ARTICOLO n. 58 / 2021
COS’È UN LETTORE ONNIVORO?
Mi viene chiesto di parlare di lettori onnivori. Accetto subito. Poi mi fermo. Ci penso. Cos’è, poi, un lettore onnivoro? Sono io un lettore onnivoro? Di certo, se venissi colto da una simile domanda all’improvviso – che so, da un tizio che lo chiede in un caffè o alla fine di una presentazione –, risponderei di sì, anzi un deciso «Sì certo»,tale quasi da metterlo involontariamente in imbarazzo per aver posto una domanda dalla risposta così ovvia.
La mia biblioteca racconta però una storia differente: per quanto ancora capace di far produrre l’ospite occasionale nel solito «Ma li hai letti tutti?» (la risposta da dare, com’è noto, è: «No, li ho scritti tutti»), a ben guardare – anzi pure a un’occhiata superficiale – mostra una predominanza esorbitante della narrativa sul resto, e della filosofia su quel poco resto. Il che, forse, già mi esclude dai lettori onnivori; o forse no, dato che l’espressione si potrebbe interpretare in altro modo, ad esempio come indicante il lettore che legge autrici e autori da tutto il mondo, oppure sia classici che contemporanea, o sia alta letteratura sia narrativa commerciale, o ancora quello che alla biblioteca di narrativa ne affianca una di poesia, eccetera.
Ma usciamo dalle case, e dalle biblioteche delle case, giacché fatte in realtà per parlare, in un linguaggio privatissimo, solo a chi ci abita. Per trovare un lettore onnivoro, o anche solo immaginarlo, onde poi fornirgli qualche consiglio (se mai ne ha bisogno), è lecito pensare che si debba andare in biblioteca o in libreria. Riduciamo il campo: il lettore onnivoro può essere trovato in entrambi i luoghi, ma evidentemente si forma in libreria, dato che una biblioteca, per via della catalogazione, avrà parole solo per il lettore già avveduto, onnivoro o meno che sia. Riflessione che ne impone un’altra a corollario: il lettore onnivoro già formato è anche per forza di cose avveduto. Si può immaginare, volendo, un Moloch mostruoso che si nutra d’ogni libro senza badare a cosa ci sia scritto, ma sappiamo che si tratta di una chimera, e non solo perché il numero di libri che si possono leggere in una vita è limitato, ma soprattutto perché essi imporranno la loro legge, che sia essa al rialzo o al ribasso, prima ancora di arrivare al crivello dell’ampiezza, escludendo con essa ciò che si trova sopra o sotto una certa linea di galleggiamento.
Siamo allora d’accordo che il lettore onnivoro avrà il proprio habitat specifico e il proprio spawning ground in una libreria. Condizione, questa, che potrebbe essere peggiorata da quando nelle librerie, specie se di catena, è andato decadendo l’uso di ordinare i libri per editore, in favore dell’ordinamento alfabetico per autore (più, sui tavoli, esse pure tutte mischiate, «le novità»). Favorendo ciò il lettore che entra già sapendo cosa vuole acquistare, si limitano nascita e sviluppo dei lettori onnivori, ma nelle librerie più grandi i banchi delle novità sono talmente vasti (e c’è, magari, spazio per una zona classici o per una «selezione dei librai») da permettere ancora di nutrire l’infanzia di questo specifico animale.
Andiamo però ancora indietro. Perché un tempo, quando non esisteva ancora quella compartimentazione dei generi che è poi un’idea dei venditori di libri, e ancor prima dei loro distributori, tutti i lettori nascevano potenzialmente onnivori: tutto era letteratura, e da questo si partiva. In tale momento, in cui già esisteva l’editoria di massa ma non si era ancora specializzata, due grandi basi del lettore onnivoro, almeno stando alle testimonianze di scrittori e letterati (una predilezione in alcuni casi arrivata fino alla fine del Ventesimo secolo – la pensava così, ad esempio, Bolaño) erano quei sublimi zibaldoni che prendono il nome di Pensieri (di Pascal) e Saggi (di Montaigne). Portatori di visioni del mondo che risultano tanto più antitetiche quanto più li si rilegge, avevano e hanno tuttavia in sé un cuore centrale costituito da un’idea ovvia ma vieppiù perduta: per leggere bene (neanche per scrivere: non si era ancora a questo) è necessario aver letto, poiché la letteratura, e più in generale il pensiero, altro non è che rimaneggiamento, aggiornamento, ripresentazione, corollario e correzione (e a volte plagio e imitazione, certo), e senza una base solida atta a dirimere intuitivamente le letture prima ancora di sceglierle (e per capire, dopo, i riferimenti espliciti o impliciti) non si farà altro che andar per lucciole.
Ecco, forse, la differenza tra il potenziale lettore onnivoro di ieri e il potenziale lettore onnivoro di oggi. Un tempo era pacifico che qualunque vita di letture, al di là delle Scritture, prendesse le mosse dai classici, nel senso di classici greci e romani, andasse poi come andasse. Oggi il potenziale lettore onnivoro che non abbia ricevuto una formazione prettamente letteraria (ma chi, oggi, riceve una simile formazione? Forse solo chi ha la fortuna di nascere in una casa in cui c’era già un lettore onnivoro, e di ereditarne dunque volumi e approccio) rischia, soprattutto, di non saper da che parte cominciare.
È l’esperienza a confermarmi quest’impressione: capita spesso che un amico, lettore forte o almeno volenteroso (ma occupato in tutt’altre questioni che non gli permettono certo di seguire tutto quel coacervo di inserti, riviste e blog che rende possibile essere plausibilmente informati sulla cosiddetta attualità letteraria), mi mandi un messaggio che dice «sono in libreria: cosa compro?». Il lettore potenzialmente onnivoro si ritrova ogni volta ubriacato dall’apparente sovrappiù d’offerta, ammutolito dalla (dis)organizzazione dei volumi col loro assurdo ordine alfabetico, e ulteriormente confuso dalla quasi totale esplosione del rapporto tra collane e qualità attesa dei testi: ormai da tempo e volentieri i marchi più prestigiosi hanno accettato il do ut des con chi può garantire un certo venduto, e la collana di una major, a prescindere dalla sua gloria passata, può contenere di tutto, cosa che finisce per scoraggiare il potenziale lettore onnivoro qualora becchi – e può accadere – la sciocchezza invece del capolavoro. Forse viene da questo, e solo da questo, la reputazione scintillante del marchio Adelphi: è rimasta l’unica casa editrice in cui, anche pescando a caso, si può trovare un libro bello o meno bello, ma mai una sciocchezza.
Questo processo, nemico del lettore onnivoro, si sviluppa su più piani: non ci sono, infatti, soltanto libri pessimi che finiscono in buone collane o in buoni editori solo perché vendono (o perché potrebbero farlo), o quei romanzi rosa con packaging letterario che tanta fortuna hanno in questi anni. C’è anche un secondo livello, più insidioso (almeno per il potenziale lettore onnivoro): quello rappresentato dagli autori di medio rango che vendono e sembrano sufficientemente letteratura da non far vergognare chi li legge o se li porta in giro, e che verranno ineludibilmente presentati come i libri da leggere (e vale lo stesso per certa saggistica di divulgazione). Libri che per la maggior parte si leggono, si leggono eccome, ma in ultimo senza vero entusiasmo. E quando decade l’entusiasmo, il lettore onnivoro rischia di non nascere.
È forse allora necessario alzare presidî proprio in quel punto. Lì che dovrebbero agire le recensioni su giornali e riviste (spesso lo fanno, ma altrettanto spesso agiscono in favore delle dinamiche editoriali di cui sopra) e la critica accademica (che lo fa anche più spesso, ma muovendosi con tempi che non possono incidere su quelli ossessivi e assetati di turnover della distribuzione), o ancora le Classifiche di Qualità, per citare un dispositivo a me caro che cerca di dar mano a disincantare le fate morgane del midcult. Si sa però che il lettore (onnivoro o meno che sia) è sensibile prima di tutto al passaparola, e quindi, prima ancora che recensire, analizzare e classificare, è necessario parlare, parlare, parlare di quali sono i libri davvero belli, di dove si muova, oggi, il fronte d’onda della letteratura.
Chi non ha mai sentito questo o quello dire che «non si fanno più libri belli»? La stessa persona reagirà con stupore se le si fanno i nomi, che so, di Mathias Énard (appena uscito per E/O il suo, splendido, nuovo romanzo, Il pranzo annuale della confraternita dei becchini), Olga Tokarczuk (nonostante il Nobel!), Georgi Gospodinov, László Krasznahorkai o Mircea Cărtărescu, solo per citare cinque che questo fronte d’onda lo cavalcano in modo incontestabile (eppure, a parte il francese, fare i loro nomi, visto anche il suono esotico, verrà preso dai più come uno sketch sullo stile di quello di Aldo, Giovanni & Giacomo sul mattone polacco, minimalista, di scrittore morto suicida giovanissimo).
Insomma, se in questa sede si può affermare senza troppo tema di smentita che il libro più importante uscito quest’anno è Solenoide del succitato Cărtărescu (traduzione di Bruno Mazzoni), non sarà così facile far capire al potenziale lettore onnivoro che deve davvero andare in quella direzione. Che dire del più importante recupero dell’anno, Dizionario dei Chazari di Mirolad Pavić (nella nuova traduzione di Alice Parmeggiani)? Forse sto uscendo dai binari, sovrapponendo questo potenziale lettore onnivoro a tutt’altro: a uno specificamente avveduto lettore di narrativa; o forse a una sorta di mio lettore ideale.
Torniamo allora ai libri di pensiero capaci di traversare le discipline: che sia lì la risposta? Di certo alcuni autori ci stanno tornando: allora al lettore onnivoro si potrebbe consigliare, al posto di Pascal o Montaigne, Economia dell’imperduto di Anne Carson, portato in Italia da Utopia l’anno scorso (nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli), in cui gli strumenti della poesia e della critica letteraria vengono usati per parlarci del rapporto tra beni e merci, o L’impensato – Teoria della cognizione naturale di N. Katherine Hayles, appena uscito da effequ (traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini), dove la scienza della mente si incrocia con la critica culturale per raccontarci le nuove modalità cognitive che definiranno il «mondo a esperire». Oppure, ancora da Utopia (che formare lettori onnivori sia utopico?), l’imminente Le cose che abbiamo visto di Luís Fernandez Mallo, che lettore onnivoro lo è di certo, vista l’ampiezza dei suoi riferimenti e delle sue citazioni, che lo portano, nei suoi vertiginosi giochi di rimandi e citazioni, a creare una letteratura onnivora. Il suo primo approdo in Italia, con una traduzione Neri Pozza del primo volume della sua «trilogia della Nocilla», non fu fortunato; speriamo che stavolta trovi i lettori che merita, e vedremo, poi, se saranno onnivori o d’altro genere.