ARTICOLO n. 36 / 2021

D. H. Lawrence: Un canone inesatto

Ricordo molto chiaramente la prima volta che mi sono imbattuto in D. H. Lawrence come scrittore di qualcosa di diverso dalla fiction. A scuola stavamo studiando Amleto, e leggevamo le solite analisi critiche di A. C. Bradley, G. Wilson Knight e quella, un po’ più di moda, di Jan Kott (Shakespeare nostro contemporaneo). Ma il mio professore mi ha indirizzato anche su uno strano scritto di Lawrence intitolato Il Teatro, in Crepuscolo in Italia 1, che riguardava una rappresentazione di Amleto. Volevo ridurre il saggio alla stretta utilità dell’esame ma non sapevo cosa fosse né come doveva essere letto. Ovviamente era su Amleto (una «dichiarazione della più importante posizione filosofica del Rinascimento»)2, ma era anche una sorta di racconto, una reinvenzione di un’esperienza e di un luogo reali. I saggi critici che avevo letto fino a quel momento sembravano tutti degli esempi accurati e compiuti di ciò per cui li stavo leggendo, ovvero i compiti a casa. Eppure, in Teatro non c’era ombra dell’accuratezza forzata dei compiti a casa, e se ciò aveva un certo fascino, sollevava però dubbi sulla legittimità e sul valore dello scritto. Riflettendoci, quello che mi mancava, penso, era la monotonia istituzionalizzata che pervadeva così tanto la critica giunta a definire lo studio dell’Inglese all’università. Era davvero enorme il distacco, in termini di divertimento, tra i romanzi e le poesie e le cose che ci si aspettava di leggere su di loro. Almeno fino a quando, nella settimana dedicata a Thomas Hardy, Lawrence non irruppe di nuovo e improvvisamente non ci fu più alcun distacco. Prima sottolineava, nel suo modo piuttosto semplice, che i personaggi di Hardy «scoppiano inaspettatamente e fanno qualcosa che nessuno farebbe», e dopo faceva dichiarazioni metafisiche sul «grande potere tragico» di Egdon Heath. Ho letto Study of Thomas Hardy per la luce che riversava su Hardy ma anche come espressione rivelatoria del suo autore: tanto specchio quanto finestra. Fino ad allora la non-fiction esisteva o come una disciplina completamente diversa (la Storia, per esempio) oppure come una sorta di scaletta per aiutare a padroneggiare poesie e romanzi. Questi lavori di Lawrence rappresentarono il primo barlume di un rapporto più ambiguo tra critica e fiction, tra le necessarie restrizioni della disciplina accademica e la vita nomade della mente. (Lawrence si è spinto notoriamente oltre, rifiutando l’angusta vita della mente per «un credo nel sangue, nella carne, perché più saggi dell’intelletto»).

La combinazione di commento e scrittura creativa raggiunse la piena espressione – o, in lawrencese, «fu consumata» – in Classici americani che resta una delle imprese più selvagge di mappatura critica mai tentate – non solo dei maggiori rappresentanti di un canone nazionale ma dell’anima di un’intera nazione. Questi primi scritti su Amleto e su Hardy – relativamente precoci nella vita di scrittore di Lawrence e molto precoci nella mia vita di suo lettore – furono rivoluzionari. Quarant’anni dopo resta sempre sorprendente la vicinanza dei saggi di Classici americani con la mia vita adulta. A venticinque anni Philip Larkin era troppo giovane per sapere se fosse valida la sua prematura affermazione per cui «nessuno che sia davvero trasalito per Lawrence potrebbe mai abbandonarlo»; ma si è dimostrata esatta nel mio caso.

Poco prima di scrivere questo saggio ero ospite a casa di un amico a Joshua Tree. Nel tardo pomeriggio abbiamo fatto una passeggiata su una collina nelle vicinanze, sotto il sole cocente, fino a un camper abbandonato dal suo proprietario. Dentro c’erano escrementi di topi e di ratti ovunque, sul pavimento, sul letto e su tutta la cucina. I resti sparsi di ciò che un tempo era stata una vita domestica si mescolavano ai detriti della successiva dipendenza da droghe fino a trasformare i diversi spazi di quella casa in «un’orribile galleria sotterranea dell’animo umano». Immutati per milioni di anni, il paesaggio dorato circostante e il profondo blu del cielo erano incredibili. Su un tavolo da picnic fuori da quella discarica di camper, c’erano le pagine di un’edizione tascabile degli scritti di Edgar Allan Poe. Era impossibile sapere ‘quale orribile storia dell’animo umano nei suoi violenti spasmi’ avesse preso luogo lì ma, per me, il mistero stesso aveva preso forma nei pensieri di Lawrence su Poe. Due settimane prima, nel Colorado, avevo visto il film western Hostiles – Ostili, che riprende la sua epigrafe dal saggio di Lawrence su Fenimore Cooper: «Il vero animo americano è duro, isolato, stoico e omicida». Entrambe le esperienze – una volutamente, per mano del regista Scott Cooper, l’altra per caso – erano state plasmate da ciò che Lawrence aveva scritto.3

C’era un tempo in cui ciò non era affatto insolito. Nel 1945 Larkin con entusiasmo diceva a un amico che Lawrence era «il più grande scrittore del secolo, e per molti aspetti il più grande scrittore di tutti i tempi». Nato cinque anni dopo Larkin, il narratore di Il Mago (1965), scritto da John Fowles alza ancora l’asticella e lascia la scuola considerando Lawrence «il più grande essere umano del secolo». E non erano soltanto ragazzi. Visitando il ranch e il santuario di Lawrence a Taos, nel 1939, W. H. Auden notò come «auto di donne in pellegrinaggio arrivavano ogni giorno per starsene lì in ossequio e immaginare come sarebbe stato andare a letto con lui».

La risposta, secondo Kate Millett in La politica del sesso (1970), era probabilmente spiacevole e sicuramente deludente. La sua analisi devastante e arguta mise a nudo le sciocchezze stucchevoli e il «fasto liturgico» proprio di ciò che rese Lawrence famoso, ossia scrivere di sesso. Aggiungiamo la sua deplorevole – sebbene temporanea infatuazione per un culto protofascista del «leader con seguito» ed è facile capire perché la reputazione di Lawrence abbia avuto un declino più o meno stabile dagli anni Settanta. Per un periodo che è durato tanto quanto la sua breve vita, Lawrence è riuscito a restare pervicacemente fuori da qualsiasi fascinazione critica del momento – ma questo non significa che non abbia avuto i suoi devoti.  Da qui la frustrata passione di Tony Hoagland, nella sua poesia Lawrence, in cui ricorda come

In due occasioni negli ultimi dodici mesi

non sono riuscito, quando qualcuno a un party

ha parlato di lui con sdegnoso disprezzo,

a difendere D. H. Lawrence.

Qualsiasi tentativo di difendere quest’«uomo che bruciò una torcia ad acetilene / da una parte all’altra della sua vita» dovrebbe cominciare dall’ammettere non solo la bassa qualità di romanzi come La verga di Aronne o Il serpente piumato ma anche che alcune dell’opere canonizzate sono, nelle incomprese parole di George Orwell, «difficili da finire». Come romanziere, potremmo dire che Lawrence ha raggiunto l’apice precocemente, con Figli e amanti. Il suo ex-amico amico John Middleton Murry si spinse più lontano sostenendo in una recensione di Donne innamorate che Lawrence fosse uno di quei romanzieri che «sembrano aver superato il proprio apice ben prima di averlo raggiunto». Da lì in poi, come ha detto Raymond Williams con commozione, «ciò che ha perduto lungo la strada – ciò che penso lui sapesse aver perso e tentò di recuperare – potrebbe in effetti essere tanto importante quanto ciò che indubbiamente guadagnò». Un modo per ribilanciare i conti è quello di estendere l’area di interesse critico oltre i canali fittizi della «grande tradizione» di F. R. Leavis per includere forme di scrittura che sono considerate secondarie e minori. Se Lawrence oggi rimane un grande scrittore, ciò è dovuto in gran parte alla freschezza duratura e alla forza che si trova nei suoi libri di viaggio, nelle poesie che erano a malapena poesie, e nei suoi saggi sparsi. Per Lawrence il romanzo, «l’unico luminoso libro della vita», era la sfida suprema; ciò su cui aveva giocato la propria vita. Ma molti dei suoi doni spiccavano meglio altrove. Sotto questo aspetto, nella sua incapacità di confinare se stesso nell’arena a cui più teneva, appare come uno scrittore chiaramente contemporaneo: Lawrence visto come canone inesatto, per così dire.

Un curatore di una selezione di saggi di Lawrence, Richard Aldington, aveva deciso che «Saggi» fosse una «parola piuttosto povera per questi scritti così brillantemente vari».

In realtà, Aldington forse sottostima la questione, perché brillantezza e varietà spesso coesistono all’interno di un singolo saggio. (Dean Young, nel suo poema Shield of Moon Dust, restringe ancora di più il campo e rappresenta Lawrence come qualcuno capace di scrivere orribilmente e magnificamente nella stessa frase). Saggi sugli scrittori sono anche saggi sui luoghi; saggi sui luoghi sono anche pezzi di autobiografia e così via. Rebecca West, nella sua Elegy, composta dopo la morte di Lawrence, ricorda il loro incontro in Italia dove lui stava «battendo a macchina un articolo sulla condizione di Firenze». Più tardi lei si accorse che in realtà stava «scrivendo sulla condizione della propria anima in quel momento», usando la città come simbolo di comodo. Persuasiva e in parte vera, l’analisi di West rischia di sminuire l’inquietante capacità di Lawrence di rendere ciò che Mabel Dodge Sterne ha chiamato «l’atmosfera, il contatto e l’odore dei luoghi» – che è la ragione per cui lei lo invitò in New Mexico nel 1921. Durante il viaggio tortuoso che dalla Sicilia doveva condurlo lì e poi in Australia nel maggio successivo, lui sembrò intuire immediatamente un altro mondo, una sorta di tempo del sogno: «una ‘quarta dimensione’ e i bianchi vi nuotano come ombre sulla superficie». Sebbene menzioni solo di sfuggita la politica, la sua Lettera dalla Germania registra qualcosa – qualcosa «che non è ancora accaduto» – soffiare tra gli alberi della Foresta Nera nel 1924: «Dalla stessa aria arriva un senso di pericolo, uno strano sentimento che sussurra un inquietante pericolo». Sensazioni guizzano e accendono idee, esposte come fossero dati di qualche strumento calibrato su una frequenza di percezione così estrema da essere anormale o addirittura patologica. Il divario tra l’oggetto apparente della ricerca e la direzione presa dall’investigazione spesso è vasto, le conclusioni di solito drastiche. Ogni cosa ha la possibilità di diventare qualcos’altro. Le parti migliori di Art and Morality non riguardano l’arte o la morale ma – attraverso una incredibile divagazione intellettuale sulle vite degli antichi Egizi – descrivono come la moda ‘Kodak’ di fotografare se stessi in continuazione abbia fondamentalmente cambiato la percezione di noi stessi: una profetica diagnosi del malessere distintivo dell’era dell’iPhone. In una nota editoriale a Introduction to Pictures (da non confondere con Introduction to these paintings) lo studioso James T. Boulton giustamente puntualizza che il saggio «non prende in esame nemmeno una volta le immagini». Questa tendenza a deviare dalle intenzioni annunciate fu espressa nel modo migliore da Lawrence stesso il 5 settembre 1914. «Per pura rabbia ho iniziato il mio libro su Thomas Hardy. Tratterà di tutto tranne che di Thomas Hardy, temo, roba strana – niente male».

Pensato come parte di una serie chiamata Writers of the Day, il manoscritto, che si era molto allontanato da qualsiasi modello, non fu accettato per la pubblicazione. Lawrence, da parte sua, voleva distanziarsi ancora di più dall’obiettivo originale e cominciò a rimodellare qualcosa che era stato «perlopiù filosofeggiante, vagamente collegato ad Hardy» in favore di una più esplicita dichiarazione della sua «filosofia (perdonate la parola)». Il risultato, molto rivisto, fu La Corona ma anche alcuni dei «bozzetti» da cui ebbe origine Crepuscolo in Italia furono ridefiniti per veicolare questo carico filosofico maggiore. Versioni dello stesso tema sorgono in forme disparate e sovrapposte, alcune incomplete o inedite. Quelli che cominciano come «saggi» o «bozzetti isolati» si trasformano in capitoli all’interno di un libro.

Lawrence aveva indubbiamente una propria filosofia, che era sempre entusiasta di condividere con il mondo (per usare un eufemismo), anche se con questa non aveva alcuna dimestichezza.

Amo il modo in cui criticò Bertrand Russell per essere incapace di «accettare nella sua filosofia l’Infinito, lo Sconfinato, l’Eterno, come vero punto di partenza», ma nonostante i propositi di «impartire delle lezioni sull’Eternità» Lawrence dava sempre il meglio quando si occupava del finito e del particolare. Per quanto risultino poco stuzzicanti per i lettori contemporanei, le sue Reflections, mantengono il loro fascino per il modo in cui sono radicate non solo nella «morte di un porcospino», ma nell’agonia del cane con le spine di porcospino nel naso con cui comincia lo scritto. Lawrence si faceva spesso trasportare da discorsi riguardo a un metaforico «fiume di dissoluzione» ma notava, con sorprendente chiarezza di visione, tutta la flora e la fauna della riva letterale. Ritraendosi istintivamente davanti all’Ulisse di Joyce («Ma che sforzo! Che prova!»), Lawrence spesso dava il meglio quando andava a braccio, anche se ciò garantì a sua volta la bassa opinione di Joyce: «Quell’uomo scrive davvero, davvero male». A questo proposito, nonostante abbia riscritto più volte i romanzi più famosi, l’uomo che snobbò Joyce per essere «completamente privo di spontaneità», è come un proto-Kerouac. Poteva predicare senza sosta sull’uomo, la donna e la necessità per loro di essere, come insiste Birkin in Donne innamorate, «due stelle ben distinte, eguali e in perfetto equilibrio, in congiunzione…» (Bur 2009, trad. Adriana Dell’Orto), ma la cosa migliore che abbia scritto su una moglie o una compagna di vita si trova in un verso trascurato nella poesia For a Moment nella quale, mentre si siede e aspetta sulla terrazza di un hotel, lui vede «la donna che cerca me nel mondo». Nessuno ha mai espresso con più chiarezza di quella donna, Frieda 4, ciò che continua ad attrarre i lettori che sarebbero altrimenti stanchi dei lombi delle tenebre di Lawrence, delle fiamme dure come gemme, eccetera: «Per me il suo rapporto, il suo legame con ogni parte della creazione era incredibile, non c’era idea preconcetta, soltanto un incontro tra lui e la creatura, un albero, una nuvola, qualsiasi cosa. Io lo chiamavo amore, ma era qualcosa di diverso – Bejahung in tedesco, il dire sì». 

In effetti, ci sono momenti come questo in tutto ciò che ha scritto, a prescindere dal genere: dalla descrizione dei cipressi in Crepuscolo («Come abbiamo candele per illuminare l’oscurità della notte, così i cipressi sono candele che tengono l’oscurità accesa nel pieno splendore del sole») al canguro con le sue «cadenti spalle vittoriane» nell’eponimo poema, fino a numerose scene e passaggi in ogni suo romanzo. Non puoi mai sapere, con Lawrence, quando o come si manifesterà il prossimo lampo di genio. L’ossessione di calpestare i soliti imperativi dell’autocontrollo editoriale è un piccolo prezzo da pagare per il flusso senza ostacoli di improvvisazioni che otteniamo quando racconta di un sabato pomeriggio passato a Malta in compagnia di Maurice Magnus, in cui esplora «questa isola terribile», «questa sconcertante isola bruciata, essiccata dal sole», «questa isola orribile e smunta», «questa isola bestiale». In passaggi come questo la scrittura di Lawrence galleggia libera dal periodo di composizione, dalle prerogative dell’epoca condivise con angoscia, in una maniera che raramente si trova nei modernisti a lui contemporanei.

L’inizio di Whistling of birds sembra un passaggio da The Peregrine di J. A. Baker: «Il gelo rimase per molte settimane, al punto che gli uccelli cominciavano a morire rapidamente. Ovunque nei campi e sotto le siepi stavano i resti raggrinziti di pavoncelli, storni, passeri, tordi, sperduti mantelli di insanguinati uccelli raggrinziti…» Piuttosto che enumerare potenziali paragoni attraverso il tempo, può bastare questo solo esempio. L’inchiostro sulla prima pagina di Taos pare abbia a malapena avuto il tempo di asciugarsi nei 95 anni da quando Lawrence l’ha scritta.

Molti dei saggi successivi furono realizzati per denaro, quando Lawrence era a corto di energia e voglia di concentrarsi su un duraturo lavoro creativo. «Io penso sia forse uno spreco scrivere ancora romanzi», scrisse a Nancy Pearn dell’ufficio del suo agente letterario Curtis Brown. «Potrei probabilmente vivere di piccoli lavori, per esempio sulle riviste.» La paziente Ms Pearn si dimostrò altrettanto capace nel trovare destinazioni adatte per questi pezzi e di assicurare offerte per scrivere ulteriori «piccoli articoli per i giornali» che lui considerava «il modo di gran lunga migliore per fare soldi».

A dispetto di come abbiano avuto origine queste cose, o delle ragioni di Lawrence nel comporle, l’atto di scrivere invariabilmente restituisce qualcosa – e questa è la parola che usa Hoagland per concludere la sua tardiva difesa – di magnifico. Da nessuna parte ciò è più evidente che nell’introduzione che ha offerto a Memorie della Legione Stranieradi Magnus. Incentrata per lo più sul denaro, fu scritta per estinguere i debiti di Magnus e riguadagnare dei soldi che Lawrence stesso aveva perso, ma la grande estensione del pezzo in effetti ripulisce – o cancella – la ragione di partenza. Più in generale, quando Lawrence buttava giù questi ‘piccoli lavori’ stava in qualche modo giocando a suo vantaggio, alleggerendosi, perché si esprimeva liberamente, anche senza il peso psichico dell’ambizione che aggrava invece L’arcobaleno o Donne innamorate.

In una lettera che riguardava la collocazione di manoscritti dispersi la sua amica Dorothy Brett ha notato intelligentemente che «quando un uomo trascurato come Lawrence diventa accurato – e non dimostra alcuna traccia della sua trascuratezza – è propenso a perdere le staffe». La serena attitudine che lo animava nella scrittura dei saggi aveva dei vantaggi inaspettati. Lungo tutta la sua carriera Lawrence ha gettato bottiglie con dentro messaggi che disdegnavano con forza ciò di cui professava non curarsi in un determinato momento. In uno degli ultimi pezzi che ha scritto, un’introduzione su The Dragon of the Apocalypse di Frederick Carter – un altro esempio di un pezzo che è cresciuto oltre il suo obiettivo iniziale, visto che Lawrence finì per scrivere la sua propria Apocalisse – egli ha esposto alcune delle ragioni e dei modi in cui continuiamo a occuparci di lui. «Non m’importa cosa un uomo tenta di dimostrare, fintanto che riesce ad interessarmi e trasportarmi. Non m’interessa per niente se lui [Carter] raggiunge il suo scopo o meno, fintantoché è riuscito comunque a offrirmi una vera esperienza immaginativa, e non un altro cumulo di idee gonfiate.» E quindi va ad anticipare le nostre potenziali obiezioni: «Che importa se è confuso? Che importa se è ripetitivo? Che importa se in alcune parti non è molto interessante, quando in altre lo è così intensamente, quando d’improvviso apre le porte e lascia entrare lo spirito dentro un mondo nuovo, anche se è un mondo davvero vecchio!».

Pagina dopo pagina i saggi di Lawrence lo rivelano come uno scrittore in eterno rinnovamento: il nostro perpetuo contemporaneo.

© 2019, Geoff Dyer

La traduzione è a cura di Marco Marino

1 In Italia rintracciabile nel volume Libri di viaggio e pagine di paese, Mondadori 1961. (N.d.T.)
2 Le traduzioni delle citazioni, quando non è diversamente indicato, sono da attribuire al traduttore del saggio.
3 Un altro esempio, preso dalla letteratura piuttosto che dalla vita, dall’Europa piuttosto che dall’America, di come Lawrence continua a plasmare le mie percezioni: in T. Singer il romanziere norvegese Dag Solstad scrive che alla giovane moglie del suo eponimo protagonista «sarebbe piaciuto vedergli indosso un paio di pantaloni di un rosso vistoso». Questa sembra un’ovvia allusione alla dichiarazione di Mellors in L’amante di Lady Chatterley secondo il quale l’uomo dovrebbe indossare «pantaloni attillati e rossi». Se gli uomini indossassero pantaloni rossi, dice a Connie, «già questo basterebbe a cambiarli, in capo a un mese. Tornerebbero a essere uomini, uomini!» (Feltrinelli 2013, trad. Silvia Rota Sperti). Singer, da parte sua, «aveva visto altri uomini andare in giro con pantaloni di un rosso vistoso e non era cosa per lui. Era semplicemente impossibile, avrebbe provocato un distacco da qualcosa che era profondamente radicato in lui, qualcosa da cui non si poteva staccare» (Iperborea 2019, trad. Maria Valeria D’Avino). Solstad sta usando qui un passaggio da Lawrence per mandare un chiaro messaggio su un matrimonio fallito – oppure sto forse usando io Lawrence per decifrare ciò che è semplicemente l’espressione di una preferenza sartoriale della moglie di Singer?
4 Frieda Lawrence (1879-1979) è stata musa ispiratrice e moglie di D. H. Lawrence dal 1914 al 1930, anno della morte dello scrittore. (N.d.T.)

ARTICOLO n. 93 / 2024