ARTICOLO n. 70 / 2024

DECOSTRUIRE IL PATRIARCATO CON IL BLACK METAL

intervista di marco de vidi

Un salotto curato, le pareti bianche, una famiglia abbiente come tante, madre, padre e figlia che si dedicano allo yoga, che mangiano cibo vegano, che si annoiano nella vacuità del loro benessere. Indossano tutti una maschera, i volti hanno sembianze aliene, le voci sono alterate e distorte: la normalità borghese assume una forma grottesca, esagerata, spietata. Aperta la tenda rossa, tutto avviene in un’unica stanza, in una sorta di kammerspiel iperreale e bizzarro: con l’irruzione dei Fag Fighters, un commando di terroristi gay in passamontagna rosa che terrorizza e tortura le sue vittime dopo averle interrogate sull’identità delle più importanti personalità non binarie polacche, la scena precipita ancor di più nell’ironia dissacrante, estrema, a tratti splatter.

Eccolo, il teatro di Markus Öhrn, il regista svedese di base a Berlino, che con Phobia, il lavoro presentato per la prima volta in Italia durante la Biennale Teatro a Venezia, ha dato forma scenica al mondo creato dall’artista e attivista Karol Radziszewski, che con le sue illustrazioni vuole riscrivere la storia queer del suo paese, la Polonia, in un atto di resistenza contro le politiche omofobe dei governi di estrema destra. 

«Ho visto i dipinti di Karol e gli ho chiesto se sarebbe stato interessato a realizzare una pièce in cui avrei provato ad animare i suoi personaggi», racconta Markus Öhrn. «Siamo partiti dalle sue storie e insieme agli attori lo abbiamo fatto accadere».

Lo spettacolo è nato grazie al Novy Teatr di Varsavia, con cui Öhrn collabora da diversi anni, esplorando nel suo modo provocatorio e personalissimo i temi della famiglia, dove ha anche portato in scena (stravolgendolo) un autore classico come Strindberg. Phobia ha esordito in Polonia a fine 2023, dopo le elezioni che hanno riportato al governo il liberale Donald Tusk. «Non abbiamo avuto nessun tipo di problema, di critica o di censura», spiega il regista, «perché tutti questi governi liberali di destra hanno bisogno di uno spazio in cui è permesso un po’ di tutto, per dire che non esiste la censura. E il Novy Teatr è uno di quei luoghi: hanno bisogno di quel tipo di produzioni, quindi sono fortunato a potervi lavorare».

A un certo punto, in Phobia compare l’alter ego dello stesso regista: Markus Öhrn alieno è in hotel, progetta il suo nuovo spettacolo mentre fa un’esilarante telefonata con la madre («Sì, mamma, sempre sangue e merda. No, non è colpa tua, mamma»). Accusato dai Fag Fighters di essersi appropriato furbamente, da straniero, di temi che non lo riguardano, il regista viene trucidato e smembrato, in un tripudio di urla e sangue finto. «Quella è la mia parte preferita, è l’esperienza più catartica che posso avere, quando io stesso vengo fatto a pezzi. Perché è una cosa che comprendo. Devo sempre capire la mia posizione come artista, di ogni cosa che faccio, di quando vado in un altro paese a occuparmi di un tema che è presente e che io affronto dalla mia prospettiva. Io arrivo qui in aereo, dico la mia, faccio il mio spettacolo e riparto. Tutto ciò è la versione artistica del colonialismo».

Il percorso artistico di Markus Öhrn comincia con il video, con l’installazione Magic Bullet, un lavoro che dura 49 ore e che mette in fila cronologicamente un secolo di censura, montando tutte le scene di film tagliate dai censori svedesi dal 1911 al 2011. La riflessione sulle dinamiche coloniali ancora esistenti è un tema che Öhrn affronta fin dall’inizio, con l’installazione video White ants, black ants del 2010, lavoro poi sviluppato con Bergman in Uganda, in cui mostra le reazioni del pubblico locale alla proiezione del film Persona. In We love Africa and Africa loves us i temi delle fantasie neocoloniali si intrecciano alle opprimenti relazioni famigliari, mentre nella «black metal opera» Bis zum Tod torna a esaminare, nel suo modo irriverente, la famiglia, il capitalismo, la pedofilia. 

Il suo stile originale e dissacrante comincia a piacere anche ai contesti più istituzionali, come nel caso del teatro nazionale di Stoccolma, che ha invitato Markus Öhrn a reintepretare un lavoro del celebre drammaturgo Lars Norén.

La musica è un aspetto importantissimo del lavoro di Markus Öhrn. In Phobia i brani originali suonati dal violoncellista Michal Pepol e dal pianista Bartek Wasik sottolineano le atmosfere comiche e grottesche dello spettacolo. In Azdora (ne parliamo tra poco), un contributo fondamentale è arrivato dalla direzione musicale di Stefania Alos Pedretti, cantante della band noise degli Ovo, che ha insegnato alle protagoniste a cantare in growl, le urla gutturali tipiche del metal. Markus è anche musicista e suona con un duo noise, chiamato Liikutuksia, insieme al fratello Linus Öhrn, cantante e chitarrista attivo in diverse band e collaboratore anche dei Marduk, una delle più importanti band black metal svedesi. 

È proprio a partire dal mondo del metal che Markus Öhrn ha sviluppato il suo approccio, estremo e provocatorio e sempre fortemente ironico. «Tutto ciò viene dalla mia fascinazione per il black metal», racconta. «I protagonisti di questo genere musicale si presentano con il corpse paint (un peculiare tipo di trucco in bianco e nero che fa apparire cadaverici e macabri i volti dei musicisti) e anche solo per il fatto di presentarsi in questo modo puoi diventare una persona diversa, e dunque puoi fare qualsiasi cosa tu voglia. È la stessa cosa che faccio a teatro, usando delle maschere. Per esempio, quelli che recitano in Phobia sono attori molto famosi in Polonia, che lavorano nel teatro classico e nel cinema. Io voglio creare uno spazio libero, che è davvero molto in connessione con l’idea di spazio libero che esiste nel black metal, in cui tu interpreti un personaggio, diverso da quello che sei veramente, puoi farlo e basta».

In questo modo, qualsiasi cosa avvenga sul palco può diventare anche un’affermazione politica, una presa di posizione.«Chi segue un genere come il black metal sa che tutto quel mondo è solo un gesto, una posa. Non si tratta della realtà. E la realtà, per me, non è mai il modo migliore per raccontare qualcosa. Preferisco raccontare una storia attraverso il filtro dell’arte o, ancora meglio, il filtro del corpse paint, che è il modo migliore per buttarsi fuori. È quello che ho cercato di fare qui, come in tutti gli altri miei lavori».

Questo linguaggio è diventato uno strumento utile per irridere e decostruire i concetti cardine della nostra società, dal mondo occidentale, da cui è così difficile immaginare una via d’uscita. «Io vengo da un minuscolo villaggio nel remoto nord della Svezia, da una famiglia di coltivatori di patate, un luogo dove nessuno si aspetterebbe che qualcuno possa fare l’artista», riflette Markus Öhrn. «Un mondo patriarcale in cui mio nonno era il capo, la persona a cui tutti si rivolgevano, e mia nonna era a sua disposizione. Con i miei genitori, anche se in modo più morbido, funzionava ancora allo stesso modo. Quando mi chiedevano se ero il nipote di mio nonno, io rispondevo: “No, sono il nipote di mia nonna, Eva Britt”. Perché era lei la persona che si prendeva cura di me. Non lui».

È questo il punto di partenza, il nucleo profondo da cui prende il via il percorso di Markus Öhrn, in un’incessante confronto e scontro con il villaggio in cui è cresciuto. «La mia pratica artistica, la mia intera vita, servono a guardare dentro tutto questo. Tutto quello che faccio come artista è una sorta di digestione della mia stessa educazione, un modo per capire meglio il mio vissuto. È quello che porto sul palcoscenico, ogni volta. Perché anche io sono il risultato di quella società patriarcale. Ho 51 anni, sono un uomo, faccio arte. Sto a delle regole, sono sempre collocato in una gerarchia. Sono anch’io parte di tutto questo. Ma sto cercando di distruggere, o almeno di analizzare la mia posizione in tutto ciò, e la posizione da cui provengo. È un processo che dura per tutta la vita». E poi aggiunge: «Con il mio lavoro voglio onorare mia nonna, che non è mai stata ascoltata, in tutta la sua vita».

La figura di Eva Britt, della nonna di Markus Öhrn, è al centro di uno dei suoi progetti più conosciuti, Azdora. Il lavoro, avviato nel 2015 a Santarcangelo quando l’allora curatrice Silvia Bottiroli invitò l’artista svedese in residenza, è diventato inaspettatamente longevo, tra i più rappresentativi dello stesso festival romagnolo. «È il lavoro più importante che io abbia fatto nella mia intera vita. E mi ha cambiato per sempre».

Per rendere omaggio a sua nonna, morta da poco, Öhrn decide infatti di coinvolgere una quindicina di signore della zona, anziane, legate alla casa e alla famiglia (l’azdora in Romagna era la colonna portante della casa), inizialmente senza svelare cosa avrebbero fatto. 

Truccandole con il corpse paint, le ha portate a realizzare performance che sono diventate sempre di più dei rituali di liberazione e catarsi, attirando un pubblico che si è sempre più affezionato al progetto. Le Azdora si sono esibite come band noise black metal, suonando un unico concerto e registrando un disco. In un’edizione hanno lanciato delle molotov all’interno dello Sferisterio, cantando un’inquietante ninna nanna, mentre in un’altra occasione hanno tenuto un confessionale, in cui il pubblico poteva raccontare di sé, in modo molto intimo, e chi era ritenuto all’altezza poteva venire tatuato da una delle Azdora. 

Nel 2019, le Azdora sono state invitate in Lapponia, nel villaggio della famiglia Öhrn, per dare un ultimo saluto, nel loro stile, a Eva Britt, lì sepolta. «Era come se il cerchio si fosse chiuso, per molti aspetti. Hanno incontrando il fratello di mia nonna, la mia famiglia. Le hanno reso omaggio sulla sua tomba», ricorda il regista. «Mancava ancora qualcosa però, un’ultima uscita, davanti a un pubblico».

È così che, lo scorso giugno, le Azdora sono arrivate a Stoccolma, alla Bonniers Konsthall, dove nella mostra Requiem för Eva Britt erano raccolti tutti i materiali legati a questi anni di progetto, immagini, foto, video. «Loro si sono viste per la prima volta in azione», racconta il regista, «ed erano commosse, perché non si erano mai guardate prima come Azdora». Il loro compito era di distruggere tutti i materiali presenti nella galleria, in un atto di saluto potentissimo e liberatorio, in quella che forse potrebbe essere il capitolo di chiusura di un progetto che si è rivelato quanto mai fecondo e illuminante.

«A Stoccolma, moltissime persone hanno potuto conoscere questa storia», racconta Markus Öhrn. «E improvvisamente, tutto questo non riguardava più Eva Britt, mia nonna, ma tutti si sono messi a parlare dei propri ricordi, sulle loro nonne, madri, sulle donne in casa. Tutti abbiamo un’idea un po’ romantica di una persona a cui siamo così legati, ma non le vediamo mai come persone. Con Azdora è successo».

Come ha spiegato introducendo la performance al pubblico svedese, «quando abbiamo cominciato il progetto, inizialmente queste donne sono state messe in guardia, dai mariti, dai figli: non partecipate, sarete solo dei clown. E alla fine sono diventate l’oggetto del desiderio, con i mariti nel backstage a supportarle, a fotografarle. Forse anche un oggetto sessuale. E credo che sia una cosa che meritano, come meritiamo tutti di essere persone volute, desiderate, di essere al centro dell’attenzione, per quello che fai, per l’energia che trasmetti. Sono diventate loro le star, le protagoniste. Sono queste donne che hanno reso l’azdora, la donna che lavora in casa, qualcos’altro, molto di più. È qualcosa che non mi è mai accaduto prima, che non sapevo nemmeno che potesse accadere. Non è più Markus Öhrn. Sono loro. È mia nonna. Io sono solo la persona che ha trasmesso il messaggio, da mia nonna a loro. Le Azdora sono diventate un gruppo a sé, create da quello che mia nonna pensava e insegnava. E tutto questo è qualcosa che ti cambia la vita, come artista. Nella vita, posso realizzare un solo lavoro come questo. Che riposi in pace, Eva Britt».

ARTICOLO n. 93 / 2024