ARTICOLO n. 39 / 2022

CONOSCERE DI VISTA

Quando vado nel luogo in cui sono nato e cresciuto, il quartiere in cui sono stato bambino e ragazzo, incontro persone che non vedevo da dieci, vent’anni, in alcuni casi da trenta, quarant’anni. Queste persone mi erano così familiari eppure non riesco ad associarle ai volti che pensavo di ricordare. Ma sono davvero loro? Quello è davvero il macellaio dell’infanzia? Quello è davvero il panettiere dell’infanzia? Quella è davvero l’insegnante di matematica delle scuole medie? Oppure è qualcuno di somigliante? È cambiata la persona o è cambiato il mio sguardo? Se cerco un altro indizio, nella postura o nell’andatura, è inutile, poiché gli anni e l’invecchiamento hanno mutato la postura e l’andatura di queste persone, gli anni e l’invecchiamento hanno cambiato il mio sguardo in generale, e nello specifico, il mio sguardo in rapporto alle aspettative nei confronti della postura e dell’andatura di queste persone. 

Quando vado al cimitero, mi fermo davanti alle tombe, ogni giorno che passa mi fermo sempre di più davanti alle fotografie dei defunti, persone che avevo incontrato o conosciuto, come si diceva un tempo, di vista;guardo le fotografie sulle tombe e penso, è davvero lui, è davvero lei? È davvero la persona che – sigaretta in bocca, incolonnata in una domenica pomeriggio di primavera, la mano destra sul volante – aveva sventolato, con la mano sinistra, la bandiera dell’Inter fuori dal finestrino di una Fiat Uno 45 S grigia metallizzata, durante i festeggiamenti per lo scudetto 1988-1989, quando, quella persona, aveva ventidue anni? In teoria, il nome e il cognome dovrebbero saldare l’immagine funebre all’essere vivente che ha attraversato il mondo per alcuni decenni, saldare il mio ricordo in un unico processo con quell’immagine semovente, saldare la persona all’istante nel quale è accaduto un piccolo, irripetibile fatto; e invece, anche davanti al nome e cognome, davanti alla fissità dell’immagine funebre, si crea uno slittamento inaspettato: mi sembra di dubitare di quasi tutto ciò che è stato, guardo e non sono così sicuro di ricordare davvero quella persona alla guida di una Fiat Uno 45 S, forse era una Fiat Uno 55 S, e non era grigia metallizzata ma canna di fucile, però almeno sul fatto che fosse interista sono sicuro; non ero in auto, ma fermo su un marciapiede, e avevo visto il braccio di questa persona spuntare dal finestrino abbassato, avevo visto la bandiera in parte accartocciata agitarsi a seguito del movimento della mano sinistra, e poiché l’auto era ferma, intrappolata nella gioia del festeggiamento, la persona alla guida, ora defunta, aveva lasciato il volante e approfittato della mano destra per fare un tiro di sigaretta; infine, aveva stretto il mozzicone tra i denti, per suonare il clacson in segno di gioia, senza smettere di agitare la bandiera.

Forse non sono un vero tifoso, o sono un tifoso anomalo, poiché ciò che ricordo meglio di quel campionato è questa immagine e non un traversone di Andreas Brehme.

Da alcuni anni, una direttiva europea ha introdotto, per le aziende del tabacco, l’obbligo di stampare, su ogni pacchetto di sigarette, una fotografia che, unita a un breve slogan, dovrebbe scoraggiare i fumatori dal continuare a fumare o i potenziali fumatori dall’iniziare. Le immagini sono state scelte secondo parametri stabiliti dall’Unione Europea e occupano il 65% della superficie di ogni pacchetto. 

Chissà perché proprio il 65% e non il 60% o il 70%.

La commissione che si occupa di selezionare le immagini ha scelto vari filoni narrativi.

Il filone con bambino prevede alcune fotografie con il bambino e alcune senza bambino qualora il bambino non sia mai nato o sia appena morto, insomma, qualora il mancato bambino sia comunque protagonista. 

La fotografia di un bambino. Il bambino avrà circa quattro anni e una notevole somiglianza con Vladimir Putin. Indossa una polo azzurra e stringe tra le mani una sigaretta rivolta verso l’alto.

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di una giovane donna, seduta su un divano bianco. La donna sta accendendo una sigaretta. Ha un accendino in mano, lo sguardo abbassato, concentrato sull’accensione. Al suo fianco, un bambino di un paio d’anni fissa la sigaretta, allunga il braccio, mette la mano appena al di sotto della sigaretta spenta. 

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di un bambino. Sembra lo stesso bambino. È in braccio a una giovane donna. Sembra la stessa donna. La donna è in piedi e fissa il pavimento. Il bambino scruta un punto imprecisato, opposto. E tuttavia, né la madre né il bambino guardano il cadavere di un uomo in una cassa da morto.

Smetti di fumare. Vivi per i tuoi cari.

La fotografia di due giovani donne e di una bambina. Sono sedute, entrambe. Una abbraccia la figlia, una bambina di un paio d’anni. L’altra donna, la non mamma, con una sigaretta stretta tra le dita, assiste alla scena, ha un’espressione a metà tra invidia e tristezza.

Il fumo riduce la fertilità.

La fotografia di un giovane uomo. L’uomo ha in braccio un bambino. Il bambino avrà poco più di un anno. L’uomo, che si dà per scontato sia il padre – ma potrebbe essere anche uno zio o il nuovo compagno della madre del bambino – stringe tra le dita una sigaretta e, al tempo stesso, tiene in braccio il bambino. L’uomo espira il fumo in faccia al bambino. Il bambino strizza gli occhi, fa una smorfia schifata e sofferente, appoggia la mano sinistra sulla gola dell’uomo, ma la pressione della mano infantile, per quanto minima, pare addirittura stimolare, più che bloccare, l’emissione del fumo. A differenza di altre fotografie ambientate in casa o in un obitorio, lo sfondo è nero, l’ambientazione è da agenzia fotografica. Ma l’aspetto più significativo è la scomodità alla quale l’uomo si sottopone pur di tirare. Infatti, poiché sorregge il bambino, deve avvicinare la bocca alla sigaretta, e la sigaretta, al bambino. Il bambino rischia di essere bruciacchiato a ogni tiro, e se l’abitino acrilico, infiammabile, prendesse fuoco, il bambino rischierebbe di morire bruciato.

Il tuo fumo può nuocere ai tuoi figli, alla tua famiglia e ai tuoi amici.

È l’unica didascalia nella quale il fumo non è un fumo generico, ma è il tuo.

La fotografia di una giovane coppia accanto a una piccola bara bianca. L’uomo stringe la donna. Sono in piedi. Lui le appoggia una mano in testa. Lei gli appoggia la testa tra il braccio e il petto, come a farsi consolare. È la tipica postura ereditata dal cinema, dalla rappresentazione dei media, dall’immaginario scolpito nei secoli. È il cliché della donna da consolare e dell’uomo che è lì per quel motivo. 

Anche l’uomo è triste, eppure, per la commissione dell’Unione Europea che ha scelto l’immagine, l’opposto è impensabile, è impensabile l’uomo che, alle soglie delle lacrime, si lascia consolare dalla donna.

Il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno. 

I bambini hanno i capelli chiari, biondi o castani, come impone la logica pubblicitaria basata sulla supremazia bianca, di derivazione o aspirazione anglosassone, anche qualora il bianco si comporti in modo negativo.

La fotografia più grottesca del filone con bambino è l’immagine di una mano che spegne un mozzicone di sigaretta in un posacenere bianco; la cenere si è raggruppata e ha formato un disegno, un feto composto da cenere. 

Il fumo riduce la fertilità. 

Poi c’è il filone dell’uomo solo.

La fotografia di un uomo di cui si vede soltanto il busto, di profilo. L’uomo ha lo sguardo rivolto verso il basso. Sembra la tipica espressione di chi, ossessionato dalla propria forma fisica, fissa, con sgomento, i chili sulla bilancia dopo un eccesso alimentare. 

E invece la didascalia ci invita a pensare che l’uomo stia guardando il proprio cazzo. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Ecco allora che il filone dell’uomo solo ha un sottogenere: L’uomo e il proprio cazzo.

La fotografia di un uomo nudo, ritratto dall’alto, in un letto matrimoniale. L’uomo è accovacciato in posizione fetale; le lenzuola, in parte stropicciate, danno l’idea di un utilizzo, o meglio, di un parziale utilizzo cui è seguito un abbandono; forse, fino a pochi minuti prima c’era una donna, ma adesso l’uomo abbandonato è davvero l’essere umano più solo al mondo, e siccome non è mai stato così solo e affranto, appoggia una mano sulla propria testa.

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Nella terza fotografia del sottogenere L’uomo e il proprio cazzo, è come se l’uomo del pacchetto di sigarette diventasse L’uomo vitruviano di Leonardo ma senza alcuna necessità del cerchio e delle due figure: basta uno zoom sul ventre e, al posto del cazzo, un buco bianco. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Analizziamo ora il filone dei moribondi e il filone dei morti, così torniamo alla prima parte di questo testo. Da alcuni anni, infatti, una fotografia presente su un pacchetto di sigarette è diventata un’ossessione europea. Il fumo causa ictus e disabilità.

Vi è ritratto un uomo di circa 70 anni, sdraiato in un letto d’ospedale. Il degente, intubato, ha gli occhi chiusi. L’uomo è stato riconosciuto da un 48enne di Orbassano che sostiene di essere il figlio dell’uomo ritratto e ricoverato in ospedale, deceduto diciotto mesi dopo l’ictus; l’uomo della fotografia è stato riconosciuto da un altro uomo come se stesso, un uomo di Ischia che era stato ricoverato in Colombia a seguito di un’insufficienza respiratoria; l’uomo del pacchetto di sigarette è stato riconosciuto come il parente di un belga, di un tedesco, di uno spagnolo, e come il padre di una cittadina britannica. 

Possibile che un uomo non riconosca il proprio padre?

Possibile che una donna non riconosca il proprio padre?

Possibile che un uomo non riconosca se stesso?

Sì, è possibile. Dobbiamo chiederci fino a che punto la malattia, il dolore e il tempo devastino il corpo di chi ci è vicino, o meglio, devastino il modo in cui guardiamo, a tal punto da renderlo irriconoscibile a noi stessi, a tal punto da renderci irriconoscibili anche ai nostri occhi.  

Non è interessante sapere chi fosse davvero quell’uomo. 

Secondo The Guardian, un uomo, per recitare la propria morte da imprimere su milioni di pacchetti di sigarette, ha guadagnato 300 euro. Sarebbe utile chiedere all’anonima comparsa-protagonista: ti riconosci? 

Quanto abbiamo bisogno del falso per essere veri?

E infine, mi scuso per l’autocitazione.

A un certo punto de La gemella Huna delle due gemelle protagoniste, dice: «Avrò la tua stessa faccia anche da cadavere?»

Se lo chiede Helga, all’obitorio, davanti al corpo della gemella Hilde. È come se Helga vedesse, per la prima volta, il volto di Hilde; ma al tempo stesso, è come se Helga si allontanasse dal volto abituale per ricomporsi, unita alla gemella, nell’imminente eternità. 

La morte è liberazione, la morte è prigionia.

E l’immagine, che sta a metà tra vita e morte, presenta questa contraddizione.

Non a caso, davanti allo specchio, è come se scattassimo fotografie immaginarie, una breve sequenza di istantanee che contengono l’immediatezza di qualcosa di perduto. 

In quei frangenti, l’atto di presenza è guardarsi dubbiosi, come qualcuno che conosciamo di vista, qualcuno che abbiamo conosciuto di vista.

ARTICOLO n. 93 / 2024