ARTICOLO n. 10 / 2022

CINQUE MINUTI

Sono morto per cinque minuti, ha detto Christian Eriksen. Il calciatore danese si riferiva al malore avuto il 12 giugno 2021, al 43esimo minuto del primo tempo, durante Danimarca-Finlandia, valevole per gli Europei. Eriksen pare che soffrisse – e soffra – di un problema cardiaco dovuto a una predisposizione genetica, una cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro. Ora vive con un defibrillatore sottocutaneo, ma poiché il problema è ereditario, l’arresto cardiaco potrebbe capitare nella normale vita quotidiana, mentre Eriksen apre il frigorifero o cammina su un marciapiede. Ma, soprattutto, potrebbe accadere ancora poiché il calciatore ha deciso di riprendere l’attività agonistica. 

Nato a Middelfart nel 1992, ha iniziato a giocare nella locale squadra di calcio, si è trasferito all’Odense e poi in Olanda, nelle giovanili dell’Ajax: proprio ad Amsterdam ha intrapreso la sua carriera professionistica, prima di essere ceduto, ventunenne, al Tottenham. Ha giocato per sette stagioni nel campionato inglese, eccellendo in due statistiche: assist e gol da fuori area. 

Al momento del malore, Eriksen era un tesserato dell’Inter. E tuttavia, al suo arrivo nel campionato italiano (gennaio 2020, a metà della stagione 2019/2020), il calciatore danese ha attraversato numerose difficoltà e subìto umiliazioni prima di diventare uno dei protagonisti dello scudetto 2020/2021.

L’Inter ha acquistato Eriksen per assicurare all’allenatore Antonio Conte un giocatore di qualità a centrocampo. Ma a qualcuno interessa la qualità? Eriksen è – forse sarebbe meglio dire era, dopo l’arresto cardiaco è plausibile che non riesca più a esprimersi al livello degli anni precedenti – un giocatore capace di calciare con entrambi i piedi, senza perdere precisione o potenza; dava il meglio di sé agendo in posizione avanzata, in modo da servire passaggi geniali agli attaccanti o ai compagni di squadra che sopraggiungevano alle sue spalle. 

E invece, all’Inter, Eriksen è stato relegato in panchina per quasi un anno. Capitava che Conte gli dicesse, preparati per entrare. Eriksen si scaldava lungo la linea laterale: corsetta, scatti, esercizi, lo sguardo rivolto al rettangolo di gioco, a immaginare se stesso all’interno dell’azione; poi entrava a due minuti dalla fine, a risultato acquisito. Parecchi giocatori meno forti di lui, dopo umiliazioni di quel genere si sarebbero rifiutati di entrare in campo, avrebbero detto, grazie, preferisco la panchina. Eriksen con grande professionalità, ha sempre obbedito all’allenatore e giocato i pochi secondi concessi. In quelle circostanze, usciva dal campo con la maglia e i pantaloncini come nuovi. Quando andava bene, toccava un paio di palloni ininfluenti e la partita terminava. 

Giornalisti sportivi, commentatori, ex calciatori divenuti opinionisti affermavano che Eriksen fosse un acquisto sbagliato. È lento, dicevano, compassato. L’amministratore delegato dell’Inter, Giuseppe Marotta, lo ha definito, nel dicembre 2020, «non funzionale» al gioco della squadra. Quello di Marotta era un invito esplicito ai dirigenti di altre squadre affinché acquistassero il cartellino del giocatore danese. Un invito poco lungimirante che avrebbe deprezzato il valore del cartellino. Ma nessuno ha voluto investire su Eriksen, nemmeno acquisirlo in prestito, per sei mesi, e così il calciatore è rimasto a Milano.

Il 26 gennaio 2021, Eriksen è entrato a due minuti dalla fine sul punteggio di 1 a 1, stavolta durante l’incontro di Coppa Italia contro il Milan. Ha segnato, nei minuti di recupero, il gol della vittoria su punizione, calciando una parabola perfetta terminata all’incrocio dei pali. Da allora è diventato titolare, fondamentale per lo scudetto 2020/2021 e sarebbe stato – a maggior ragione con Simone Inzaghi, nuovo allenatore dell’Inter – uno dei protagonisti della squadra. Ma ha avuto un arresto cardiaco il 12 giugno 2021. Dopo alcuni mesi di convalescenza, ha chiesto la rescissione consensuale del contratto con l’Inter. Infatti, secondo le regole del calcio italiano, chi ha un defibrillatore sottocutaneo impiantato nel torace non ha l’idoneità sportiva per giocare in Serie A o nei campionati minori. Altre nazioni, in casi come questi, sono tolleranti al limite dell’irresponsabilità, e così Eriksen giocherà, per sei mesi, nel campionato inglese, in una squadra londinese di bassa classifica: il Brentford. Poi si vedrà.

Ma il tema qui è un altro. Come può, un giocatore considerato lento, compassato, inadatto, non funzionale al calcio italiano e per questo motivo umiliato, ecco, come può aver giocato per sette anni nel campionato di calcio inglese, noto per la competitività e il ritmo forsennato? Perché Eriksen, un calciatore generoso, altruista, intelligente, di qualità, era considerato lento e inadeguato? Quale è la percezione della velocità e della lentezza, in Italia? Qual è la percezione della qualità, in Italia, non solo in ambito calcistico?

Il calcio è uno sport spesso ingiusto e sempre diseguale. Alcune squadre giocano molti più minuti rispetto ad altre. Cinque anni fa, per esempio, la Fiorentina era la squadra che giocava più minuti reali: 55 su 95 in media. Il Torino, invece, era la squadra che giocava meno minuti reali: 47 su 95. Dove finivano i 40 minuti non giocati dalla Fiorentina? Dove finivano i 48 minuti non giocati dal Torino? Dove finivano gli 8 minuti di differenza tra Fiorentina e Torino? Cosa si può fare in 8 minuti? A volte, moltissimo. Nel caso di Eriksen, segnare un gol all’incrocio nel derby, oppure avere un attacco cardiaco, morire per cinque minuti e riprendersi nei successivi tre.

Non c’è niente di meglio della Serie A per assistere allo spettacolo della perdita di tempo. I detentori dei diritti televisivi non dovrebbero mostrare gol sottolineati dalla musica percussiva ma, nel silenzio, giocatori a terra che fingono infortuni accompagnati da slogan di questo tipo: sei pronto a perdere tempo guardando il grande spettacolo della perdita di tempo? 

Da alcuni anni, quando guardo un incontro di calcio di Serie A, amo osservare lo sviluppo delle azioni, certo, ma amo guardare, non di meno, i modi in cui i raccattapalle perdono tempo, i modi in cui i calciatori perdono tempo, i modi in cui gli allenatori perdono tempo, i modi in cui gli arbitri non recuperano tempo, avallando così le perdite di tempo complessive di un sistema che invece fa della falsa frenesia un valore. 

Basterebbe introdurre il tempo effettivo, come nel basket. Ma così finirebbe l’aleatorietà del calcio e in particolare del calcio italiano, e finirebbe parte del potere arbitrale e, soprattutto, la gigantesca perdita di tempo. 

In media, un arbitro del campionato italiano recupera al massimo 2 minuti nel primo tempo e 5 minuti nel secondo. Quindi, se va bene, un arbitro italiano di Serie A recupera 7 minuti. Se un arbitro volesse recuperare 40 minuti, ovvero il tempo perso, sarebbe radiato dall’Associazione Italiana Arbitri. Eppure questo sistema, basato su una spaventosa messinscena, ha definito Eriksen lento, inadatto, non funzionale.

Nel calcio italiano ti insegnano a gestire il tempo fin da bambino. I raccattapalle, per esempio, in Serie A hanno in media quattordici anni, giocano e sognano, molto spesso, di diventare calciatori professionisti. Appartengono alle categorie giovanili della squadra ospitante o a società satelliti, affiliate alla squadra di Serie A che ospita la partita. Da quando in ogni incontro si utilizzano almeno un paio di palloni – per ridurre, in teoria, le solite perdite di tempo -, la funzione dei raccattapalle è diventata ancora più significativa. 

Ecco le prime cose che i dirigenti ripetono a un raccattapalle prima della partita.

Se perdiamo o siamo in parità, tieni sempre il pallone tra le mani, in modo da passarglielo subito al nostro calciatore quando rimette la palla in gioco; se vinciamo, non tenere mai il pallone tra le mani, lascialo dietro i cartelloni pubblicitari e fa’ con calma, anzi, non passare il pallone al calciatore avversario, così lui deve scavalcare il cartellone pubblicitario e recuperare il pallone. 

Questa strategia ritarda l’azione di alcuni secondi, secondi che finiscono nella grande discarica di tempo che è ogni partita del campionato italiano di Serie A.

È bello guardare tutta questa simulazione.

Fingere di subire un fallo.

Subire un fallo, accentuare l’esito del colpo, urlare, cadere a terra toccandosi la caviglia e lamentarsi stringendo, a causa del dolore, il malleolo; quasi piagnucolare a occhi chiusi, sbirciare schiudendo un occhio, per vedere se l’arbitro, oltre ad aver fischiato il fallo, ha pure ammonito il giocatore avversario; attendere l’entrata in campo del medico, del massaggiatore, bramare la bomboletta di ghiaccio spray pronto all’uso quasi fosse un medicinale salvavita, fissare la nuvoletta del ghiaccio spray e poi rialzarsi come un reduce, sbattere la suola sul terreno, fingere di zoppicare per alcuni secondi e, infine, riprendere a correre come se nulla fosse accaduto.

Battere la rimessa del fallo laterale ma, prima, chiedere un paio di volte all’arbitro se quella è la posizione giusta per ricominciare l’azione. In questo modo, non soltanto si perdono alcuni secondi: si gratifica l’ego dell’arbitro. 

Recuperare il pallone, se si è in vantaggio, mimando una specie di corsa da fermo, come sul tapis roulant.

Impossessarsi del pallone, battere la rimessa laterale al posto dell’avversario e poi, fingendo di non aver capito, scusarsi con l’arbitro, per evitare l’ammonizione.

Frapporsi fra l’avversario e il pallone prima di un calcio di punizione.

Afferrare il pallone, farselo cadere dalle mani sulla punta delle scarpe, in modo che il pallone rotoli a tre metri, e recuperarlo con calma.

Sistemare il parastinchi prima di calciare una punizione o un calcio d’angolo.

Rallentare ogni minimo gesto.

Le parole invecchiano e infine muoiono proprio come noi. 

Manfrina è la parola che identificava, fino a pochi decenni fa, una patetica perdita di tempo in ambito calcistico: finti infortuni o ripetute ostentazioni di falso zelo, come la corsa da fermo per recuperare il pallone. Manfrina, parola coniata nel XIX secolo, è una danza piemontese, del Monferrato, diffusasi poi, in diverse varianti, in altre regioni. Forse, se la parola manfrina non fosse stata utilizzata nel linguaggio calcistico, avrebbe avuto una vita più lunga.

Viviamo quest’epoca basata sulla perdita di tempo, sulla dissoluzione del confine tra lavoro e svago. Mi è capitato di guardare una partita in compagnia e constatare la propensione, nei più giovani ma non solo, ad alternare la visione della partita allo smartphone, ai social.

Le tecnologie introdotte per limitare gli errori e il potere decisionale dell’arbitro e dei guardialinee, hanno apportato qualche miglioramento, ma bisogna ricordare che la consultazione della tecnologia comporta un investimento di tempo. Rivedere un caso controverso al video implica fermare il gioco per almeno un paio di minuti; aggiungiamo tutto il resto, e si conferma la voragine di tempo smarrito a ogni partita.

Quando Eriksen, umiliato, entrava a due minuti dalla fine, giocava quei pochi secondi comprensivi del recupero. Ma poiché anche durante i tre, quattro, cinque minuti di recupero si perde tempo, ecco che il tempo effettivo giocato da Eriksen si limitava davvero a pochi istanti. 

Ogni tanto riguardo un’azione in cui Eriksen non segna e nemmeno fa un vero e proprio assist. Risale al breve periodo in cui Eriksen ha giocato con continuità nell’Inter. È un’azione, quattro mesi prima del malore, in cui risplende la sua intelligenza calcistica grazie alla quale l’Inter ha segnato il secondo gol, al 57esimo minuto di Milan-Inter, il 21 febbraio 2021. 

La partita è finita con la vittoria dell’Inter per 3 a 0.

Lukaku, a metà campo, defilato sulla destra, spalle alla porta, circondato da due milanisti, attende l’inserimento di Hakimi. Hakimi resiste a una carica e, grazie alla sua velocità, salta i difensori e passa il pallone, in orizzontale, a Eriksen. Eriksen, infatti, segue l’azione, è in posizione centrale, tra la metà campo e il limite dell’area milanista. È in piena corsa quando riceve il pallone che ballonzola: lo stoppa con il sinistro, mandandolo in avanti e arriva al limite dall’area di rigore, un po’ defilato sulla sinistra. Un giocatore egoista, da quella posizione, tira in porta. Un giocatore altruista, da quella posizione, passa il pallone, nella fattispecie, a Lautaro Martinez, che si è smarcato sulla sinistra. Eriksen invece attende, suggerisce a Lautaro Martinez di posizionarsi al centro dell’area; l’attaccante argentino non capisce subito le intenzioni del compagno, allora Eriksen si prende il tempo necessario – alcuni decimi di secondo – affinché Lautaro Martinez comprenda l’idea, e affinché Perisic, che arriva di corsa da dietro, possa inserirsi sulla fascia sinistra. A questo punto, Eriksen serve una palla precisa, rasoterra, tra il difensore milanista che cura Lautaro Martinez e Lautaro Martinez che è in movimento e sta andando in mezzo all’area di rigore.

Il pallone finisce a Perisic che, sopraggiunto di corsa, serve un assist rasoterra a Lautaro Martinez che, da cinque metri, segna.

Da quando Lukaku tocca il pallone a quando Lautaro Martinez segna, passano 9 secondi. Eriksen tocca il pallone per poco più di 2 secondi, comprensivi del suggerimento non recepito da Lautaro Martinez.

A proposito di questa azione, mi è capitato di sentire, da alcuni giornalisti sportivi: Eriksen arriva al limite dell’area, è indeciso, non sa cosa fare, e passa a Perisic. L’ottusità davanti alla bellezza è impressionante. Del resto, sempre più persone si annoiano e non comprendono un’azione calcistica basata sul fraseggio, o un tipo di scrittura che privilegia l’indugio, il tempo giusto per aprire un varco e arrivare, quanto più possibile, alla frase esatta.

Non a caso, secondo la maggioranza dei giornalisti sportivi o dei commentatori il calcio è la somma di locuzioni alla moda – attaccare lo spazio, attaccare la profondità – sostituibili dai prossimi tic verbali.

Eriksen, in quell’azione, crea lo spazio, e questo grazie al suo lucido, intenzionale tergiversare per pochi istanti, un tergiversare che non è indecisione ma necessario atto sorgivo.

Dopo il gol, Lautaro Martinez ringrazia a malapena Perisic, autore dell’assist, e corre verso la panchina a gioire. Niente di nuovo: il normale egoismo dell’attaccante. È invece commovente la corsa di Hakimi verso Eriksen, l’abbraccio di Barella a Eriksen e la gratitudine di Eriksen a entrambi e a Perisic, che ha capito l’intenzione e assecondato il fluire dell’azione.

Un’azione sublime, che avviene senza pubblico a causa delle restrizioni anti-covid. E per una volta, l’assenza del pubblico non è negativa, anzi, San Siro vuoto evidenzia meglio la geometria dell’azione.

Meno di quattro mesi dopo, la morte di cinque minuti e la sopravvivenza.

Ottenuta la rescissione del contratto dall’Inter e prima di ritornare nel campionato inglese, Eriksen si è allenato da solo. Partiva da Milano e, come un frontaliero diretto in Canton Ticino, varcava la dogana e raggiungeva lo stadio di Chiasso, dove gioca la squadra che milita nella terza serie svizzera. 

Ricominciare da uno stadio marginale, sul confine: correre, palleggiare. Chissà se mentre si allenava, Eriksen riusciva a pensare soltanto al calcio, alla simulazione di un’azione che avrebbe voluto orchestrare. Forse il calcio gli servirà ancora a questo, a non pensare ai cinque minuti di morte, al conseguente defibrillatore sottocutaneo. O forse il calcio, a maggior ragione, lo riporterà al dispositivo elettrico grande come un orologio da taschino che protegge la vita e crea, dall’invisibile, qualcosa: il piccolo apparecchio sottopelle, sempre pronto ad adattarsi al battito umano, a correggere le aritmie, cercando di plasmare, in un tempo rinnovato divenuto anche suo, lo spazio.

ARTICOLO n. 93 / 2024