglio, orrori e crudeltà che ci attirano come falene al fuoco. Gli uccelli cantano, il buio ci osserva. Avanziamo incerti su gambe malferme e ai bordi dei nostri desideri avvertiamo la pressione di tutto quell’oltre, lo popoliamo di demoni e dei. Ragazze emergono dalle nubi e ci tengono le braccia. Scarpette rosse ci fanno ballare fino a sanguinare e scavare una tomba nel terreno. Mozziamo la testa ai bambini e la chiudiamo in una cassa dove continuano a chiamarci con un pigolio. Facciamo l’amore con lupi e serpenti d’acqua. Infondiamo la nostra vita in un oggetto, lo riveliamo a chi lo spezza sotto il tacco. Ci svegliamo al mattino per scoprire che il nostro amore è stato portato via, o che lo abbiamo ceduto noi stessi al re della morte per ottenere un giorno in più sotto il sole.
I processi di razionalizzazione individuali e collettivi ci fanno incanalare le infinite varianti, tutte vere, tutte false, in percorsi lineari. La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? 
Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi. 
Una storia deve essere tale per essere raccontata, eppure non è solo tutto ciò che in essa è taciuto a darle spessore autentico, ma anche l’infinita tempesta delle possibilità alternative, i suoi tradimenti e rovesci, l’irruzione di tutto ciò che pare contraddirla, come un viso angosciato allo specchio che si veda rispondere da un sorriso nel riflesso. 
Le definizioni aiutano e al tempo stesso limitano e uccidono. Si costruiscono templi solo per scoprire che alla fine il fuoco del sacrificio è sprezzato dal dio, che nel frattempo è volato via.


Edoardo Rialti, Dario Valentini

L’uomo davanti a lei era bendato, non poteva vederla. Aveva una mano legata alla sedia, era troppo distante, non poteva colpirla. E l’interrogatorio andava avanti da ore, senza nessun esito, solo quattro parole ripetute costantemente, ossessivamente, come un mantra, come una verità. La tenente Soledad Valverde si accasciò – il viso sul tavolo di plastica verde scheggiata, il contatto fresco di quella superficie sulla guancia – e si prese la testa tra le mani. Non fu che un attimo, si tirò su, si massaggiò le tempie. Aveva male alla testa e bisogno di bere, ma la bottiglia che aveva accanto – anch’essa di plastica, riutilizzata mille volte e probabilmente ormai tossica – era vuota.

I suoi compagni sarebbero stati ancora dall’altra parte dello specchio spia, a guardarla, a ridere dei tentativi di interrogatorio che con tanto accanimento aveva cercato di portare avanti? O se ne erano già andati e ora si stavano ubriacando nella cantina più vicina, con qualsiasi cosa riuscissero a trovare, qualsiasi cosa si potesse distillare dalla selva?

Tutte quelle ore non erano state altro che uno spreco di energia, di aria ed elettricità – la lampadina che illuminava debolmente eppure ferocemente quella sala sotterranea sporca e spoglia, l’impianto di aria condizionata quasi al limite delle forze, era quasi meglio ai tempi del vecchio ventilatore a pale, ma ormai non funzionava più, pendeva dal soffitto, inutilizzato, con quella che si sarebbe detta mestizia – e uno spreco anche delle sue, di forze. Non aveva funzionato. Per quanto le ripugnasse, alla fine di quella giornata, e mancava poco ormai, non avrebbe avuto altra scelta che affidare il prigioniero ai suoi compagni. La tenente María Mendoza avrebbe riso di lei, era l’unica altra donna della squadra, e la più feroce di tutti, donne e uomini. Sarebbe stata lei a incaricarsi delle torture, avrebbe preteso che Soledad assistesse, che imparasse il mestiere una buona volta, come diceva, con un sorriso splendido – perché María Mendoza era davvero bellissima – che si torceva in un ghigno, o almeno così sembrava a lei, Soledad. Era lei sola a vedere quello che vedeva, a incarnare la solitudine che sua madre le aveva impresso addosso nel nome? Ma questa soddisfazione no, non gliel’avrebbe concessa. Avrebbe chiesto il trasferimento per l’interno della selva, per il minuscolo villaggio di Las Luces, dove era cominciato tutto. Al comando temporaneo avevano bisogno di unità e più volte le avevano fatto capire che la sua domanda, se l’avesse presentata, sarebbe stata accolta con procedura immediata, forse con te parleranno, le aveva scritto il capitano Morales dall’accampamento. Forse anche io, non aveva scritto, potrei parlare di nuovo con te, se tu venissi qui, se tu tornassi, Soledad.

Davanti a lei, l’uomo – il suo nome era Elías Hayes – restava immobile come era sempre stato, un braccio appoggiato al tavolo, ripiegato davanti a sé, l’altro trattenuto dai legacci. Anche il sudore gli colava lentissimo sul viso. Era come se avesse rallentato di proposito la circolazione del sangue, ma come era possibile una cosa del genere? Il fascicolo che la squadra – di cui oggi anche lei, Soledad, faceva parte – aveva iniziato a compilare tanto tempo fa diceva che Elías Hayes praticava la meditazione vipassana. Forse era quella la ragione. La benda nera e sudicia che gli copriva gli occhi lasciava vedere tratti bruniti dal sole. Aveva più di sessant’anni, diceva ancora il fascicolo, lo confermavano i capelli grigi in cui spiccava ancora solo qualche ciocca spessa e nera. Era tarchiato e doveva essere più forte di quanto non sembrasse. Soledad rilesse le frasi per quella che le sembrò la millesima volta, avrebbe potuto ripetere il fascicolo a memoria se avesse voluto.

Elías Hayes era stato diplomatico per gli Stati Liberi all’epoca della loro fondazione, trenta o trentacinque anni prima, quando pezzi e pezzi di America Latina si erano strappati dalle nazioni a cui appartenevano per fondersi insieme, e sogni di libertà e giustizia sociale avevano accompagnato quella come tutte le altre rivoluzioni del passato. Trentacinque anni dopo, ne rimaneva ben poco, questo Soledad lo sapeva bene, questo non compariva nel fascicolo di Hayes, che era stato aggiornato al “caso Quinn”. Dopo la morte improvvisa della moglie Rocío in un’aggressione in Sudafrica, Hayes aveva lasciato l’incarico ed era diventato senza fissa dimora. Aveva molti amici in Europa, nei paesi dove era stato distaccato sia prima che dopo la nascita degli Stati Liberi, in Spagna soprattutto e in Francia. Poi aveva trascorso qualche anno in India, forse addirittura in Birmania. Di tanto in tanto veniva avvistato e segnalato, anche se il fascicolo era incompleto, e la ragione delle segnalazioni non era riportata. I fascicoli erano sempre incompleti in quel modo, e negli anni, Soledad aveva imparato a decifrare le assenze, il vuoto, ciò che non veniva messo nero su bianco. In questo caso, però, non ci riusciva, o non completamente.

Le segnalazioni si infittivano dalla data di pochi mesi prima, quando improvvisamente e senza motivo apparente Elías Hayes era rientrato in patria e si era stabilito nel villaggio di Violeta, nelle case di lamiera o baracche che sorgevano a poca distanza dall’edificio della capitanía dove si trovavano adesso. Aveva accettato l’invito di un amico antropologo, Ian Medina Quinn, che da qualche anno si era stabilito a Violeta, anche se conduceva le sue esplorazioni soprattutto nella zona di Las Luces, nell’interno della regione. Tra i due c’era una qualche differenza d’età, ma anche una solida amicizia. Stando al fascicolo, Hayes e Medina Quinn si era conosciuti quando Hayes era in carriera diplomatica in Spagna. Medina Quinn, la cui madre si era ritrovata in mano il passaporto degli Stati Liberi per lo ius sanguinis, aveva lavorato qualche anno in Ambasciata mentre completava gli studi. Poi Hayes era ripartito per nuova destinazione e Quinn aveva proseguito il percorso accademico, fino a diventare un’autorità nell’ambito della ricerca su quelli che allora si chiamavano, con una terminologia che Soledad non poteva impedirsi di trovare razzista, indigeni non contattati. Negli anni, il campo d’indagine di Ian Medina Quinn si era ristretto a poco a poco, a mano a mano che gli ultimi esponenti delle tribù amazzoniche che avevano evitato, o coscientemente rifuggito dopo pessime esperienze risalenti magari a qualche secolo prima, l’incontro con l’Occidente in una qualsiasi delle sue molte forme, erano entrati inevitabilmente in contatto con il mondo tecnologico avanzato, il mondo di cui anche lei, Soledad, faceva parte, nonostante tutto. E nonostante tutto in quella stanza, fuori da quella stanza, nella capitanía, i villaggi di Violeta e di Las Luces ma anche la stessa capitale, le sembrassero nient’altro che rovine, o forse reliquie sopravvissute di una civiltà sul bordo del collasso. Pochi paesi avevano riconosciuto gli Stati Liberi, c’era stato l’embargo, certo, ma… Soledad si scrollò quei pensieri di dosso, si costrinse a continuare, ancora una volta, la lettura. Doveva esserci, in quel dannato fascicolo, qualcosa, una traccia, una pista, un enigma che non aveva ancora scovato.

In un articolo molto discusso, uscito diversi anni prima su uno dei principali quotidiani del paese, La Voz que es nuestra, Medina Quinn aveva sostenuto che, per quanto la fondazione degli Stati Liberi fosse sembrata offrire, nei primi anni, speranze di sopravvivenza nei propri modi di vita per tutti gli indigeni dei nuovi territori – minacciati dall’industria estrattiva e da quella del legname, dal contagio culturale come dalle nuove malattie, dall’abbattimento di zone sempre più ampie di foresta amazzonica, dall’inquinamento delle acque, dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica già diventata semplicemente per tutti l’oggi, qui – ormai si poteva dare per assodato che le politiche del governo di Ciudad Dorada – perché così si chiamava, pomposamente, pensò Soledad, la capitale degli Stati, la città d’oro, come l’Eldorado sognato dagli antichi conquistadores, dai pazzi e dagli esploratori anche se quasi tutti la chiamavano semplicemente Dorada, come se fosse un’orata d’allevamento – non avevano più nulla di diverso da quelle di altri stati, del presente o del passato, alle prese con la stessa questione.

Medina Quinn non lo diceva apertamente, certo, il suo era un articolo scientifico e quasi tecnico, intessuto di dati e numeri, ma le conclusioni erano chiare. Per i non contattati, chiunque fossero, qualsiasi cosa veramente volessero, non c’era più spazio, non c’era più tempo, e dunque neanche speranza se anche questa deve per forza annidarsi in una piega dello spaziotempo piegato dall’oggetto che siamo noi, pensò Soledad sentendo ravvivarsi nella mente, con una fitta, i ricordi degli studi scientifici che avrebbe voluto proseguire presso l’Università di Dorada, e che aveva dovuto abbandonare quando suo padre era morto, investito per strada, e lei aveva intrapreso la carriera militare, per ritrovarsi in quella piega esatta, lì, in quella stanza, dopo ore di interrogatorio, davanti a quell’uomo. Elías Hayes, che doveva sapere che fine avesse fatto il suo amico Medina Quinn, dopo essere scomparso nella selva, Ian Medina Quinn e i suoi specchi, e che cosa c’entrassero, se davvero c’entravano qualcosa – perché per quanto i suoi superiori ne fossero convinti, a titolo personale Soledad Valverde si concedeva di dubitarne – con le misteriose apparizioni di luci in cielo che forse avevano dato il nome, decenni e decenni prima, al villaggio di Las Luces nelle profondità della selva e che ora, subito dopo l’arrivo dell’antropologo, e poi del suo amico, avevano ricominciato a infestare il cielo, terrorizzando gli abitanti e i loro animali.

Uno di quegli specchi, l’unico che era stato ritrovato nell’abitazione di Medina Quinn a Violeta, dove Hayes si era installato al suo arrivo, era davanti a lei, coperto da un panno, che Soledad sollevò. Era uno specchio antico, di fattura ottocentesca o forse ancora precedente, la tenente non avrebbe saputo dirlo, non sapeva niente di storia dell’arte. Lo specchio doveva essere di bronzo. Con qualche cautela Soledad vi cercò il riflesso del suo viso. La superficie che avrebbe dovuto essere riflettente appariva invece completamente oscura, brunita più del metallo dell’incastonatura, e la luce vi annegava. Con una rapidità dettata da un ingiustificato, si disse, timore, Soledad rimise il panno al suo posto. Da dietro l’altro specchio, lo specchio spia, le giunse qualcosa all’udito, un rumore, forse i suoi compagni erano tornati, forse solo María, e si stava godendo lo spettacolo. Era ora di riprendere l’interrogatorio.

I fatti, apparentemente – Soledad li ricapitolò per l’ennesima volta a beneficio del suo muto, passivo interlocutore – erano questi.

Dopo l’uscita dell’articolo, e le polemiche che aveva suscitato, Ian Medina Quinn era stato oggetto di aggressioni, in uno o due casi anche molto violente, da parte di gruppi estremisti. Cogliendo – o forse avendo provocato? – questo meraviglioso pretesto, con la scusa della sua sicurezza la capitanía generale della regione lo aveva messo sotto discreta sorveglianza, più discreta e più intensa di quanto non fosse già la vigilanza a cui era da tempo sottoposto. Da parte sua, il governo centrale aveva avanzato all’illustre studioso straniero – Quinn aveva la doppia cittadinanza, degli Stati Liberi per via materna ma anche europea, per parte di padre – l’offerta di una scorta, che era stata rifiutata, perché avrebbe interferito con le ultime possibilità di portare avanti gli studi a cui aveva dedicato gli anni e la vita. Invece, Quinn aveva chiesto e ottenuto di potersi trasferire a Violeta, che era poco più di un avamposto militare, e qualche casa sovrannumeraria, nel midollo stesso della selva, e nelle vicinanze dell’ancora più interna aldea di Las Luces, l’ultimo brandello di terra degli stati dove sembrava che gli indigeni non contattati ancora, forse, sopravvivessero in libertà.

La battaglia a cui Ian Quinn intendeva dedicare ora tutte le energie rimaste mirava alla creazione di un’area naturale ad accesso interdetto che proteggesse la zona da ogni ulteriore incursione civilizzatrice, consentendo così, forse, agli invisibili esseri umani che amava – se studium vuol dire: lungo amore – di un amore non ricambiato da decine di anni di andare avanti ancora, almeno fino alla fine della sua vita, nel modo a loro noto di vivere, e traendone per sé il beneficio egoistico di potersi continuare a dedicare – ancora: fino alla fine – all’unica cosa che aveva sempre fatto o voluto fare: studiare la loro esistenza. Medina Quinn non aveva famiglia, né moglie né figli, e neanche amanti, a quanto diceva il fascicolo. Sembrava completamente disinteressato a qualsiasi essere umano avesse già avuto contatti con la civiltà, o, riportava il fascicolo citando una battuta ironica dell’illustre antropologo, “avesse avuto la disgrazia di nascervi”.

A Violeta, Ian Medina Quinn aveva trovato pace, almeno in apparenza. Occupava una casa concessa dal governo al limitare del piccolissimo agglomerato, sulla frontiera estrema della selva che qui sprigionava tutta la sua incandescenza. Pescava e cacciava come tutti, compresi i militari della capitanía, aveva adottato un paio di cani randagi ma li lasciava vagare liberi, a rischio che venissero divorati dai giaguari, e di tanto in tanto si faceva vedere nell’unico minuscolo spaccio dell’aldea per comprare sapone o altri generi, alimentari e non, di prima necessità. Praticava quotidianamente la selva, prima con qualche abitante del paese contrattato come guida, poi sempre più spesso da solo, scriveva i suoi libri che pubblicava in Europa, dove era una sorta di celebrità – l’ultimo si intitolava Deserto verde – ma, in sostanza, non aveva più dato grattacapi. Se aveva avuto incontri, nel folto della selva, con indigeni non contattati, Medina Quinn non ne aveva fatto parola, e questo non sembrava da lui, per cui non restava che concludere, diceva il rapporto, che non fosse accaduto nulla di simile, se si escludeva la nota questione raccontata nell’ultimo documentario di Quinn, anch’esso intitolato Deserto verde, e per cui nel fascicolo si faceva riferimento a un altro dossier, che approfondiva dettagliatamente la vicenda. La sorveglianza sull’inquieto, ora non più così inquieto, studioso si era allentata, o almeno era entrata in sonno.

Forse per questo l’invito improvvisamente rivolto da Ian Medina Quinn a Elías Hayes, l’arrivo di questi a Violeta ospite dell’antico amico, e le spedizioni che i due avevano intrapreso nella selva con rinnovato vigore, avevano risvegliato attenzione e sospetti. Quinn doveva aver pensato che l’ex diplomatico Hayes fosse ancora dotato di contatti ed entrature che avrebbero potuto facilitare il suo progetto di istituzione dell’area protetta, aiutandolo a convincere della bontà dell’idea alti esponenti della capitale, magari la stessa ministra delle Foreste, che era stata allieva di Hayes nei corsi che questi per un certo periodo aveva tenuto a Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università di Dorada. Per questo, probabilmente Ian Quinn aveva invitato Hayes a vedere per conto proprio cosa stava accadendo – se è possibile vedere una scomparsa, in questo caso la scomparsa dei peraltro invisibili non contattati – sperando di suscitare in lui una risposta emotiva, fondamento di una successiva reazione politica. O forse, semplicemente, una vita come la sua, un’intera vita trascorsa in solitudine – o quasi, pensò Soledad, che aveva già completato più volte la lettura del fascicolo, aveva visto il documentario, Deserto verde, e sapeva di Quinn molto più dell’estensore di quelle note all’epoca in cui erano state scritte – cominciava a pesargli, e come Robert FitzRoy, il comandante dell’hms Beagle decenni e decenni prima, cercava la compagnia di un futuro Darwin nel viaggio verso le sue personali Galapagos, anche se qui a parti invertite. Fatto sta che Elías Hayes aveva prontamente accettato l’invito del suo amico, e pagato una cifra non indifferente – forse esorbitante sarebbe stato un aggettivo più appropriato – per un trasporto privato a Violeta in elicottero. Era stata lei stessa, Soledad Valverde, lo ricordava, ad accoglierlo all’arrivo, dato che l’unico eliporto nel raggio di chilometri era quello militare della capitanía.

A solo poche settimane dall’arrivo di Elías Hayes, lui e Ian Medina Quinn, l’ex diplomatico e l’antropologo, si erano già inoltrati più volte nella selva; e l’ultima volta senza guide, con zaini provviste e tende, diretti a Las Luces per via di terra, il che già di suo era una follia, dato che era molto più rapido e sicuro spostarsi tra i due villaggi per via d’acqua. Las Luces era più all’interno della selva di Violeta rispetto alla riva del Victor Jara, il grande fiume della regione, ma c’era un affluente con sufficiente portata d’acqua, El Infiel, che raggiungeva l’insediamento.

Al villaggio, i due, nonostante la grande esperienza di Quinn, non erano mai arrivati. Da quella spedizione, Hayes era rientrato da solo. Che ne era stato di Ian Medina Quinn? Era rimasto nella

selva, era morto, era stato ucciso? Dagli abitanti di Las Luces, dalle misteriose, forse aliene, luci in cielo che recentemente avevano rinnovato con vigore la propria antica e funesta presenza, dallo stesso Hayes resosi di colpo assassino per un movente ancora ignoto; o dai Victor Jara, i terroristi che ultimamente erano dappertutto e che avevano preso lo stesso nome del grande fiume, forse per segnare la loro appartenenza alla regione, forse per farsi gioco dei funzionari del governo degli Stati Liberi che, nei primi anni dopo la creazione della nuova realtà politica, avevano sparso a mani piene sulla mappa della zona i nomi delle più belle voci del secolo trascorso, assassinate o indotte al suicidio dalle mille dittature del continente, come per farle risuonare di nuovo, finalmente libere. È sempre la stessa musica invece, sembravano dire i Victor Jara scegliendo quel nome, non è cambiato nulla, siete come loro. Forse era proprio ai Victor Jara, che sostenevano di proteggere gli ultimi nascondigli dei non contattati con le armi, che si era unito Medina Quinn, ed era questo che Soledad Valverde, e la squadra di cui faceva parte, dovevano scoprire.

Da quando era ritornato, ed era stato prelevato e accompagnato alla capitanía, da quando era iniziato l’interrogatorio sulle sorti del suo amico, Elías Hayes, però, non aveva fatto altro che ripetere le stesse quattro parole: è diventato pensiero vivente.

Solo questo. Quattro parole, o sette.
Ian Medina Quinn è diventato pensiero vivente.
Come se fosse possibile, come se avesse un senso.
Ian Medina Quinn –

ARTICOLO n. 93 / 2024