ARTICOLO n. 11 / 2025

CROSS ROAD BLUES

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso.  (Dario Valentini)

I

Esattamente vent’anni fa, nel gennaio del 2005 era uscito Le variazioni Reinach, libro che mi aveva portato qualche considerazione nel mondo letterario. Niente di che, ma aveva incrinato una specie di congiura del silenzio che aveva accompagnato il mio lavoro precedente. Mi sembrava doveroso farlo seguire da qualcosa di imprevedibile, inaspettato e sconvolgente. Nell’estate di quell’anno New Orleans e la Louisiana erano state sconvolte dall’apparizione dell’uragano Katrina. La distruzione, gli allagamenti, la diaspora di una popolazione impreparata mi sembravano eventi biblici, ovvero quanto andavo cercando per il mio libro di là da venire. Ne parlai con il mio editore ma la sua risposta fu purtroppo negativa: chi mai poteva essere interessato a una città distrutta. Disse proprio così, lasciandomi interdetto.

Io avevo proprio l’animo del distruttore; i miei libri tendevano alla distruzione di ogni impianto narrativo; era quella la mia pozzanghera: sguazzare nella melma delle rovine e rimodellare quel che sembrava meritevole di sopravvivere. Così avevo fatto con le Variazioni e così avrei voluto fare con il prossimo libro. Accadde che nel gennaio del 2006 vincessi il premio Bagutta, ex-aequo con quell’essere straordinario che è Eugenio Borgna – e la cosa mi fece ancor più piacere. Fu così che decisi di investire il premio in denaro in un viaggio a New Orleans dove avrei fatto ancora in tempo a osservare la devastazione e a farmene in qualche modo testimone.

Non conoscevo la città ma ero abbastanza informato del suo periodo d’oro, diciamo quello dai primi del ‘900 agli anni Venti. L’età del jazz, del blues del Delta, insomma in quel che di selvatico e diabolico s’era infiltrato grazie alla gente di colore nella musica occidentale, essenzialmente francese, il ragtime o quella delle bande da parata, che si andavano trasformando nella polifonia dei complessi jazz, o nella musica per chitarra di origine canaria e cubana che s’era ibridata con i canti di schiavitù, con le malinconie. Con i blues, per intenderci.

L’idea era quella di scrivere della sopravvivenza dei miti della musica in quella devastazione recentissima. A me sembrava una buona idea nonostante il parere dell’editore. Del resto, poco importava. Se riuscivo a scrivere un libro buono, ovvero devastante, ne avrei trovato qualcun altro disposto a pubblicarmi. Sarei andato in cerca di miti musicali o forse altre tracce letterarie, Faulkner o Capote. Le parate del Mardi Gras, o le vicende di quelle strane navi sottomarine che durante la “War between the States” (così, mi aveva riferito un amico di Miami, gli americani chiamavano la guerra di Secessione) erano state varate e subito andate a fondo affogando i piloti nel lago di Pontchartain, quello che aveva nell’agosto precedente rotto gli argini e procurato l’inondazione della citta.

Ora che ne scrivo, a vent’anni di distanza, riaffiorano poco alla volta i motivi d’interesse, gli stimoli a compiere quel viaggio. Alcuni standard del primo jazz come il brano di King Oliver, West End Blues, che altro non era che una malinconia dedicata al tram che dal centro di New Orleans portava alle spiagge del lago, al West End, appunto. O la leggenda del primo grande cornettista, maestro di Oliver, Buddy Bolden, il barbiere che suonava così forte da poter essere sentito da entrambe le sponde del Mississippi, roba di qualche miglio, tra l’una e l’altra. E che era finito matto nell’ospedale psichiatrico perché in un accesso di follia aveva tagliato la gola a un cliente capitato per sua disgrazia sulla poltrona della sua barberia. O ai primi passi di Louis Armstrong, cresciuto da una coppia di ebrei che gli avevano regalato la prima cornetta ignari del bene che avevano fatto al mondo. 

O il fotografo delle prostitute di Storyville, Ernest Joseph Bellocq, da cui Michael Ondaatje aveva potuto ricevere testimonianze dirette mentre lavorava a quel suo piccolo capolavoro che è Coming Through Slaugther, il cui titolo originale – Emergendo dalle macerie – spiegava perfettamente quali erano le mie intenzioni a proposito di quel viaggio. Non crediate che Ondaatje da giovane (aveva 29 anni quando pubblicò questo libro) fosse quel noioso scrittore del Paziente inglese. Allora aveva ancora voglia di destrutturare quel che voleva narrare. I suoi libri giovanili erano bellissimi così come erano bellissime le prostitute fotografate da Bellocq e raccontate da Ondaatje. Ricordo che narrava di una di loro, apprezzatissima, nonostante avesse una gamba di legno; oppure di un’altra specializzata nel Ballo dell’ostrica che consisteva nel farsi scivolare dalla fronte lungo il corpo nudo sino al dorso del piede il mollusco appena scollato dalla valva, e poi ricalciarlo in aria dove la ballerina avrebbe dovuto riprenderlo con la fronte per ripetere l’esibizione.

Conoscevo la città per gli standard degli anni ’20. Per i titoli, come Basin Street Blues, o per le storie che raccontavano come Canal Street Blues. Soprattutto quest’ultima m’inteneriva. Con il suo tempo da marching band sembrava apparentemente lieta, spensierata. E invece i suoi blues, le sue malinconie erano appena velate da quel suo tempo rapido. E finiva poi improvvisamente, senza lasciare spazio ad altri dispiaceri, ad altre lacrime silenziose. Conoscevo la città per Congo Square, la piazza a nord del quartiere francese dove nell’Ottocento avveniva la vendita degli schiavi.  

Dunque un mondo folle, con ascendenze francesi, africane, anglosassoni e caraibiche, con permanenze di riti voodoo, di cristianesimo, di religioni animiste o un connubio inestricabile di tutto questo. Volevo andarci, proprio allora, dopo Katrina, per capire se la catastrofe dell’uragano avesse liberato qualcuna di queste componenti; se il fango avesse portato via con sé quel che le nascondeva e avesse fatto emergere quel che unificava. Il libro sarebbe venuto fuori da questo scavo, che aveva come filo conduttore la musica che era nata a New Orleans e nello smisurato delta del Mississippi sino a risalire il grande fiume, alla ricerca della nascita del blues così come la scoperta della città era dedicata alla nascita del jazz. New Orleans come luogo dove nascono le cose.

II

E così eccomi qui, in quest’atmosfera cupa: le strade ancora velate dal passaggio del fango, le case di legno distrutte o imbevute di acqua sporca, le saracinesche dei negozi sventrate; i proprietari seduti sul marciapiedi ancora a domandarsi che fare e come farlo. L’atmosfera era da sogno, o forse da incubo: rumori ovattati, luminosità diffusa come in un perenne crepuscolo. Pochi turisti spaesati, pompieri e spazzini che manifestavano invece una certa fretta, portati di qua e di là dalle necessità della città da ricostruire. Sulle facciate dei palazzi ancora si vedeva il segno dell’acqua sporca che aveva invaso il piano terra. Insomma ancora l’atmosfera delle città invase dal fango e che lentamente tornavano alla vita.

Ai margini del quartiere francese, dalla parte di Canal Street in una di quelle prime passeggiate di ambientamento mi sono imbattuto in una strada senza uscita che sembrava essere stata risparmiata dalla devastazione. Da un lato un ristorante-bistrot che avrebbe potuto trovarsi nella rive gauche degli anni ‘70 di Parigi e dall’altro due o tre negozietti di chincaglierie. Il primo vendeva strumenti musicali usati, CD ed LP di jazz. La vetrina era invitante, ingombra di cornette Conn e Vincent Bach e tromboni a coulisse, esposte su un fondo di copertine di dischi e spartiti. Entrai. Una ragazza creola che si trovava dietro il bancone era intenta a lucidare una cornetta. Salutai ma non rispose. Cominciai a curiosare tra gli espositori dei CD e finalmente disse due parole: «They are coming through the hurricane, from the flood».

Mi colpì quell’assonanza con il libro di Ondaatje. Mi osservai le mani ed effettivamente erano impolverate, come se quei dischi provenissero dal fango del Pontchartrain. Però trovai subito qualcosa che m’interessava. Era una raccolta di brani di Robert Johnson, il mitico bluesman del Mississippi che aveva incontrato il diavolo a un incrocio e gli aveva venduto l’anima in cambio di una strabiliante capacità di suonare la chitarra. Si diceva che fosse sparito dalla sua casa sul Mississippi e ritornato due anni dopo con questa capacità funambolica donatagli dal diavolo. Ogni chitarrista dal blues al rock lo considera inarrivabile anche per questa leggenda veramente diabolica. Comprai il CD e un lettore portatile. Pagai cash e la creola non alzò mai lo sguardo verso di me. Ovviamente non mi diede nessuno scontrino, ma in realtà non m’importava molto d’aver contribuito a far evadere le tasse locali.

Quando tornai in albergo misi il CD nel lettore. La prima traccia doveva essere la mitica Cross Road Blues, quella dell’incontro con il diavolo, e invece era un testo parlato, inciso probabilmente con una matrice di cera da un grammofono, gracchiante, quasi incomprensibile. Le poche parole che riuscii a decifrare erano pronunciate da una voce maschile stridula che sembrava provenire dall’oltretomba. «Come to the crossroad… Follow me… Learn to me to be the best one, the only one; I’ll give you my lesson… Go to the crossroad…» dopo di che invece che partire la famigerata Cross Road la voce ricominciava e così per tutte le tracce del CD. Pensai che ci fosse un problema – anche se non mi dispiaceva che l’anima di Johnson era ormai stata restituita al vero padrone e che quel CD ne fosse una specie di testimonianza. Tornai nella botteguccia dove lo avevo comprato. Chiesi spiegazioni alla taciturna commessa. Lei sempre in silenzio inserì il CD nel lettore ma, con mia sorpresa, dagli altoparlanti usciva il suono della chitarra di Johnson. La traccia uno era quella di Cross Road. Proseguivano poi gli altri brani, così com’era scritto nel fascicolo del CD.

Del discorsetto introduttivo, che si ripeteva all’infinito, mellifluo e insinuante, non c’era traccia. Tornai in albergo e di nuovo misi il CD nel mio lettore. La voce tentatrice riappariva ogni volta come se soltanto nel mio lettore fosse possibile sentirla, come se quella richiesta fosse indirizzata soltanto a me. Nella migliore delle ipotesi era un errore di stampa, un file impazzito che aveva contagiato il mio dischetto, nella peggiore non sapevo cosa pensare, ma non pensavo niente di buono. Guardai tra i credits della copertina. Il CD era stato stampato a Greenwood, Mississippi, la cittadina dove Johnson era morto nel 1938, dunque meno di settant’anni prima. Evidente che il viaggio aveva cambiato meta.

Fu in quel momento che mi venne l’idea. Dovevo prendere un battello e risalire il Mississippi. Lo scopo del mio viaggio era mutato. Andare in cerca di un vecchio patto con il diavolo e non degli esiti di una recente inondazione catastrofica. Comunque, ne ero certo, andavo riportando alla luce qualcosa. Che strano, pensai, arrivo in questa città con un’idea anche forte e subito la sostituisco con un’altra forse anche banale: un viaggio su un battello a ruota, per risalire il fiume. 

Salii a bordo di uno sgangherato battello a vapore. Avevo trovato posto in cabina di seconda classe piuttosto rumorosa. Ma avevo un oblò sul lato di babordo della nave, e osservavo la sponda sinistra del Mississippi mentre abbandonavo la periferia ancora devastata della città. Ricordavo uno strano romanzo di Herman Melville, The Confidence Man, che si svolgeva a bordo di un battello simile e raccontava degli strani incontri di un truffatore da strapazzo. Qualcuno che era facile incontrare in quella barca semideserta che mi portava verso altri luoghi.

La sera assistetti al mitico spettacolo descritto da Ondaatje. Una ballerina dalla pelle brunita che indossava soltanto un perizoma di paillette eseguiva, abbastanza maldestramente, la danza dell’ostrica, ma il pianista che l’accompagnava era abbastanza esperto di ragtime per rendere l’esibizione attraente e la ballerina ce la metteva tutta per essere sensuale e mi osservava con una certa concupiscenza come se, finito lo spettacolo, avesse deciso di proseguire la serata al mio tavolo. E così accadde. Mi raggiunse sempre mezza nuda e si sedette accanto a me. Ordinò un Kentucky e mi chiese dove fossi diretto. Le risposi e aggiunsi: «On the path of Robert Johnson, the blues man».

«Ah, could be dangerous. I know the story. The devil at the crossroad. But, anyway, everyone has his personal crossroad. Maybe yours is here». Bevve d’un fiato il suo bourbon e si alzò. Mi salutò sussurrando: «My crossroad is n° 28».

Più tardi, in camera, mi resi conto che il viaggio sul fiume sarebbe durato una settimana o giù di lì. Troppo per la mia curiosità sul diavolo di Johnson e troppo anche per resistere alle lusinghe della ballerina dell’ostrica e al suo invitante crocicchio 28 che era a poche cabine dalla mia. Così al mattino scesi alla prima fermata e presi la ferrovia che in meno di un giorno mi avrebbe portato a Greenwood, Mississippi.

III

Il viaggio in treno durò un lampo. Il panorama era malinconico e depressivo: meglio non guardarlo. Querce, sicomori e altri alberi d’incerta identificazione. Salendo sul treno avevo pensato che Johnson era morto nel 1938 e forse nel 2006 avrei trovato un novantenne che si ricordava del chitarrista e della strana diceria che girava attorno al suo virtuosismo. Addirittura un patto con il diavolo. Ma era proprio terra devastata, la povertà e le malattie acceleravano la morte da quelle parti. Quando scesi alla stazione le mie paure trovarono conferma. La gente che incontravo era vecchia non per gli anni vissuti ma per la miseria subita. A qualcuno che sembrava meno vecchio dei suoi anni chiesi della sede della Delta Records. Rispose: «Ah Devil’s Records». 

«No», ribadii «Delta Records» e lui insistette: «It’s the same». Roba da spaventare i ragazzini di quel non luogo – due o tre strade che incrociavano la main street, e una passeggiata sul lungo fiume. 

Di fronte al drug store era parcheggiata una vetusta Impala che a detta del guidatore fungeva da taxi della zona. Mi ci infilai svegliandolo dal suo torpore e gli chiesi di portarmi alla fabbrica dei dischi. Mi portò in periferia e quando si fermò davanti a una specie di capanna di legno gli chiesi di aspettare fuori. La sede della Delta Records non si distingueva dalle altre baracche lungo la via se non per una piccola insegna che ripeteva il logo dell’azienda: Una piramide con due corna ai lati del vertice. Come a dire, il diavolo ci domina. Salii i tre gradini del portico, aprii la porta con la zanzariera, bussai a quella di legno ed entrai senza aspettare che qualcuno si degnasse di rispondere. Nel corridoio d’ingresso incrociai una ragazza di colore dalle gambe sproporzionatamente esili e lunghe che mi salutò con entusiasmo. Era chiaro che non entrava mai nessuno lì dentro. Mi chiese cosa desideravo e in breve le spiegai la faccenda del CD. Mi rispose sorridendo.

«It’s a mistake. It happens, sometime. You received the Call». Le chiesi cosa voleva dire quella “Chiamata”. «The Boss – e con l’indice indicò in alto – called. That’s all. The Crossroad is at Copiah County. Not far from here». Non lontano da qui, diceva. La ragazza faceva tutto semplice con quel suo sorriso smagliante. Ma io mi trovavo a decine di migliaia di chilometri da casa, avevo ricevuto la chiamata del diavolo e adesso stavo andando a incontrarlo a un crocevia che neppure sapevo quale fosse. Sapevo solo che era “not far from here”. Ci avrei sbattuto il muso. Sicuro che mi sarebbe accaduto. Risalii in macchina – il guidatore s’era di nuovo assopito posando la testa sul volante e gli intimai di portarmi a Copiah County dove arrivammo in un’oretta di viaggio lungo strade campestri. Ora si trattava di trovare l’incrocio dove Johnson avrebbe avuto, secondo la diceria popolare, l’incontro con il diavolo.

Il tassista (ma era esagerato chiamarlo tassista, sembrava piuttosto Luster di The Sound and the Fury che portava Benji a spasso in calesse nel finale del libro) mi chiese dove dovevamo andare. Risposi che non lo sapevo, ma che cercavo il crocicchio di Robert Johnson. Lui sospirò e mi disse: «Every crossroad is the Johnson’s one. Just every damned crossroad. But we have to wait for the dark». Così dicendo ingranò la marcia e mi portò in una sala da caffè dove avremmo potuto aspettare la notte alzando il gomito. Alla fine, dopo il tramonto, sul nostro tavolo di formica si contavano otto boccali di birra e un paio di piatti di tortilla. D’un tratto il mio traghettatore guardò fuori dalla finestra e disse: «It’s time to go». Si alzò e uscì dalla sala. Io lo seguii come un barboncino ammaestrato.

IV

Vagammo per una mezz’oretta o forse più nella periferia di Copiah County ma devo ammettere che tutta Copiah County sembra periferia di un centro che non esiste e di notte quest’impressione desolata si fa più consistente. La macchina rallentò tre o quattro volte in coincidenza di incroci che sembrano adatti allo scopo che avevo confidato alla mia guida fino a quando si fermò in prossimità del più desolato e devastato crocicchio del Mississippi. «This must be the one» disse e si fermò a una ventina di metri. Spense le luci della macchina e disse che mi avrebbe aspettato al buio. «But not for the eternity. Just few minutes». Annuii e scesi dirigendomi all’incrocio.

Attesi immobile qualche minuto assaporando tutta la paura di cui ero capace. Poi, oltre gli alberi che si affacciavano all’incrocio notai qualcosa muoversi. Una macchia scura nello scuro della notte. «Dark on darkness», avrebbe detto il mio autista. L’ombra si avvicinò uscendo dal bosco e sistemandosi al centro del crocicchio, come se volesse impedirmi di prendere qualunque direzione salvo quella da cui ero venuto. Ma una forza irrazionale m’impediva di voltarmi e rimanevo quasi ipnotizzato dagli occhi azzurri e luminosissimi di quella figura scura che era lì per me. Assolutamente per me. Alzò un braccio verso di me, puntò l’indice alla mia figura e prese a parlare con un’intonazione e una lingua che mi sembrava di riconoscere: 

Buona la sera questa
mio amico benvenue, dans mon pais.
Oh la nuit, oh la nuit, oh la nuit
How many times, o no, non è questa,
Quando, when I’m arrived here,
looking for a lost sheep,
lost in the wood, come la piccola piccola
Cappuccetto Rosso, che voi siete, ancorché
comme cette petite enfant devant a la maison 
de sa grandmere, knocking on the door. 
Open, please, maybe some wolf follows me.
And I, like that lovely grandmere 
J’ambrasse vous dans cette crossroad. 
Like many many times I did.
With many many people.

Poi si avvicinò, mi afferrò la mano sinistra, mi strinse il polso e cercò di portarmi con sé. Sentii un bruciore insopportabile al polso e in quel momento riuscii a divincolarmi e a scappare lontano dal crocicchio. Il diavolo non mi seguì. Nel frattempo la macchina era sparita. Corsi a rotta di collo per non so quanto tempo. Alla fine, con il fiato rotto, mi fermai.

V

Mi svegliai con l’affanno in un lago di sudore e in preda a un’angoscia senza fondo. Il polso sinistro era bruciacchiato come se qualcuno con la mano incandescente avesse cercato di trattenermi. Cercai di tornare in me ripetendomi che era solo un sogno. Quando ne ebbi la forza la prima cosa che feci fu disdire il volo per New Orleans. Tornai a letto, senza riuscire a dormire per il terrore che il sogno potesse ripresentarsi. Il polso ustionato mi bruciava e la mente era in subbuglio. Durò così per diversi giorni. Poi, qualche tempo dopo, risistemando la mia collezione di CD, mi capitò tra le mani uno che aveva questa scritta in copertina: The complete recordings of Robert Johnson. Non ricordavo di averlo comprato, se non nel sogno. Non capivo come fosse finito lì e non ho avuto il coraggio di ascoltarlo, né allora, né mai. Ma non ho neppure avuto il coraggio di distruggerlo o buttarlo. Da allora giace seminascosto dentro un’anta della mia libreria di rovere in attesa di riapparire. So che il diavolo fa così.

ARTICOLO n. 14 / 2025