ARTICOLO n. 3 / 2025

DECRESCITA TENNISTICA

Dormire in auto, quando arrivi a un certo punto, quale che sia stato il tuo ruolo sociale, è una possibilità. E in fondo, avere almeno un’auto, al posto di una panchina o di un marciapiede, è già qualcosa. La scena più convincente di Challengers, il film di Luca Guadagnino, è quella in cui il personaggio di nome Patrick Zweig – tennista in disarmo ma con ancora qualcosa da offrire – dorme in auto, nel parcheggio del club nel quale deve giocare il primo turno di un torneo del circuito Challenger. Il circuito Challenger prevede tornei professionistici che potremmo definire la serie B del tennis. Zweig dorme in auto perché non ha abbastanza soldi per una stanza nel motel accanto al club. Il film, per me, inizia e finisce lì, in quella breve sequenza. Non ho troppa voglia di parlare del film, tale è la distanza tra la mia visione del mondo – chissà cosa sarebbe stato un film di Frederick Wiseman o Chantal Akerman ambientato nel circuito tennistico dei Challenger – e quella patinata e fashion di Guadagnino. Ma, certo, da scrittore, non posso fare a meno di notare alcune forzature del soggetto e della sceneggiatura scritta da Justin Kuritzkes. Per esempio, l’amico-avversario di Patrick Zweig, Art Donaldson, gioca quel torneo Challenger poiché ha bisogno di fiducia dopo un infortunio, in vista dell’imminente US Open, l’ultimo torneo del Grande Slam che manca al suo palmares, l’ultimo torneo che sente di poter vincere, spinto soprattutto dalla moglie-allenatrice-manager, Tashi Duncan. 

Ora, nella realtà, nessuno tra i partecipanti di un qualsiasi torneo Challenger, pochi giorni prima dello US Open, giocherebbe un Challenger – nel film il torneo di New Rochelle – pensando di allenarsi per vincere il torneo di New York. Nemmeno uno che tre titoli slam – Australian Open, Roland Garros e US Open – li ha vinti davvero, come Stan Wawrinka, cui è sfuggito solo Wimbledon, per completare il Career Grand Slam. Wawrinka sa che non vincerà mai più uno slam e nemmeno ci andrà vicino: anche in questa consapevolezza consiste il suo talento esistenziale ancor prima che tennistico. Wawrinka ha vinto tre titoli del Grande Slam nell’epoca di Federer, Nadal, Djokovic e, in parte, Murray. Nelle tre finali vinte, Wawrinka ha superato una volta Nadal e due volte Djokovic. Ma da alcuni anni continua a giocare, accettando sconfitte dolorose, come in un quasi Challenger, la finale del torneo di Umago, Croazia, un ATP 250 sfuggitogli per pochi punti, nel 2023. Durante la premiazione, Wawrinka ha iniziato a piangere, scusandosi di quelle lacrime. Non piangeva soltanto per la sconfitta. Piangeva perché, a trentotto anni, amava ancora il tennis, e nel 2025, a quarant’anni, è ancora lì, sebbene non abbia alcuna chance di vincere uno Slam e forse nemmeno un torneo minore.

La stagione tennistica 2025 è appena iniziata. Le prime settimane di tennis ad alto livello sono a Melbourne, per gli Australian Open. Il vincitore guadagna 3.500.000 euro. Chi perde al primo turno del torneo guadagna 79.300 euro. Ma chi non ha una buona classifica, per arrivare a giocare il primo turno, partecipa alle qualificazioni, un torneo nel torneo. Chi perde le qualificazioni degli Australian Open ritorna a casa, o può scegliere di giocare, dal 13 al 19 gennaio 2025, il Challenger di Bangkok. Certo, i guadagni, precipitano. Chi perde al primo turno del Challenger di Bangkok guadagna 1.045$. Chi vince il torneo incassa 14.200$. Insomma, sotto l’aspetto economico è meglio essere eliminati al primo turno degli Australian Open, una singola volta, che vincere per cinque anni di fila il Challenger di Bangkok.

Sarà questo il motivo che ha spinto il talentuoso ma discontinuo tennista kazako, Aleksandr Bublik, a dire: magari a trentasei anni giocherò il Challenger di Bangkok, ma spero di non arrivarci.

Ignoro se l’organizzazione paghi il viaggio e l’hotel ai giocatori, o almeno, a tutti i giocatori. 

In alcuni Challenger è previsto, in altri no.

Dal 27 gennaio al 2 febbraio 2025 si gioca un Challenger in Germania, a Coblenza. 

Chi perde al primo turno guadagna 1.515$. Chi vince il torneo guadagna 20.630$.

È probabile che l’organizzazione tedesca paghi il viaggio e il pernottamento. Siccome a volte non accade, un tennista con pochi soldi a disposizione dovrebbe partire in treno, magari con un treno notturno così da risparmiare una notte in albergo. O viaggiare in autobus, incastrando gli spostamenti con lo stesso scopo.

E tuttavia, anche per accedere a un torneo del circuito inferiore, se un giocatore non ha una classifica sufficiente, è necessario passare attraverso le qualificazioni, ovvero giocare due o tre partite prima di entrare nel tabellone principale e affrontare il primo turno di un Challenger. 

Ebbene, molto spesso, chi perde la prima partita delle qualificazioni di un Challenger guadagna una somma a malapena sufficiente per un paio di notti in un bed and breakfast. Non solo, ma se conteggiamo il fatto che abbia dovuto pagare il viaggio, ecco che un tennista professionista, ipotizziamo, il numero trecento della classifica mondiale, perde soldi. 

Secondo alcuni è un fallimento essere il numero trecento, eppure è incredibile pensare che su otto miliardi di abitanti, questa persona sia in quella posizione, e vi sia arrivata dopo un lungo allenamento incominciato da bambino.

Raggiungere la trecentesima posizione, per quanto possa essere considerato un fallimento, è una cosa seria e certificata dai risultati ATP, conseguiti prendendo a pallate l’avversario che sta dall’altra parte della rete, o subendo la stessa sorte.

Nel tennis, per fortuna, parla il campo. 

Essere il numero trecento al mondo non è sostenibile sotto l’aspetto economico.

Essere il numero duecento della classifica? Cambia poco, anzi, potrebbe essere peggio. 

Una decina d’anni fa, il tennista britannico Joshua Jake Goodall, nato nel 1985, ha smesso di giocare pochi giorni prima di compiere trent’anni, dopo undici da professionista. A un certo punto ha giocato in Coppa Davis per la Gran Bretagna ed è stato il numero due britannico, dietro ad Andy Murray. Durante la sua carriera ha raggiunto la posizione numero 189 in classifica e giocato per lo più tornei Challenger. In undici anni di carriera ha vinto 428.956$. Arrivato a trent’anni, è stato sincero, ammettendo di smettere non per problemi fisici o per assenza di motivazioni: era soltanto una questione economica.

Si dirà, è normale, Goodall ha giocato tornei Challenger.

L’anno seguente il ritiro di Goodall, il tennista russo Dmitrj Tursonov, oggi allenatore, stazionava attorno alla trentesima posizione della classifica mondiale e di lì a poco sarebbe arrivato al numero venti. Sette tornei vinti – di livello medio – e tanti ottimi piazzamenti, eppure, nonostante i guadagni molto più significativi rispetto a Goodall, Tursonov lamentava quanto fosse difficile sostenere la propria attività sotto l’aspetto economico.

A differenza di un calciatore, un tennista stipendia l’allenatore, il preparatore atletico, il fisioterapista; se aggiungiamo i viaggi e gli alberghi pagati allo staff, ecco che perfino un giocatore della classifica di Tursonov, in mancanza di sponsorizzazioni significative, può faticare.

Ma se arrivare nelle prime posizioni della classifica è complicato, rimanerci è ancora più difficile. Non è solo una questione di talento tecnico e mentale: occorre che il giocatore si trasformi in un marchio. Jannik Sinner, oltre a raggiungere risultati sportivi straordinari, è stato abile nel creare un’aura positiva attorno a sé, tale da attirare aziende interessate al pacchetto Sinner in quanto giocatore e, al contempo, marchio.

Abile, tanto più se pensiamo che le aziende non abbandoneranno il tennista italiano, nemmeno davanti a un’eventuale – e ingiusta – squalifica a causa di una ridicola contaminazione doping. 

Del resto, Sinner è, a sua volta, un’azienda: due allenatori, un preparatore atletico, un fisioterapista, un osteopata, un mental coach, due manager. Un team di lavoro senz’altro efficiente e costoso, ma molto importante per conseguire risultati eccezionali qualora il lavoro in team sia associato al talento del giocatore. Insomma, pagare per migliorare il gioco, la preparazione atletica, la tenuta mentale, l’alimentazione, i contratti pubblicitari; tutto vero, certo: ma pagare, anche, per non sentirsi solo.

Una decina d’anni fa – l’ultimo aggiornamento del mio file è datato 29 novembre 2017 – avevo iniziato a prendere appunti e a scrivere uno dei vari libri poi interrotti. Si intitolava Il re del Challenger, era la storia di un tennista trentottenne – senza più allenatore, preparatore atletico, fisioterapista –  con un passato quasi glorioso ma in grande crisi economica-esistenziale a seguito di una vita dissoluta. Dopo il divorzio, il tennista, ridottosi a giocare tornei Challenger, aveva ricevuto proposte da un’organizzazione criminale per perdere un match contro il numero 500 del mondo, un ragazzo di diciassette anni, in ascesa. Il protagonista non aveva mai sentito nominare lo sfidante; del resto, non aveva neppure mai giocato contro altri avversari del circuito Challenger, e questo lo inquietava, poiché se a un livello più alto sapeva cosa aspettarsi, a un livello inferiore ciò che si muoveva al di là della rete era un’incognita.

Il protagonista, perdendo l’incontro, avrebbe guadagnato il triplo rispetto alla cifra assicurata dalla vittoria nel torneo. Nel frattempo, la tentazione gli si era presentata in modi sempre più raffinati: vincere il primo set ma perdere gli altri due, così che le scommesse live, alla fine del primo set, sulla vittoria finale del diciassettenne, sarebbero state molto ben pagate; e poi richieste di perdere uno specifico game, e poi richieste di perdere i primi due punti del settimo game del secondo set, e insomma, la sensazione che ogni suo gesto fosse governato da un meccanismo oscuro, di cui conosceva soltanto la voce telefonica corruttrice, trasformatasi in voce interiore: perfino durante il cambio di campo, seduto sulla sedia a sorseggiare acqua fresca, il protagonista si sentiva manovrato, dentro un grande allestimento. Be’, è evidente che una solitudine di questo tipo, così profonda, sia molto meno accattivante del triangolo amoroso di Guadagnino. 

Tra l’altro, il tennista in disgrazia era impoverito e indebitato, indebitato e colpevole secondo il doppio significato della parola tedesca – Schuld/Schulden – che unisce debito e colpa: colpevole per il solo fatto di essere indebitato. Il protagonista, se scoperto dai vertici del tennis professionistico, sarebbe stato squalificato in ogni caso, poiché non aveva subito avvisato l’ATP del tentativo di accordo illecito.

Nel testo intitolato L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano, contenuto all’interno di Tennis, tv, trigonometria, tornado, dedicato al tennista statunitense Michael Joyce, David Foster Wallace sottolineava che, giunto a un certo punto – 22 anni – e a un certo livello – buono ma non eccelso – Michael Joyce non avesse comunque più scelta, poteva soltanto continuare, e questo era, al contempo, una fortuna e una sfortuna.

Foster Wallace aveva scritto quel testo nel 1995, e nonostante negli anni Novanta fossero già ben presenti i segnali di quanto viviamo, la situazione, all’epoca, era, in fondo, quasi rassicurante.

Infatti, nel tennis e non soltanto, ci troviamo in un contesto per cui pochi, pochissimi, guadagnano davvero tanto, al contrario di una massa di persone che fatica. 

Sinner, per esempio, tra ottobre 2024 e novembre 2024, giocando due tornei, ha guadagnato quasi undici milioni di dollari: sei milioni al 6 Kings Slam, esibizione in Arabia Saudita, e quasi cinque milioni con la vittoria alle ATP Finals di Torino. 

Nessun moralismo e populismo da parte mia, ma la sproporzione tra chi è in vetta e chi è cento, duecento posti più in basso è davvero abissale. 

Ed è davvero abissale anche la distanza tra coloro che sono ai vertici della classifica adesso, e chi era ai vertici vent’anni fa. Il tennista statunitense Andy Roddick, numero uno nel 2003, ha sottolineato, dopo la vittoria di Sinner al 6 Kings Slam, che il tennista italiano ha vinto, in tre giorni, il 25% di quanto Roddick ha guadagnato in tutta la carriera.

Sabotare il circuito da dentro è possibile, ma dopo un po’ il sistema stesso ti espelle e se non ti espelle ti neutralizza, ti compatisce rendendoti innocuo. 

Un tennista che da anni cerca di sabotare il circuito è il francese Benoît Paire. A volte il suo atteggiamento in campo è irritante, e se non fosse ormai noto il suo approccio rilassato, quasi autolesionistico, verrebbe da chiedersi: ma gioca per perdere?

Nel 2021, a trentadue anni, dopo aver perso al primo turno del torneo di Acapulco, si era dichiarato felice: incassava diecimila dollari e si godeva il Messico, ancora per qualche giorno. Desiderava soltanto uscire dalla bolla tennistica il più in fretta possibile. Giusto per rientrarne pochi giorni dopo, a Miami, in un altro torneo, e perdere al primo turno. Certo, continuando a perdere al primo turno, finisci nel circuito Challenger, a Coblenza, non a Miami.

Ma il re del sabotaggio, o meglio, della decrescita tennistica è un altro tennista francese.

Johan Tatlot è nato nel 1996. Da juniores è arrivato alla numero cinque della classifica mondiale. Da juniores ha battuto un paio di volte Matteo Berrettini e, soprattutto, Daniil Medvedev.

Tuttavia, da professionista non è riuscito a raggiungere la duecentesima posizione in classifica. 

Stanco di giocare i Challenger, tantomeno voleva scendere ancora di livello, nel circuito ITF, la categoria più bassa del tennis professionistico, la categoria che un tempo si chiamava Futures. Dal 2021, Tatlot ha fatto una scelta drastica: gioca soltanto in Francia in tornei appartenenti al circuito CNGT, Circuit National des Grands Tournois.

Nonostante la definizione da grandeur francese, i CNGT sono tornei regionali e interregionali. 

Di solito, gli iscritti sono sedici. In media, chi perde al primo turno guadagna circa 150 euro, chi vince il torneo 1500. Tatlot è diventato uno specialista di queste competizioni. A volte gioca soltanto durante il weekend, ma in estate può capitare di giocare un paio di tornei alla settimana, incassando di conseguenza. È un’atmosfera a metà tra un evento parrocchiale all’oratorio e una fiera di provincia organizzata dalla pro loco. Oltre ai soldi, uno sponsor locale offre un cesto colmo di prodotti alimentari. 

Nel circuito CNGT vai a giocare in comuni di quattromila abitanti, della Nuova Aquitania, o in una cittadina sulle Bocche del Rodano, o sulle Alpi dell’Alta Provenza, a 1600 metri d’altezza, o in Bretagna, ad agosto, sotto grandi nuvole bianche che fanno pensare alla propria vita come a qualcosa di più grande del tennis.

I campi, al coperto, sono in capannoni anonimi. Le piccole tribune montate per l’occasione accolgono una cinquantina di persone. A volte, tra una partita e l’altra, un gruppo di ragazzi suona cover, e una presentatrice ricorda l’offerta della concessionaria Renault che espone le proprie auto all’ingresso. A differenza dei tornei principali, che non prevedono più giudici di linea ma l’occhio di falco – ovvero il sistema elettronico di chiamata – qui, inutile sottolinearlo, ci sono ancora gli esseri umani.

Certo, con tutti i benefici o gli inconvenienti che ogni essere umano implica. 

E a proposito di esseri umani, c’è da chiedersi fino a quando Tatlot riuscirà a resistere in questi tornei che, in fondo, sono un’estensione necessaria, al ribasso, degli IFT, dei Challenger, e dei tornei principali. C’è da chiedersi fino a quando Tatlot salirà su un treno regionale senza provare rimpianto per un’altra vita. Forse, quando Tatlot smetterà di giocare i CNGT – ma visto il fisico e la tecnica potrebbe giocare a quel livello fino a quarantacinque anni – farà il maestro di tennis o l’allenatore. Oppure aprirà un bar, e con i gomiti appoggiati al bancone racconterà storielle del tipo, sai, quando ero ragazzo, da numero cinque del mondo, ho lanciato la pallina per battere, e la pallina era lì in aria, e il sole, a un certo punto, e niente.

ARTICOLO n. 2 / 2025