ARTICOLO n. 21 / 2021

Credere ancora nella scrittura?

La domanda mostra (inconsapevolmente) non solo di credere nella scrittura, ma anche di subirne tuttora completamente l’ipnotica efficacia. Infatti «la scrittura» non esiste, salvo per coloro che sono stati alfabetizzati. Cerco di spiegarmi (muovendomi fatalmente in un contesto «alfabetizzato»).

La pratica espressiva originaria dei discorsi non procede per nomi, verbi, avverbi, aggettivi ecc. ecc. La sua «grammatica», per dir così, è di altra natura. Ricordo un aneddoto famoso. Aleksandr Lurija chiede a un contadino russo analfabeta (siamo negli anni ’20) in che differiscano la sega, l’accetta e il tronco dell’albero. Non differiscono affatto, è la risposta. La sega sega l’albero, l’accetta lo divide in tanti pezzi che vengono poi bruciati nel camino. In sostanza il contadino considera l’unità di senso dell’azione complessiva, profondamente intrecciata con gli abiti verbali propri della comunità di appartenenza. L’oralità, la scrittura, l’accetta isolatamente intesi per lui non esistono. Sono abiti vocali il cui significato accade e fa corpo con l’esercizio del fare legna per l’inverno.

Che cosa fa invece la scrittura alfabetica? Se chiedi «che cosa», la scrittura alfabetica è già entrata in azione ed è lei che risponde, di fatto nascondendosi allo sguardo di quel soggetto alfabetizzato dalla prima infanzia che noi siamo. Cerchiamo nondimeno di dirci che cosa fa, evitando le banalità consuete del tipo: trascrive i suoni della voce in grafemi o segni scritti (o meraviglia! E come fa a produrre questo miracolo?).

Prendiamo le mosse dall’idea di pratiche complesse in azione, come appunto andare a fare legna nel bosco: l’uomo dell’oralità primaria (come diciamo noi, lui non ha alcun motivo né possibilità di pensarsi così) svolge di fatto un’azione intelligente che si snoda in moduli operativi eminentemente finalizzati e pratici; la loro dinamica dà vita a un corpo in azione coerente con l’espressione «andare a far legna», azione articolata in altre azioni e correlativi strumenti ed espressioni (l’accetta, la sega, il ceppo ecc.).

La scrittura alfabetica non traduce affatto il tutto in tracce scritte su un supporto; piuttosto sostituisce l’antico corpo integrato operativo ed espressivo in tutt’altra pratica, in tutt’altro corpo operativo, all’interno del quale emergono appunto i segni scritti, le «vocali», le «consonanti», le «sillabe»: «cose» esistenti solo all’interno di questa pratica scrittoria. Essa analizza il cosiddetto nastro vocale, preso isolatamente in sé, secondo una logica esecutiva «musicale», propria appunto della pratica alfabetica. Vedi questo circoletto con la gambina? Bene, apri la bocca ed emetti un suono corrispondente: «aaa…». Poi nascerà col tempo la lettura silenziosa, quella di Sant’Ambrogio che suscitò lo stupore e l’ammirazione di Agostino. Come possiamo pensare che questa pratica sia sorta e che si sia imposta, per quali motivi, secondo quali sensi e ragioni progressive ho cercato di chiarire in un saggio («Phrasikleia: corpi e voci della scrittura», in Inizio, Jaca Book, Milano 2016).

Qui mi concentro sugli esiti ultimi di questo lungo processo legato al diffondersi della pratica alfabetica, nel mondo antico e poi nel medio evo e nella modernità.

La pratica scrittoria dell’alfabeto (lettera dopo lettera su una linea progressiva di punti idealmente infiniti) esibisce tratti di parole separate (ricordo che la separazione tra le parole fu un procedimento scrittorio ellenistico; prima si badava unicamente alla lettura musicale del testo, il cui senso suggeriva da sé, ancora oralmente per così dire, gli intervalli del discorso concretamente incarnato e tradotto dal lettore vocale). È così che le parole cominciano a stagliarsi singolarmente, divenendo appunto «cose-parole»: esse acquisiscono in tal modo una inedita consistenza onto-logica, divenendo segni di «cose» corrispondenti, ovvero supposte tali dal lettore alfabetizzato. Evento la cui portata non potrebbe essere più grande e profonda, poiché è all’origine di tutta la «scienza europea».

Su questa base, un uomo cominciò a interrogare i suoi concittadini analfabeti chiedendo per esempio: che cosa è «il coraggio»? Che cosa dici che sia? E l’interlocutore ovviamente rispondeva secondo la sua «logica»: coraggio è quello che fa Ettore, nell’affrontare l’invincibile Achille… No, non è questo che ti ho chiesto; non volevo che tu mi riferissi un’azione, un comportamento, una storia, un racconto (mythos); ti sto chiedendo che cosa è il coraggio, ti chiedo una «definizione» (cosa per l’interlocutore sconosciuta e inimmaginabile), non un’azione ma una nozione. Quindi una «essenza», un «concetto», una «idea»; non Eroi, Dei e Personaggi coinvolti in una vicenda. L’Occidente è in cammino.

Divenute segni di cose corrispondenti sul piano della supposta realtà in sé del «mondo» e dei suoi «enti», le parole innescano il sapere fondamentale della scienza, della episteme filosofica, fondamento dei saperi rappresentati dalle scienze particolari. Infatti Aristotele coerentemente distingue: «filosofia prima» (la «metafisica»: lo studio dell’ente in quanto tale e dell’ente in totalità) e «filosofie seconde» (le scienze o saperi particolari, a partire dalla «fisica»).

Ha osservato Heidegger: oggi la filosofia è morta. Se chiedi che cosa sono le cose, gli enti reali del mondo, da tempo non è più il filosofo che risponde; risponde lo scienziato naturalista (il fisico galileiano, il chimico, il biologo ecc.). Tuttavia, dice Heidegger, questa fine della metafisica e della filosofia tradizionale è piuttosto il suo compimento, è la realizzazione di un compito che sin dalle origini la filosofia si era dato: la conoscenza della «causa» degli enti e delle loro trasformazioni, quella conoscenza che, nel tempo, si è sviluppata grazie al lavoro delle scienze particolari. È questo lavoro che ha di fatto realizzato il fine della conoscenza filosofica, vedi appunto Aristotele; quindi la sua fine. Tutto bene allora? Adagio…

Anzitutto c’è un passaggio problematico. Se ci siamo fatti intendere, la «logica degli enti», la «mentalità logica» dell’uomo occidentale, ha la sua premessa e condizione nel diffondersi di una pratica, complessa e sempre storicamente determinata, che è la pratica nata nell’alveo del discorso alfabeticamente organizzato. Se è vero che l’uomo della cosiddetta oralità fa le cose in un certo modo tradizionale, è altrettanto vero che la pratica alfabetica ha insegnato a ragionare invece per «enti in sé», che nondimeno resterebbero impensabili, «letteralmente» inconcepibili, senza l’educazione alla scrittura e alla lettura alfabetiche e alle loro grandi conseguenze culturali e mentali. Questo fatto resta però inavvertito. La mentalità scientifica diffusa (e così quella del cosiddetto senso comune) ritiene fermamente di parlare semplicemente della «realtà», cioè di come sono fatte universalmente le cose del mondo, esseri umani compresi. La soglia della grande rivoluzione alfabetica dell’Occidente e delle relative, immense conseguenze per il tipo di vita sul pianeta restano di fatto sconosciute.

Poi c’è un secondo problema: la stessa «scrittura alfabetica» non è affatto intesa nella sua complessità storico-pratica. Ricordo il bellissimo libro di Ivan Illich, Nella vigna del testo, Cortina, Milano 1994. Ogni scrittura e, correlatamente, ogni lettura si è sviluppata come una pratica complessa, ricca di fattori contingenti e transeunti. È appunto questa serie di differenti pratiche storiche e dei loro esiti sociali a esistere, non «la scrittura». Come si leggeva alla corte di Carlo Magno, come si cantavano in chiesa le grandi e pesanti pergamene del libro sacro, come il monaco rimuginava tutto il giorno, mentre era al lavoro, le righe mandate a memoria, quando l’alfabeto era unicamente pensato come tecnica applicabile alla sola lingua latina (per il fatto che non se ne conoscevano altre applicazioni)? E poi la trasformazione delle pratiche scrittorie, innescate dall’Oriente: la carta, gli inchiostri, le colle, la copertina, l’organizzazione inedita del materiale, ovvero la grande invenzione del testo: indici, paragrafi, capitoli, sommari. Infine la decisiva rivoluzione della stampa e il suo percorso straordinario, da Venezia al mondo: vera matrice della rivoluzione della cultura moderna e delle grandi trasformazioni politiche e sociali in Europa e, un po’ alla volta, in tutto il globo.

Ecco, questa è la scrittura di cui si chiede conto nel titolo di questo scritto. Non vi è né vi fu una sola scrittura; la sua pratica si è intramata con innumerevoli innovazioni tecniche, economiche, ideologiche e sociali e non ha smesso di farlo. Quello che si ha l’impressione che perda terreno, specialmente tra i giovani, è la scrittura del testo «letterario», della «saggistica» filosofica e non solo. Avanzano inarrestabili altri intrecci, altre pratiche scrittorie, sempre più diffuse e potenti.

C’è del resto una osservazione molto semplice per convincersi della estrema attualità della scrittura alfabetica: la presenza ormai ovunque della «tastiera» (che costituisce un grande e ancora attuale problema per le scritture orientali basate sugli ideogrammi). La logica della tastiera (con la relativa presenza di messaggi e messaggini) governa sovrana l’espressione internazionale dell’uomo contemporaneo. La scrittura alfabetica non è mai stata così viva.

Da tempo immemorabile ciò che chiamiamo «scrittura» ha incarnato la soglia dell’umano. Essa era là quando si dipingevano il volto e le membra, quando si mutilavano il corpo, quando orientavano le tende, le tombe e le capanne, istoriavano le caverne, intagliavano gli strumenti e le armi, organizzavano il rito e il sacrificio, eseguivano danze festive, disegnando i labirinti del destino. Essa è ancora qua, sui nostri schermi che avvicinano e rendono presente il lontano, nella nostalgia dolorosa dell’assenza. Così la scrittura alfabetica ha conservato i pensieri dei morti, grandi e piccini, perché il corpo degli umani è da sempre un corpo «scritto». La scrittura cambia con noi. Essa custodisce una figura della verità che non è mai compiuta e il cui senso risiede sempre, enigmaticamente, in un’altra scrittura.

ARTICOLO n. 93 / 2024