ARTICOLO n. 81 / 2022

ERO IO LA CATTIVA DELLE MIE STORIE?

Il corpo culturale

Ripeto ossessivamente gesti e comportamenti da sempre, costruendo una casa involontaria di costanti e sicurezze che, puntualmente, combatto e distruggo. Sulla soglia del buio, ovunque io mi trovi nel mondo, mi siedo sul gradino della porta d’ingresso e scrivo storie sui mostri. Lo faccio da quando, bambina, inventavo fiabe su quegli alberi enormi che sovrastavano la casa al mare, fissandomi sul momento preciso in cui la luce smetteva di filtrare e iniziavano a crearsi ombre sui muri delle abitazioni che potevo raggiungere a occhio dal mio balcone. Una danza macabra via via sempre più affusolata, che declinava progressivamente nella notte. 

Avevo imparato a riconoscere quella sensazione fredda e rigida sulla punta delle dita, l’artiglio leggero e nitido dell’inquietudine. Stavano per uscire i mostri da sotto al letto. Mi eccitava quel pericolo, il potere e la paralisi che ne derivavano, ma non avevo mai abbastanza tempo per poter far salire l’unghia fino alla gola, venivo puntualmente redarguita per aver fatto tardi a cena, aver fatto tardi per la doccia, aver fatto tardi per uscire. Prima di dormire, però, tornavo su quel tremito sommerso, e l’attrazione verso quel mondo non poteva che porre una domanda terribile, e bellissima, allo stesso tempo: ero io la cattiva delle mie storie?

Negli anni ho progressivamente smesso di andare tutte le estati in quella casa coperta dagli alberi, ma ho iniziato a riprodurre quel movimento tra luce e ombra in tutti i posti che mi hanno portata via da lì. L’ho fatto dal terrazzo spoglio del mio palazzo di Praga pieno di escrementi di piccione e di topo, dalla finestra dell’archivio storico di Sumperk mentre guardavo le foreste delle mie streghe, dai gradini di pietra della biblioteca scientifica di Harvard prima di un congresso, dal ponte del traghetto che mi riportava a Hiroshima. Ho guardato le ombre del mondo e le ho scritte, ho cercato nelle venature fluide che precedono il mondo lunare uno schema forse, sicuramente qualcosa che potesse, ancora una volta, costruire una casa di costanti e sicurezze su cosa sono i mostri, capire quando lo diventano, sapere se io alla fine sarei stata la cattiva della mia storia o, forse, se mai avrei avuto il coraggio di mollare la presa. Poi, una sera, seduta sul bracciolo del divano di casa mia, quello che guarda da una finestra davvero molto grande il resto del mondo dall’alto, ho smesso di fissare le ombre e di averne paura, buttandomici in mezzo. Lì, al buio, ho tirato forte dalla sigaretta e ho pensato alla caverna di Platone. 

All’inizio del settimo libro della Repubblica, Platone racconta di questi prigionieri incatenati sin da bambini dentro una grotta, il collo stretto, la faccia al muro. Possono vedere solamente le ombre che vengono proiettate grazie a ciò che avviene alle loro spalle: una porta da cui entra la luce si scaglia contro un muretto sul quale vengono depositati oggetti. 

In questa condizione, i prigionieri sono convinti che le ombre siano l’unica verità quando in realtà sono solo void areasche si colmano di ciò che loro vogliono vedere. Il mito prosegue con la liberazione di un prigioniero che, rendendosi conto delle statuette, comprende anche l’artificio dell’ombra e decide di uscire dalla caverna per vedere gli oggetti in piena luce. Ma, una volta tornato dentro per liberare i compagni, non essendo più abituato al buio viene deriso e non creduto. 

Nell’interpretazione tradizionale, le ombre rappresentano l’εἰκασία (eikasia) che nella lingua greca, da Omero in poi, conduce all’immaginazione e all’immagine. Dobbiamo andare con la testa sott’acqua per arrivare più vicini alla meta.L’immagine-ombra di Platone non è prodotto innocuo, ma qualcosa che si produce e si consuma solo offrendosi alla vista, capace di produrre eidolon, idolo, ed eikon, icona, rappresentazioni che appaiono verosimilmente reali ma nascondono, grazie alla radice in comune con la parola phantasma, la menzogna. L’ombra di Platone è, in sostanza, uno stereotipo contrapposto all’Idea che è archétypon, immagine primitiva e vera. Il gioco dell’ombra inizia da qui. Infatti, il movimento che compiono i prigionieri è quello di inserire nello spazio buio della proiezione un significato. Questo significato viene partorito da un processo collettivo che decreta cosa sia quel buio, cosa rappresenti e come si debba usare, in quel momento, all’interno della caverna. 

Successivamente, la definizione data all’ombra di quell’oggetto sarà un modello di comparazione che si adatterà nel tempo e nello spazio ai cambiamenti fisiologici. Infatti, se sul muro della caverna si proietta una delle prime ruote, ancora spigolate, quella diventa la ruota con cui verranno successivamente confrontate le altre che verranno chiamate tali. Ci saranno ruote viste e considerate idonee, coerenti, giuste, e altre che devieranno dal modello iniziale. Ma nel corso del tempo, quella che i prigionieri chiameranno Ruota cambierà notevolmente diventando rotonda, per esempio, ma continuerà a essere un modello a cui fare riferimento in modo meccanico perché precostituito. Ciò che permetterà l’adattamento al tempo che cambia e allo spazio che muta sarà ciò che i prigionieri decideranno di inserire o togliere via via che la conversazione tra loro genererà nuove dinamiche.

Seduta sul bracciolo di quel divano, buttando fuori il fumo dalle narici, ho pensato che le ombre sono solo corpi opachi fino a quando non vengono colmate di storie. Sono le narrazioni della notte dei tempi che forgiano la spada con cui tagliamo il nostro velo della percezione e, con buona pace di Schopenhauer, quello che troviamo non è mai un’immagine primitiva vera (l’archetipo), ma sempre un’immagine derivata e bugiarda (lo stereotipo), utile alla maggioranza per mantenere uno status quo. Non a caso, infatti, i prigionieri rimasti nella grotta deridono colui che torna.

La sorte dell’ombra non è diversa da quella di qualsiasi altro corpo. I corpi che indossiamo, infatti, vengono spogliati del loro valore biologico e rivestiti con modelli culturali e figure cognitive che in realtà non esistono, ma permettono di ordinare e dividerli tutti in tanti contenitori facilmente codificabili: magro/grasso, bianco/nero, abile/disabile, cis/queer, conforme o non conforme. Quando Aihwa Ong scrive Da rifugiati a cittadini, nel raccontare le prove che i cambogiani arrivati ai campi devono superare per poter accedere agli Stati Uniti si ferma sul decalogo dedicato al corpo. Come vestire, che odore emanare, quali espressioni facciali prediligere, quanto sia importante trasformare le linee marcate di differenza per poterle rendere amalgamabili con il nuovo contesto. «I segni e i marchi del corpo biologico vengono così riempiti di nuovo significato culturale, modulando il corpo culturale e uccidendo quello biologico»I corpi dei rifugiati cambogiani si svuotano di loro stessi per riempirsi dei nuovi modelli di riferimento o, se preferite, di nuove storie. Così, per esempio, l’odore delle spezie sui vestiti non resta mai solo una fragranza, ma si trasforma già in un ricordo affettivo perché viene colmato di racconti, famiglia e focolare. Questo modello, però, deve nuovamente svuotarsi e riempirsi perché nella nuova destinazione l’odore familiare ha altre caratteristiche predeterminate e ciò che per i cambogiani è abitudine negli Stati Uniti di nuovo diventa un segnale di pericolo, qualcosa su cui ci si gioca inclusione ed esclusione. I corpi culturali, come le ombre, sono fatti di sazietà ed esaurimento in un eterno movimento simile a quello paziente delle onde.

Ma se è vero che, come le ombre, anche i corpi vengono nutriti di storie, non è altrettanto vero che tutti i corpi si nutrono della stessa materia di cui sono fatte le ombre.

Come queste, infatti, anche i corpi vengono saziati di racconti collettivi che conducono a una formulazione precisa: creare mindful bodies, corpi pieni di mente, permette di inserirli all’interno di schemi predeterminati, e questi schemi diventano dei modelli a cui ambire o da cui fuggire. Il corpo del rifugiato cambogiano deve assoggettarsi alle regole imposte dal contesto culturale in cui approda per poter essere accettato e inserito nella scala normativa di riferimento. Ma anche il corpo femminile deve sottostare a diktat estetici per poter accedere alla società, seppur sempre subordinata alla soddisfazione dello sguardo maschile. E ancora, nessuno di noi esce nudo per strada ma sappiamo di doverci minimamente vestire.

Tutti i corpi, specialmente nel contesto occidentale, subiscono questo passaggio, perché le storie che raccontiamo intorno a un fuoco simbolico hanno un valore educativo e plasmante, individuale e collettivo. Fin dalla creazione dei miti e alla loro successiva evoluzione in leggende, eroi ed eroine – ma anche i mostri – sono fisicamente determinati e divisi in un rapporto dicotomico tra buoni, belli e moralmente retti, e cattivi, brutti e privi di morale.

Questo serve per generare un conflitto costante attraverso cui le dinamiche di potere si mantengono in vita. Se sappiamo cosa è sbagliato, per contrappasso troveremo ciò che è giusto e perseguibile. E qui si annoda l’ombra che per valore storico e culturale accoglie ciò che deve essere nascosto, la paura gelida che sentivo da bambina su quel balcone, i mostri.

L’universo delle narrazioni sommerse è popolato di creature dai corpi distorti, devianti e mutanti, quelli che sulla superficie diventano i corpi non conformi e, quindi, marginalizzati. Siamo noi, tutti i giorni, a tenere lo sguardo fisso sulla parete della caverna e usare gli stereotipi per decretare il nostro successo. La formulazione del corpo mostruoso riguarda le storie, certo, ma anche il modo in cui partecipiamo all’atto collettivo di partorire narrazioni e stereotipi che rispondano a una sola enorme domanda: sono io la cattiva della mia storia? Come i prigionieri della caverna di Platone, seduti spalle al fuoco, soli, guardiamo la parete su cui la paura di fallire, enorme, si proietta dimenticandoci di essere noi, in fondo, i mostri.

ARTICOLO n. 93 / 2024