ARTICOLO n. 23 / 2022

CONTRO L’OSCURITÀ

Traduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini e Marco Piazza

«Appartenete alla nuova scuola?» domanda a ogni studente di vent’anni che si occupi di letteratura ogni signore di cinquanta che non se ne occupa. «Per conto mio, confesso che non ne capisco un gran che, bisogna esser iniziati… Del resto, non c’è mai stato tanto talento come oggi: quasi tutti ne hanno.»

Sforzandomi di cavar fuori dalla letteratura d’oggi alcune verità estetiche di cui mi sento tanto più sicuro in quanto lei stessa le segnala, col negarle, rischio di espormi all’accusa di voler sostenere prima del tempo la parte del signore cinquantenne. Tuttavia, non parlerò come lui. Sono infatti convinto che, come tutti i misteri, la Poesia non ha mai potuto esser interamente intesa senza iniziazione, e nemmeno senza vocazione. Quanto al talento, che non è mai stato molto comune, sembra che solo di rado ce ne sia stato meno di oggi. Certo, se esso consiste in una certa retorica comune che insegni a fare «versi liberi», allo stesso modo che un’altra retorica insegnava a comporre «versi latini», e che renda accessibili a tutti le «principesse», le «malinconie», «pensose» o «sorridenti», i «berilli», si può ben dire che oggi tutti ne son dotati. Ma codeste non sono che vane conchiglie, vuote e sonore, pezzi di legno infracidito o rottami di ferro arrugginito, gettati sulla riva dai flutti e di cui può impossessarsi anche il primo venuto, se gli garba, finché la generazione, ritirandosi come la marea, non li porti via. Ma che cosa si può fare con pezzi di legno imputridito, spesso rottami duna bella armata antica, immagini mal riconoscibili di Chateaubriand o di Hugo?

Ma è tempo di venire all’errore di estetica che ho voluto segnalare qui e che mi sembra renda privi di talento tanti giovani originali, se il talento è qualcosa di più dell’originalità del temperamento: vale a dire, il potere di ridurre un temperamento originale alle leggi generali dell’arte, al genio permanente della lingua. Tale potere manca certamente a molti; ma altri, abbastanza dotati da acquisirlo, sembra che vi rinunzino in maniera sistematica. La duplice oscurità che ne deriva nella loro opera – oscurità delle idee e delle immagini, da un lato, oscurità grammaticale, dall’altro – è, nella letteratura, giustificabile? Cercherò di esaminarlo qui.

I giovani poeti, in versi o in prosa, potrebbero far valere, per eludere la mia domanda, un argomento preliminare.

«La nostra oscurità» potrebbero dire «è la stessa oscurità che veniva rimproverata a Hugo, che veniva rimproverata a Racine. Nel linguaggio, tutto quel che è nuovo è oscuro. E come potrebbe non esser nuovo il linguaggio, quando il pensiero e il sentimento non sono più i medesimi di ieri? Per restar viva, la lingua deve mutare insieme col pensiero, prestarsi ai suoi nuovi bisogni, come le zampe che, negli uccelli destinati ad andare sull’acqua, diventano palmate. Grosso scandalo per chi non abbia visto gli uccelli che camminare o volare; ma, una volta compiutasi l’evoluzione, si sorride che essa abbia potuto suscitare scandalo. Un giorno, lo stupore che noi vi causiamo vi stupirà, come oggi ci stupiscono le ingiurie con le quali il classicismo morente salutò gli esordi del Romanticismo.»

Ecco quanto potrebbero dirci i giovani poeti. Ma, dopo esserci rallegrati con loro per queste ingegnose parole, diremmo loro: «Non volendo certamente alludere alle tradizioni del preziosismo, voi avete giocato con la parola “oscurità”, facendo risalire tanto in alto la nobiltà della vostra scuola. Codesta oscurità è, invece, nella storia delle lettere, molto recente. È tutt’altra cosa dalle prime tragedie di Racine o dalle prime odi di Hugo. Ora, il sentimento della medesima necessità, della medesima costanza delle leggi dell’universo e del pensiero, mi vieta di immaginare, a guisa dei bambini, che il mondo possa cambiare a seconda dei miei desideri; m’impedisce di credere che, essendosi improvvisamente modificate le condizioni dell’arte, i capolavori debbano essere, da ora in poi, quel che nel corso dei secoli non sono mai stati: pressoché inintelligibili».

Ma i giovani poeti potrebbero replicare: «Vi stupite che il maestro sia obbligato a spiegare ai discepoli le proprie idee. Ma un fatto simile non è sempre avvenuto nella storia della filosofia: in cui gli Spinoza, i Kant, gli Hegel, i quali sono altrettanto oscuri che profondi, non si possono comprendere senza gravissime difficoltà? Avete frainteso il carattere delle nostre poesie: non sono fantasie, sono sistemi».

Il romanziere che imbottisca di filosofia un romanzo, il quale sarà senza pregio agli occhi del filosofo altrettanto che a quelli del letterato, non commette un errore più pericoloso di quello da me attribuito ai giovani poeti, e che essi non si sono limitati a mettere in pratica, ma hanno eretto anche in teoria.

Essi dimenticano, come quel romanziere, che il letterato e il poeta possono bensì spingersi nella realtà profonda delle cose tanto lontano quanto il metafisico, ma per una strada diversa; e che il sussidio del ragionamento, anziché rafforzare, paralizza lo slancio del sentimento, che solo può condurli sino al cuore del mondo. Il Macbeth è, a sua guisa, una filosofia non in virtù di un metodo filosofico, ma di una sorta di potenza istintiva. Il fondo d’un’opera simile, come il fondo della vita, di cui essa è l’immagine, resta indubbiamente oscuro, anche per la mente che lo vada via via chiarendo. Ma si tratta di un’oscurità di tutt’altro genere, feconda da approfondire e di cui sarebbe spregevole render impossibile l’azione con l’oscurità della lingua e dello stile.

Il poeta, non rivolgendosi alle nostre facoltà logiche, non può usufruire del diritto che ha qualsiasi filosofo profondo di sembrare, da principio, oscuro. Se poi si volge a esse, cessa di far poesia, senza però innalzarsi sino al piano della metafisica, la quale esige un linguaggio ben altrimenti rigoroso e preciso.

Poiché ci vien detto che il linguaggio e il pensiero sono inseparabili, ne approfitteremo per far rilevare che, se la filosofia, in cui le parole hanno un valore quasi scientifico, deve parlare una lingua speciale, la poesia non può fare altrettanto. Per il poeta, le parole non sono mai semplici segni. I Simbolisti saranno senza dubbio i primi ad ammettere che quel che ogni parola serba, nella sua figura o nella sua armonia, dell’incanto della sua origine o della grandezza del suo passato, possiede, nei confronti della nostra sensibilità e della nostra fantasia, un potere evocativo pari almeno al suo potere strettamente semantico. Si tratta di quelle antiche e misteriose affinità tra la nostra lingua materna e la nostra sensibilità, che ne fanno, anziché un linguaggio convenzionale qual è per noi una lingua straniera, una sorta di musica segreta che il poeta può far risonare in noi con incomparabile dolcezza. Il poeta ringiovanisce una parola usandola in una vecchia accezione; oscilla tra due immagini disgiunte di armonie dimenticate; e ci fa respirare con delizia, in ogni momento, il profumo della terra natale. Qui sta per noi l’incanto nativo della lingua di Francia: che sembra significare oggi la lingua di Anatole France, dacché egli è uno dei pochissimi che vogliano o sappiano servirsene ancora. Il poeta rinunzia a tale potere irresistibile di ridestare in noi tante Belle addormentate nel bosco, se si mette a parlare un linguaggio a noi ignoto, nel quale certi aggettivi, se non incomprensibili, per lo meno troppo recenti per non restare muti per noi, tengon dietro, in proposizioni che sembrano tradotte, ad avverbi intraducibili. Con l’aiuto delle vostre glosse, riuscirò forse a comprendere il vostro componimento, come un teorema o un rebus. Ma la poesia vuole un po’ più di mistero: altrimenti, l’impressione poetica, la quale è affatto istintiva e spontanea, non si produrrà.

Passerò quasi sotto silenzio il terzo argomento cui potrebbero ricorrere i poeti della nuova scuola: e cioè, l’interesse delle idee o delle sensazioni oscure, più difficili da esprimere, ma anche più rare, delle idee più chiare e più comuni.

Checché ne sia di tale teoria, è evidente che, se le sensazioni oscure presentano maggior interesse per il poeta, è solo a condizione di renderle chiare. Se il poeta percorre la notte, deve farlo come l’Angelo delle tenebre: portandovi la luce.

Giungo finalmente all’argomento invocato più di frequente dai poeti oscuri a favore della loro oscurità: il desiderio di proteggere la loro opera contro gli attentati del volgo. Ora, mi sembra che qui il volgo non sia dove si pensa. Chi d’una poesia si fa un concetto abbastanza ingenuamente materiale da credere che esso possa esser attinto altrimenti che con il pensiero e il sentimento (e se il volgo potesse attingerlo così non sarebbe più tale) ha della poesia l’idea puerile e grossolana che si può precisamente rimproverare al volgo. Tale precauzione contro gli attentati del volgo è, dunque, inutile. Ogni sguardo volto verso il volgo, sia che miri a lusingarlo con un modo di esprimersi facile sia che miri a sconcertarlo con un modo di esprimersi oscuro, fa sempre mancare il bersaglio all’arciere divino. La sua opera serberà implacabilmente la traccia del suo desiderio di piacere o di dispiacere alla folla, desideri parimenti mediocri, i quali conquisteranno, ahimè, soltanto lettori di secondo ordine…

Mi sia permesso di osservare inoltre, a proposito del simbolismo, cui mi riferisco soprattutto in queste pagine, che, pretendendo di trascurare gli «accidenti temporali e spaziali» per mostrarci solo verità eterne, esso disconosce un’altra legge della vita: che è di attuare l’universale o l’eterno, ma solo in individui. Nelle opere d’arte come nella vita, gli uomini, per generali che siano, debbono essere fortemente individuali (si pensi a Guerra e pace o a The Mill on the Floss); e di essi si può dire, come di ciascuno di noi, che attuano tanto più largamente l’universale quanto più sono se stessi. Le opere puramente simboliche rischiano perciò di mancare di vita e, quindi, di profondità. Se, per giunta, le loro «principesse» e i loro «cavalieri», anziché interessare il nostro spirito, propongono alla sua perspicacia un senso difficile e impreciso, le poesie, che dovrebbero essere simboli viventi, si riducono a fredde allegorie.

I poeti debbono ispirarsi maggiormente alla natura, nella quale, se il fondo di tutto è uno e oscuro, la forma di tutto è individuale e chiara. Essa insegnerà loro, oltre al segreto della vita, lo sdegno dell’oscurità. Forse che la natura ci nasconde il sole o le migliaia di stelle che brillano senza veli, splendide e indecifrabili, agli occhi di quasi tutti? Forse che non ci fa toccare, in modo rude e a nudo, la potenza del mare o del vento occidentale? Essa dona a ogni uomo il potere di esprimere con chiarezza, durante il suo passaggio sulla terra, i più profondi misteri della vita e della morte. Vengon essi tuttavia intesi dal volgo, nonostante il vigoroso ed espressivo linguaggio dei desideri e dei muscoli, della sofferenza, della carne putrescente o fiorente? Dovrei citare soprattutto, perché esso è la vera «ora artistica» della natura, il chiaro di luna, col quale, sebbene esso riluca con tanta dolcezza per tutti, la natura, senza nemmeno un neologismo pur dopo tanti secoli, crea luce con l’oscurità e suona il flauto col silenzio.

Tali le osservazioni che ho stimato utile di fare a proposito della poesia e della prosa contemporanee. La loro severità nei confronti dei giovani le avrebbe rese più adatte nella bocca d’un vecchio. Si perdoni alla loro franchezza, forse più meritoria nella bocca d’un giovine.

© il Saggiatore, 2015

ARTICOLO n. 93 / 2024