ARTICOLO n. 46 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANDREA MORO

Che cosa può fare una lingua?

Sin da Breve storia del verbo essere leggo i libri di Andrea Moro. Professore ordinario di linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia. Sia linguista sia neuroscienziato, e anche romanziere, i suoi libri non sono mai solo tecnici: indagano in vario modo la natura di questa strana specie, quella umana, cui apparteniamo. Ho incontrato Andrea per la prima volta tempo fa in una lunga chiacchierata Zoom, nel pieno della pandemia. In quell’occasione abbiamo discusso di quel grande organismo vivente che è il linguaggio, e non solo. Questo dialogo scritto è la sintesi di quell’incontro. 

Andrea Gentile: Andrea, anche se continuiamo a credere che sia un problema, o addirittura a negarlo, ogni istante della nostra vita è fatto per sorgere e svanire. La valanga di informazioni e algoritmi del digitale sposa questa dimenticanza: anzi, ne è forse la più grande alleata, in tutta la storia umana. L’incanto dell’essere vivi, dunque presenti, è molto lontano da noi. Come percepisco una sensazione avendo di fronte lo scroll infinito dello smartphone?

Andrea Moro: Una volta commentai il linguaggio di papa Francesco e nell’analisi del suo discorso trovai, tra le dieci parole più frequenti, la parola «odore»: diceva che bisognava amare le persone di cui si riusciva a sentire l’odore. Qui e ora ci troviamo a parlare attraverso uno schermo in videochiamata: sentiamo le nostre voci, vediamo i nostri visi ma dobbiamo immaginarci il resto, primo tra questi l’odore che emaniamo. Ma ci siamo abituati a questa anestesia tecnologica dei sensi. Basta pensare a tutte le rubriche e le foto di cibo che ci circondano: anch’esse esprimono sensazioni monche. Fotografare il cibo è un ossimoro cognitivo, non appare nulla di ciò che vale la pena di rappresentare: né la consistenza né l’odore né il sapore. 

A.G. Sì, è pura narrazione. Penso al peso della parola, che è complementare al peso dell’empatia. Penso all’«altro», che è un territorio ignoto che continuamente deve essere scoperto, e per essere scoperto c’è bisogno innanzitutto di un dissolvimento di una parte di «io»; altrimenti l’altro nemmeno riesco a sentirlo. Come in questa conversazione, se continuo a pensare a me stesso, Andrea Moro non posso sentirlo. Ma se è vero che «sento dunque sono», mi chiedevo, che cosa c’è tra la nostra percezione del sentire e il modo in cui utilizziamo le parole? Come le parole restituiscono certe percezioni? Come la mia parola è in grado di restituire la percezione che io sto sentendo adesso? Adesso, per esempio, sono contento di avere questo dialogo con te. E allora, se guardo bene, se medito, questa emozione restituisce una sensazione all’altezza dello stomaco. Come traduco questa sensazione in parole?

A.M. Devi tenere conto che le parole non esistono isolate, sono sempre immerse in strutture sintattiche, però noi esseri umani le vediamo. Ora ammettendo come premessa che la parola da sola non c’è, posso comunque provare a restituire una mia impressione.

A.G. Sono curioso di ascoltarti.

A.M La questione dell’empatia secondo me è decisiva; hai fatto bene a sottolinearla. Ci sono delle parole sulle quali non c’è ambiguità e sono parole funzionali come i pronomi o la negazione, ad esempio. A te non è simpatica la parola «io», perché ti pare che il contenuto associato ad «io» offuschi l’altro. Ma dal punto di vista linguistico, i pronomi come io non possono far sparire l’altro, perché la definizione di io implica necessariamente un tu

A.G. Certo. 

A.M.  È come tentare di dare la definizione assoluta di un colore qualsiasi, come il bianco: il bianco non può essere definito in assoluto ma solo come opposto ad altri colori. Allo stesso modo non si può definire il soggetto se non si ha il predicato. Molte parole del linguaggio non sono ancorate a sensazioni o percezioni di proprietà fisiche o di relazioni tra oggetti o persone ma alla logica. I morfemi possono aiutarci a capire meglio. Sono quei mattoni che costruiscono le parole: in tavolo è presente il morfema lessicale tavol- e il morfema funzionale –o. In prima approssimazione, possiamo dire che i morfemi funzionali sono quelli che non appartengono alle sensazioni e percezioni. Per esempio, non non può essere una sensazione. Se dico «se piove o non piove»: in un caso si è bagnati e nell’altro no, però il ruolo logico della parola «non» in una frase non è legato direttamente a una sensazione: il suo ruolo è di capovolgere le condizioni nelle quali la frase è vera. 

A.G. Sono molto d’accordo. Questo è il fulcro centrale della letteratura e intendo proprio letteratura, non narrativa. Nella narrativa tutto è quello che viene detto. Nella letteratura tutto è quello che non viene detto.

A.M. Sì, hai ragione: pensa alla parola casa. Tra me e te potrebbe avere significati e connotazioni diversi. Io potrei aver «perso la mia casa» oppure dovermi «trasferire di casa» o aver «ereditato una casa» bellissima. Io casa lo pronuncio in modo diverso da te che per casa intendi aver pagato l’affitto stamattina. Come facciamo a stabilire che condividiamo entrambi lo stesso significato di casa? Non si sa, è un patto che facciamo io e te. Io credo nel famoso problema della vaghezza, il tipico esempio della vaghezza si fa con il termine calvo: immaginiamo una persona completamente pelata e domandiamoci «è calva?», «sì», aggiungiamo un capello e chiediamo «è ancora calva?». La risposta molto probabilmente sarà sì. Ancora ne aggiungeremo due, «è ancora calva?», e vedremo che non si capirà bene quanti capelli dovremo aggiungere ad un calvo per dire che non lo è. Ecco io credo che tutti i significati siano in qualche misura vaghi. Le parole indicano solo dei «limiti»: forse per questo un sinonimo di «parola» è proprio «termine».

A.G. Come facciamo ad aderire entrambi allo stesso significato della parola? 

A.M Nessuno può rispondere in modo completo ma ci sono molte osservazioni interessanti a propositoTi farà piacere sapere che esiste una tecnica linguistica con la quale cerchiamo di spurgare i significati aggiunti e scegliamo quello all’interno della polisemia più condiviso possibile: la re-duplicazione. Supponiamo che io abbia uno studente che risiede a Pavia e abbia una casa in questa stessa città, lo studente però è molisano e ha una casa anche in Molise. Viene da me e mi dice: «Professore, io torno a casa» e io gli dico «Ma casa-casa?» dicendogli casa-casa, cioè con la reduplicazione, io lo obbligo a scegliere tra i due significati quello che contiene meno informazioni accidentali, cioè la sua «vera» casa. È un trucco con cui facciamo precipitare, come se fosse una reazione chimica, il significato meno ambiguo di tutti: e vale con tutte le parole, praticamente, meno quelle funzionali. È chiaro che non si può trattare di una questione soltanto intuitiva o aneddotica; deve essere un fatto sistematico, linguistico: per poter parlare dobbiamo fare un patto con chi ci ascolta sulla condivisione minima di significato tra le parole, sapendo tutti e due, coscienti o meno, che è un patto fragile perché le parole sono quasi tutti polisemiche; tranne appunto quelle che abbiamo definito logiche. Infatti, è difficilissimo immaginare nelle parole logiche una re-duplicazione, perché quando diciamo «non piove» non diciamo «non-non». Funziona solo dove c’è una polisemia. La reduplicazione “stana” la polisemia.

A.G. Oltre alle parole logiche e a quelle polisemiche possiamo individuarne altre? 

A.M. Sì. Ci sono molte parole per così dire “astratte” e anche con esse è interessante chiedersi se passano attraverso le sensazioni. Io questo concetto l’ho dovuto affrontare sulla questione del verbo essere. Sostengo che avesse ragione Aristotele: il verbo essere è soltanto un verbo che esprime il tempo e tutte le proprietà delle frasi del verbo essere non derivano da una polisemia del verbo essere ma dalle diverse strutture sintattiche nelle quali si trova. 

A.G. Spesso mi chiedo fin dove arrivano le parole. Tu in qualche modo lo dici, «dove non arriva la parola arriva il cervello», che è un sistema talmente complesso che mi permette di elaborare delle metafore molto forti. Ma qual è il luogo in cui le parole non sono in grado di restituire le mie emozioni, le mie sensazioni, il mio essere? Le parole in alcuni luoghi, in alcuni momenti sembrano non arrivare a restituire la sensazione vera che io sto provando. Come il ti amo. Quante polisemie ci sono dietro a questa espressione? Può essere molto meccanico, persino kafkiano. Ti amo vuol dire tutto e nulla, proprio perché si sedimenta su un immaginario.

A.M. Ci sono, secondo me, due livelli. Tu ora stai trasferendo il percorso della comunicazione da quando la strategia di comunicazione è efficace a quando invece la strategia con sé stessi e con gli altri non funziona. Si può riconoscere in due modi: uno, che è più semplice, è rendersi conto che quello che si sta dicendo, come si dice in italiano, «non rende l’idea». Questa è un’espressione “magica” che più di altre fa esattamente capire quello che sta dietro. «Non rendere l’idea» vuol dire che si ha una netta percezione di qualcosa ma non si è capaci di trasmetterla, cioè le parole scelte non soddisfano la nostra intuizione. Ti faccio un esempio. Da ragazzo andavo a Brooklyn a veder calare il sole, e telefonavo a casa, alle persone a cui volevo bene per cercare di descriverlo e alla fine dicevo sempre «Non ce l’ho fatta, devi venire qui!». Perché c’è un livello della parola che sono consapevole non renda l’idea.

A.G. Mentre il secondo livello a cui accennavi?

A.M. Il livello di non-corrispondenza. Questo secondo livello l’ho riscoperto in modo prepotente perché è l’unica cosa buona che ha partorito in me il Covid. Non come malattia ma come condizione. Quando è iniziato mi sono promesso che avrei letto un canto a sera della Divina Commedia, e a fine quarantena l’avrei finalmente letta tutta intera. Sono rimasto folgorato e tra le tante scoperte quella dell’incapacità di dire. Dante capisce molto bene che c’è qualcosa che non si può dire ma noi esseri umani siamo anche fortunati perché, accanto a questa sensazione, abbiamo anche una parola precisa, o un termine almeno, per identificare proprio ciò che non si può dire, cioè l’ineffabile. Se ci pensi, questo è un “miracolo” lessicale: è una parola che esprime esattamente l’incapacità di esprimersi a parole; questo è stupefacente, perché significa che c’è un limite intrinseco nel linguaggio. Torna ancora la riflessione sulla parola termine. Perché se ci pensi in realtà è una derivazione della logica medievale, il termine esprime esattamente il confine ma non il contenuto. Qui entro in una terza accezione discussa anche con Chomsky: non accettare l’idea di una traduzione automatica da una lingua all’altra, salvo casi banali. Questa idea la condividiamo sia io che te! Una macchina non traduce: trasferisce automaticamente e approssima senza capire.

A.G. In quanto una macchina non ha sensazioni con cui elaborare le parole. 

A.M. Si, ma non solo. Ammettiamo che possano esserci delle sensazioni artificiali, che istruiamo la macchina per avere freddo, aver fame ecc… Il punto sostanziale è che la macchina non può avere la sensazione di non avere detto delle cose che invece provava: per la macchina il termine «ineffabile» non ha senso, perché non può avere la sensazione di non aver reso l’idea. Il luogo tutto umano della comunicazione è forse proprio lo scarto tra quello che vogliamo dire e quello che riusciamo a dire. 

A.G. Sì, la macchina è senza pelle. 

A.M. Questo vuol dire che nella visione del linguista c’è l’idea che il non-detto, quello che sfugge, esattamente come tu dici, è una parte integrante del nostro sistema. Non può essere escluso, non è un difetto. È una parte costitutiva, se no saremmo delle macchine! In questo difetto sta il proprium della questione. Infine, c’è un ultimo punto: quando il linguaggio viene usato come copertura. Noi diamo per scontato che il linguaggio serva per comunicare. Ci sono però dei problemi di efficacia ovvero quando il linguaggio copre. Lo possiamo facilmente riscontrare nella medicina contemporanea, è emerso in La razza e la lingua.  Fino agli anni Quaranta tutte le patologie venivano comunemente descritte dalla comunità scientifica prendendo delle radici greche, e formando dei neologismi come ad esempio «gastroenterologia», «emicrania» ecc; allo stesso modo le parole di altre discipline o della tecnologia, come altri termini scientifici per esempio «telefono», «bicicletta» ecc. Il linguaggio era fatto per comunicare il più possibile, formando sempre più spesso parole nuove: una persona di cultura anche non specialista sapeva intuire cosa volessero dire questi neologismi ed erano anche facili da memorizzare. Negli anni Cinquanta, la medicina soprattutto ma non solo ha cambiato comunità di riferimento spostandosi negli Stati Uniti dove la cultura classica era ed è molto meno frequentata. Le nuove patologie sono tipicamente espresse in acronimi: HIV/AIDS, GERD, DHD; e così anche i termini tecnici: modem, laser, ecc. Ma gli acronimi hanno un effetto preciso e valutabile sulla comunicazione e anche sulla comunità stessa: un acronimo per essere compreso deve avere qualcuno che lo sciolga, non basta la cultura: deve esserci, per così dire, un sacerdote depositario della verità che li scioglie, quindi tu che non ne sei a conoscenza diventi un suddito ignorante. 

A.G. Affascinante questo: la medicina genera sigle esoteriche. Il paziente è sempre più escluso. Ha di fronte sacerdoti, non medici.

A.M. L’acronimo è il linguaggio usato come copertura, qualcuno detiene la chiave per il significato: tipicamente, gli altri no. Quindi questo è il tentativo opposto a quello che sono invece la divulgazione e la condivisione. Anche questo secondo me è un fatto notevole del linguaggio: la copertura. 

A.G. Mi ha colpito molto un’immagine che segna i tuoi libri: vedere il pensiero.

A.M. Ecco: ancora una volta c’è la parola vedere nell’idea. Io penso che la storia dell’umanità, stia tutta nel passaggio tra Erodoto e Tucidide. Lui, Erodoto, inizia con le storie, e sappiamo che l’etimologia di storia deriva dal verbo «vedere». Erodoto per primo racconta quello che vede non il mito. Poi Tucidide non usa più la parola storia ma usa la parola autopsia che è un’altra radice del verbo «vedere»: è vero che vedo ma vedo io stesso, quindi sono io il protagonista della visione. Il punto più alto della metafora del vedere come conoscere sta per la mia sensibilità personale nel Vangelo di Giovanni dove a quel punto lì è tutto visibile anche quello che non dovresti vedere, quello che non c’è, la prova apparentium.  

A.G. Sì, perché oltre che vedere il pensiero c’è anche la constatazione, utilizzando un sintagma poetico, che dietro la parola si nascondono delle altre parole. Bisognerebbe vedere anche cosa c’è dietro una parola. Robert Walser in La passeggiata ad un certo punto scrive, «basta con la vita dei pensieri», che vuol dire anche basta con la vita delle parole. Quindi, anche: ciò che c’è dietro le parole. Ma c’è un altro stimolo che tu affronti nei tuoi lavori: la questione delle lingue impossibili. Cosa spinge un essere vivente a generare un sistema di questo tipo? Per quanto riguarda una persona che non ne fa una professione come me è veramente un grosso mistero. Qual è l’impulso neuroscientifico, sentimentale, umano per elaborare una lingua artificiale, per esempio? 

A.M. Sei il primo che mi fa questa domanda, ed è quella che mi sta più a cuore perché tocca un punto centrale: chiunque l’abbia fatto ha voglia di immaginare una cosa impossibile. Ci sono due risposte alla tua domanda. Una razionale e scientifica, che ho utilizzato negli esperimenti di neuroscienze: per capire quello che c’è si può anche capire come mai non c’è quello che non c’è. Questo però non esaurisce la risposta a quello che tu hai posto e si riconosce una risposta emotiva, forse generata dalla paura: quando si ha paura di qualcosa, spesso si desidera che quel qualcosa arrivi perché l’attesa è troppo lunga e spesso più dolorosa della realtà. La paura dell’invenzione di una lingua che ti domini è una delle mie paure, certo non solo mia. Questa paura è stata certamente una delle spinte che mi hanno “costretto” a scrivere un romanzo (Il segreto di Pietramala) che avesse come protagonista una lingua capace di uccidere: la paura e la consapevolezza della complessità di questo codice straordinario che abbiamo solo noi esseri umani inscritto nella carne. Quello che ci fa dire oggi che la carne si è fatta logos, capovolgendo una visione che dura da duemila anni.

A.G. È sempre quello, Andrea, è sempre per quello, viviamo sempre per quello. La paura è la più grande compagna della nostra specie, persino più della morte.

ARTICOLO n. 93 / 2024