ARTICOLO n. 36 / 2022
CONVERSAZIONE CON ALESSANDRO GALLENZI
Che cosa significa essere un editore?
Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno.
A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?
A. GALLENZI: Entrambi rientrano nella mia filosofia editoriale. Da un lato concordo con chi, come Giangiacomo Feltrinelli e il suo amico John Calder, di cui abbiamo ereditato le pubblicazioni, sostiene che l’editore sia un canale non solo tra autori ed editori, ma anche tra passato, presente e futuro. A volte un editore serve a mantenere viva un’eredità che altrimenti verrebbe dimenticata. Qualche tempo fa abbiamo pubblicato una traduzione inglese di Costantinopoli di Edmondo De Amicis, volume che era fuori catalogo da anni anche in Italia, ed Einaudi è rimasto talmente colpito dalla nostra idea da farlo ristampare anche in italiano. Questo genere di contaminazioni è fondamentale per l’editoria. D’altra parte, è anche vero che mi sento più vicino all’approccio di Roberto Calasso e mi piace pensare che il nostro catalogo, nel suo complesso (con qualche rara eccezione), sia in grado sia di rispecchiare i nostri gusti, sia di presentarsi come il tentativo di creare un’opera d’arte a sé. Un’immagine che mi piace utilizzare per descrivere un editore è quella del curatore di una galleria d’arte, che seleziona una serie di opere e trova un tema che le accomuni, comunicando con i visitatori in toni semplici e dimessi. Calasso era un maestro in questo, perché è molto importante che il messaggio non sia troppo appariscente o importuno e che gli editori sappiano fare un passo indietro e lasciar andare le proprie creazioni.
A. GENTILE: Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?
A. GALLENZI: Credo di essere molto fortunato, per non dire privilegiato, perché la mia esperienza di traduttore e i miei interessi in campo linguistico mi hanno aiutato a vedere i testi in maniera diversa e a riconoscerne la bellezza e la complessità, con tutte le loro sfaccettature. Sono sempre stato un lettore lento, analitico, e ci sono una serie di libri su cui continuo a tornare come metro di misura del mio lavoro di editore. La Divina commedia, la Vita nuova e le Rime di Dante sono tra le opere più importanti del mio sviluppo sia come lettore sia come editore. Poi citerei le opere di Dostoevskij, Bulgakov, Gogol, le poesie di Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. In più, ho una vera passione per Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. Ma potrei andare avanti a lungo, perché il problema è che, quando si scopre la bellezza della letteratura, ci si sente quasi obbligati a condividere la propria passione con gli altri.
A. GENTILE: Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?
A. GALLENZI: I libri sono strumenti estremamente duttili e versatili, capaci di adattarsi ai tempi. È un formato che è rimasto (perlopiù) inalterato nei secoli, sebbene i contenuti continuino a mutare per rivolgersi a generazioni di lettori sempre nuove. Come casa editrice, noi non siamo contrari al cambiamento e ci siamo adeguati alla rivoluzione dell’ebook, ma tendiamo a opporre più resistenza alle ultime mode o alle tendenze passeggere, come i libri scritti da influencer o i romanzi epistolari informa di email, messaggio di testo o tweet. Non abbiamo niente in contrario a nuove idee capaci di coinvolgerci ed emozionarci, ma i nostri sono gusti abbastanza tradizionali e non ci piacciono i libri zeppi di trovate ad effetto. In breve, il nostro programma non include molti titoli “multimediali”.
A. GENTILE: Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?
A. GALLENZI: I libri sono strumenti versatili ad ampissimo raggio, capaci di intrattenere, mettere in discussione idee, regalare momenti di evasione, suscitare emozioni, favorire scoperte, generare dibattiti e via dicendo. I lettori possono ricavarne quello che vogliono. Lo stesso libro, poi, è in grado di suscitare reazioni diverse in persone diverse. Un libro può innescare o sedare una rivoluzione. Un libro può cambiarti la vita. Credo sia la forma di comunicazione più sofisticata al mondo, perché riesce a impegnare le nostre menti in maniera assai più profonda del cinema, delle arti visive, della musica o dei media digitali, che si basano perlopiù su vista e udito. Dal momento che la nostra essenza si costruisce sul pensiero e sul linguaggio, i libri riescono ad assorbire la nostra mente, offrendo una maniera più complessa di interrogare la realtà fuori e dentro di noi. Keats ha paragonato la sua prima lettura di Omero alla scoperta di un nuovo mondo, mentre Borges ha equiparato il primo incontro con Dostoevskij alla scoperta dell’amore o dell’oceano: un momento indimenticabile della propria vita. In poche parole, un libro consente di accedere a un mondo fisico e spirituale del tutto nuovo, da esplorare e riscoprire tutte le volte che si vuole nel corso della propria vita. In più, sì, anch’io sono convinto che i libri siano in grado di offrire emozioni uniche, ragion per cui hanno avuto tanto successo nella storia dell’umanità.
A. GENTILE: A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?
A. GALLENZI: Il mio “cortese spettatore” (per citare il prologo del Troilo e Cressida shakespeariano)[CP1] è curioso, intelligente, indagatore e comprensivo, ama le sfide ma non è mai petulante né pedante. Voglio poter condividere i miei gusti e i interessi con i miei lettori, voglio che possano provare un po’ della gioia e dell’allegria che mi hanno spinto a pubblicare i libri che porto alla loro attenzione. Ogni libro è un invito aperto, ma, siccome so che è impossibile accontentare tutti, per me è questione di spargere dei semi che possano crescere, più che di sperare che qualcuno abbocchi alla mia esca.
A. GENTILE: A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per i lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?
A. GALLENZI: Ci hanno già provato in molti, ma senza successo. C’è stato un periodo in cui, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, un gruppo di editori accomunati dalla stessa mentalità e visione politica (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, le case editrici olandesi Bezige Bij e Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois e altri) ha creduto che sarebbe stato possibile pubblicare i libri migliori d’Europa in tutte le lingue principali. A far naufragare il progetto sono state le forti individualità dei partecipanti e l’enorme divario nei gusti e nelle aspettative dei lettori da un paese all’altro. L’editoria è un’attività caratterizzata da una forte idiosincrasia. Forse è proprio questo a rendercela così affascinante: la cosiddetta “bibliodiversità”, un concetto che in realtà sarebbe importante coltivare e salvaguardare. Credo che oggi realizzare un progetto come quello sarebbe ancora più difficile (soprattutto per ragioni legate alla complessità del mercato e al passaggio a un’editoria più commerciale), eccetto forse per operazioni molto commerciali come quelle relative alle saghe di Harry Potter ed Elena Ferrante, sebbene il recente passato ci abbia dimostrato che non esistono formule garantite, nemmeno per i best seller: ciò che ha successo in Francia non piace in Gran Bretagna, quel che fa impazzire Italia e Spagna in Germania viene considerato noioso e così via.
A. GENTILE: Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?
A. GALLENZI: Poco dopo aver iniziato la mia carriera editoriale in Gran Bretagna ho scoperto che, per avere successo lì, avrei dovuto ritarare la mia bussola di editore e produttore. Se avessi potuto seguire il mio istinto e il mio gusto personale avrei aderito al modello francese di Fayard e Gallimard, o il modello italiano di Adelphi e Sellerio. Alcune case editrici inglesi ci hanno provato (la prima Pushkin Press, Maia, Peirene, ecc.), ma non sono mai riuscite a liberarsi dalla percezione di essere editori “di nicchia”, difficili e inaccessibili. Per quanto mi riguarda, con Hesperus come con Alma, ho cercato di dare particolare enfasi alla cura editoriale, alla qualità della traduzione e all’aspetto estetico del libro, facendo ricorso a copertine con immagini o illustrazioni fuori dall’ordinario, in grado di far risaltare ogni volume a sé e non come parte di una serie. Abbiamo utilizzato carta sottile Arctic Paper e alette molto ampie, ma i nostri libri sono sempre stati considerati accessibili e hanno riscosso grande successo tra vecchi e giovani. Il motto di Hesperus era “Et remotissima prope”, cioè “avvicinare ciò che ci è lontano” (in termini sia di spazio che di tempo), e siamo riusciti a fare esattamente quello, anche dove altri avevano fallito: siamo riusciti a trovare la giusta formula commerciale senza dover rinunciare alla nostra integrità di editori. Il mercato britannico è in continua evoluzione e per avere successo noi dobbiamo evolvere con lui, senza fossilizzarci su un unico approccio.
A. GENTILE: Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?
A. GALLENZI: Sono completamente d’accordo con Umberto Eco, anzi, il paragone tra un libro e una forchetta e un cucchiaio ricorre molto spesso nei miei interventi sull’editoria, a dimostrazione che ci sono oggetti perfetti così come sono, senza bisogno di migliorie. I PDF da leggere online o su tablet e gli ebook per Kindle non sono altro che una versione scadente e meno valida dell’originale cartaceo. Voglio credere (e il recente revival dei libri stampati in tutti i mercati ne è testimone) che i libri rimarranno immutati, sempre pronti ad adattarsi nel contenuto e nell’estetica per poter parlare alle nuove generazioni, ma senza perdere il seducente piacere che ci trasmettono da secoli.
A. GENTILE: Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?
A. GALLENZI: Non vedo l’ora di pubblicare le ritraduzioni inglesi[CP2] di Delitto e castigo e di Pinocchio, oltre che di portare alla luce a una perla letteraria assai poco conosciuta di Charles Dickens, Pictures from Italy, in cui l’autore descrive le proprie impressioni nell’anno in cui ha vissuto nel nostro paese, tra il 1844-45. Inoltre sono molto contento perché, dopo l’uscita di una traduzione a mio nome delle lettere di John Keats per Adelphi, La valle dell’anima, a settembre Alma pubblicherà il mio primo volume di saggistica, Written in Water, sugli ultimi mesi trascorsi dal poeta in Italia fino alla sua morte.
A. GENTILE: Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato che, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a mandare alle stampe, quale sarebbe?
A. GALLENZI: Ce ne sono tantissimi, ma uno che continuo a riprendere in mano e poi a rimettere sullo scaffale è Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan, forse troppo denso e dal ritmo troppo lento per un’epoca con una curva dell’attenzione ridotta come la nostra.
Traduzione di Camilla Pieretti.