ARTICOLO n. 53 / 2022
CONVERSAZIONE CON MICHAEL Z. WISE
Che cosa significa essere un editore?
Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Michael Z. Wise è il cofondatore di New Vessel Press, e ha lavorato come corrispondente a Vienna, Praga e Londra per la Reuters e il Washington Post
A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?
MICHAEL Z. WISE: L’idea della carriola sembra suggerire che ci limitiamo a riversare camionate di libri sulla pubblica piazza, mentre alla New Vessel Press selezioniamo con attenzione tutto ciò che pubblichiamo. Il nostro catalogo non potrà essere paragonato in tutto e per tutto a un romanzo, ma scegliamo sempre con cura i testi da tradurre: una mezza dozzina di libri l’anno, con l’obiettivo di portare testi di qualità dalle altre lingue in inglese. Di Calasso mi piace citare un’altra massima, secondo la quale il compito di un editore è faire plaisir a una tribù dispersa di persone alla ricerca di qualcosa «che sia oro e non tolla».
A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?
M.W. Siamo molto orgogliosi di essere gli editori dell’autore russo Sergej Lebedev e di aver pubblicato tre dei suoi romanzi, oltre a un quarto che uscirà a breve nella splendida traduzione di Antonina W. Bouis. Lebedev, in particolare nel suo Oblivion, è tra i primi autori russi del XXI secolo a sondare l’eredità del sistema dei campi di prigionia sovietici e la sua scrittura densa e ponderosa ha la capacità di evocare alla perfezione gli orrori del passato e le loro ripercussioni sul presente. Tradurre Lebedev, uno dei migliori autori russi in circolazione, è una sfida davvero emozionante e rivedere il suo lavoro è estremamente gratificante.
A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?
M.W. Di recente abbiamo concesso in licenza i diritti delle nostre traduzioni inglesi dei racconti di Anna Maria Ortese dall’antologia Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles, ad opera di Ann Goldstein e Jenny McPhee, per delle produzioni teatrali della Columbia University di New York. Molti dei nostri libri, poi, hanno a che vedere con le arti visive vecchie e nuove, inclusi The Eye di Philippe Costamagna, sulla connoisseurship e sul profondo piacere di osservare i quadri dei vecchi Maestri, e A Few Collectors di Pierre Le-Tan, sull’eccentricità di chi tende ad acquistare opere d’arte d’ogni sorta. Naturalmente, si tratta di titoli orientati ai lettori che si interessano al mondo dell’arte e promossi da gallerie e librerie museali. Inoltre, abbiamo pubblicato un lavoro a stampa nato interamente tramite nuovi mezzi di comunicazione, in particolare da una serie di tweet e dalle foto che li accompagnavano. Il volume si intitola The Madeleine Project, di Clara Beaudoux, ed è un opera di saggistica davvero innovativa, in cui si racconta di una giovane donna che si trasferisce in un appartamento a Parigi e documenta la vita e gli effetti personali della precedente inquilina sul proprio feed di Twitter.
A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?
M.W. Sebbene nei momenti più bui ci sia una tendenza a disperare per il ruolo ormai limitato dei libri nella società contemporanea, in mezzo a tante altre distrazioni, io sono convinto che i libri continuino ancora oggi a esercitare l’impatto fondamentale sul pensiero e sulla percezione che gli è proprio da secoli.
A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?
M.W. In realtà, alla New Vessel Press non cerchiamo tanto il lettore ideale quanto il libro ideale, capace di solleticare l’interesse di menti curiose. Ci concentriamo su opere di narrativa e saggistica in lingue diverse dall’inglese, considerate di qualità letteraria eccezionale e in grado di offrire informazioni interessanti sulla vita e la società in altre parti del mondo.
A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?
M.W. I libri migliori, specialmente quelli che vantano particolari origini linguistiche e geografiche e sono in grado di rispecchiarle, contengono delle verità universali. È vero che non esiste una casa editrice interamente europea, ma per me è sempre un’emozione partecipare alla Fiera del libro di Francoforte, dove l’Europa risulta profondamente viva in un modo che non si riesce a percepire altrove. È vero, lo spirito di cooperazione tra gli Stati europei si è decisamente rinsaldato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma a Francoforte l’utopia letteraria già esisteva, almeno in una certa misura, poiché ci si trovano sempre europei che parlano una grande varietà di lingue e che hanno un’ottima comprensione degli sviluppi culturali nei paesi vicini, oltre che in zone del continente più remote.
A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio quelle a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dal primo momento, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?
M.W. Capisco il desiderio di adottare uno schema di copertine uniforme, esteticamente coerente e in grado di saltare all’occhio. Tuttavia, trovo che si rischi di ottenere un risultato scialbo e vuoto, senza potersi dedicare al piacere creativo di ideare una copertina eccezionale, in grado di rispecchiare il libro che si ha sotto mano. Impegnarsi a trovare un design che aiuti ad attirare l’attenzione dei lettori, perché non si limitino a comprare ma anche a leggere una particolare opera, è parte di ciò che distingue l’editoria dalla semplice stampa.
A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?
M.W. Noi di New Vessel Press abbiamo accolto con favore l’adattamento dei nostri classici libri cartacei in ebook e audiolibri. È possibile che nel prossimo futuro nasceranno altri formati innovativi, tramite tecnologie oggi sconosciute ma parimenti all’avanguardia. Sotto sotto, però, l’esperienza della parola scritta rimane quella che era ai tempi di Johannes Gutenberg, anche se oggi viviamo nell’era di Jeff Bezos.
A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?
M.W. Sì, la traduzione inglese del nostro secondo libro di Marina Jarre, Ritorno in Lettonia, ad opera di Ann Goldstein, dopo il successo della sua autobiografia I padri lontani, da noi pubblicato [con il titolo Distant Fathers] nel 2021. Ma anche la traduzione di un romanzo brasiliano ambientato nelle favelas, che parla di una relazione segreta e della potenza della parola scritta. Il volume si intitola The Words That Remain, di Stênio Gardel ed è stato tradotto dal portoghese da Bruna Dantas Lobato. Infine, citerei un romanzo israeliano molto profondo e divertente in cui si analizza quella che è la mentalità contemporanea su tematiche come la schiavitù e l’eredità del colonialismo. Il titolo è Professor Schiff’s Guilt, di Agur Schiff, tradotto dall’ebraico da Jessica Cohen.
A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?
M.W. Diario Londinese di Boswell, Alla ricerca del tempo perduto di Proust e Il mondo di ieri di Stephan Zweig. Sì, sono indubbiamente un cittadino, e pure un po’ nostalgico.
Traduzione di Camilla Pieretti