ARTICOLO n. 38 / 2023
“CIECO”: MASSIMO FINI IN LUCE
La stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura
Cieco. È il titolo del libro scritto da Massimo Fini alle soglie del compleanno numero 80. È la confessione –ultima dice lui – di un uomo afflitto da un glaucoma che gli ha tolto progressivamente la vista. È un viaggio dentro l’anima esposta di un giornalista, autore, saggista, che ci vede benissimo.Abbastanza, anche ora, forse proprio ora, per continuare a riflettere su se stesso e sui rilanci che la coscienza innesca e determina. Per certi versi, così da sempre. Mi scuso per l’uso qui della prima persona singolare: conosco Fini da molti anni e sono un suo vecchio ammiratore. Per la cultura e la libertà di pensiero; per l’indipendenza e il coraggio; per l’intelligenza e la capacità – talvolta cocciuta, persino autolesionista – di andare contro “pur di…”.
E non importa nemmeno trovarsi in linea o per nulla d’accordo con le sue opinioni. Conta la stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura. Dunque, un maestro. Anticonformista, presente e attivo, peraltro. In luce, ecco, alla faccia del glaucoma. Per me, per chi ama ancora, ha amato moltissimo questo mestiere. Lo scrivo perché l’ho pensato, per l’ennesima volta, uscendo dalla sua casa colma di libri, dove è un piacere chiacchierare – e fumare – condividendo (anche) qualche comune memoria, un’af-fini-tà per me preziosa.
Giorgio Terruzzi: Il libro, dunque. Cieco. Il titolo maschera una ambivalenza. Annuncia una condizione, una fatica. Ma anche uno stato propizio all’indagine. Non solo intima…
Massimo Fini: Nella mitologia greca il cieco è il veggente. Tiresia, non disponendo della vista, va oltre. Però, porco cane, io ci vedevo benissimo ed ero veggente anche con gli occhi in piena funzione.
G.T. Due date: 1985, 1989. Scandiscono i momenti più difficili della malattia. Puoi ricordarli?
M.F. La prima data coincide con la prima diagnosi, la seconda segna l’inizio della fine, il momento più doloroso. Guardavo il cielo, osservavo le stelle durante una bellissima notte a Capri. Stavo lì con la mia fidanzata e mentre non riuscivo a mettere a fuoco il firmamento, mi resi conto che non avrei più rivisto nulla del genere.
G.T. Questo testo sembra completare un lungo racconto autobiografico iniziato con Ragazzo. Storia di una vecchiaia, pubblicato nel 2007. È come se l’analisi di te stesso, per certi versi narcisistica, per altri illuminante, sia diventata la vera guida, la fonte del pensiero. Utile a individuare un punto di vista. La cecità su questo procedimento, sino a che punto incide?
M.F. Be’, io non ho fatto altro che scrivere autobiografie. Se penso a Una vita, soprattutto, a Ragazzo, al Dizionario erotico, a Confesso che ho vissuto, trovo testi autobiografici. Il tema riguarda anche la mia opera filosofica, termine da usare tra virgolette. Come scrive Nietzsche, ogni filosofia è una autobiografia. Credo che questo mio modo di essere, dove è pur possibile riconoscere un certo narcisismo, sia abbinato da sempre a una grande capacità di ascolto. Cosa fondamentale, non solo nel nostro mestiere. Nella vita. Nino Nutrizio, uno dei grandi maestri del giornalismo, direttore de “La Notte” diceva: questo è un lavoro che si fa prima con i piedi e poi con la testa. Bisogna uscire, perlustrare, ascoltare. La testa viene dopo, quando si tratta di dare un senso al materiale che hai raccolto. La cecità ha rafforzato questo modo di fare, quindi di pensare e poi di scrivere. Non avendo la vista sei molto più attento a chi parla, a come parla una persona. In particolare alla musicalità. La scrittura è ritmo, come la musica.Ho notato in che modo i grandi autori di canzoni, ad esempio, collocano un termine in un punto preciso proprio in funzione del ritmo. È ciò che cerco di trasferire nella mia scrittura.
G.T. Penso alle tue passioni. Il calcio, le automobili, la velocità come attrazione verso una spericolatezza che profuma di immortalità. Qui, non vedere, significa fare conti più amari?
M.F. Non è solo una questione di cecità. Nel frattempo sono invecchiato e, in aggiunta, ho dovuto attraversare la pandemia in queste condizioni. Non so come sia riuscito a cavarmela. Certo guidare, usare l’auto per me è stato sempre un segno di libertà. Ti annoi, salti dentro l’automobile, raggiungi un paesino attorno a Milano, una gelataia carina ti sorride e la tua giornata in un attimo cambia sapore. Se parliamo di indipendenza il discorso è più complesso. Il termine vale come cifra della mia vita personale e professionale. Ora non è più così. Dipendo. Dalla segretaria, da una fidanzata, se c’è, da mio figlio, dalla mia ex-moglie. Da tutti. Ho bisogno di assistenza e darmi assistenza diventa difficile perché se una persona mi aiuta troppo mi incazzo, se aiuta poco è un guaio. Per fortuna c’è qualcuno che procede con estrema attenzione. Mio figlio e l’amico regista Edoardo Fiorillo che dispone di autentiche capacità sensitive.
G.T. Leggere per scrivere e scrivere per leggere. Sono queste le inibizioni peggiori?
M.F. Detto i pezzi. Poi li leggiamo, correggo la punteggiatura, la forma, poi verifico la pubblicazione. Ma una cosa è dettare, un’altra è scrivere, anche perché da un aggettivo ne viene fuori un altro mentre lavori sul testo. Ho ammesso più volte che per un bel giro di frase sono anche disposto a dare una direzione diversa, a volte quasi opposta, al senso che avevo immaginato per il mio articolo. Del resto, più o meno meritatamente, mi hanno attribuito il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura, quindi temo molto di perdere la qualità dello scrivere. I miei amici dicono che non è successo, ma sono di parte. Se leggo testi scritti dieci anni fa mi sembrano linguisticamente migliori.
G.T. Sonno e sogni. Potenziati da questa condizione di cecità?
M.F. Si, certamente. Borges, che come sappiamo divenne cieco, non sognò per tre anni e per questo era assolutamente disperato. All’inizio della malattia il sonno è stato un rifugio. Se dormi, la tua malattia non esiste più. Ma i sogni, talvolta, sono inquietanti….
G.T. Stimolano la memoria, comunque. Penso al racconto dell’estate 1960. Bagni Umberto a Savona. Tutto perfettamente a fuoco. L’hai inserito nel libro per il piacere di ritrovare, da non vedente, ogni dettaglio del passato?
M.F. Quanti secoli abbiamo impiegato per uscire dall’infanzia? Per uscire dall’adolescenza? Molto tempo. Perché il tempo procede in una progressione particolare. Negli anni della vecchiaia scorre più velocemente mentre le giornate sembrano più lunghe. Meno impegni, molti vuoti. Non so dire se il ricordo assume rilevanza a causa dell’età o della cecità. Walter Tobagi mi aveva soprannominato, con affettuosa ironia, “Passato è bello”: ho sempre avuto un occhio rivolto al passato. Il futuro mi ha sempre fatto orrore. Così, forse, questa precisione fotografica nel ricordare è una inconscia rivincita che mi prendo da non vedente. I dettagli sono importantissimi nel nostro mestiere e ai dettagli bado molto”.
G.T. In Cieco racconti del primo amore. Poi citi De André, Le passanti. Rinunciare al corteggiamento, al gioco di sguardi è insopportabile?
M.F. È devastante. Passeggiando sento voci di donne, di una ragazza. Intuisco una freschezza, immagino un aspetto fisico. Ma il gioco di sguardi mi è vietato. Se a questo aggiungiamo che sono un voyeur compulsivo, misuriamo l’entità della fregatura. È vero, come dice De André, che lo sguardo di un attimo poteva valere una vita e invece non ne abbiamo fatto nulla. Ma è anche vero che alcune storie d’amore sono nate proprio da uno scambio di sguardi. Nel 2015, appena terminato di scrivere Una vita pensai alla Recherche di Proust. La morte al termine della stesura del testo. Pensai, persino augurandomelo, potesse accadere a me la stessa cosa. E comunque dichiarai di non voler più scrivere. Mi arrivò una lettera inviata da un giovane giornalista, cieco dalla nascita, che mi invitava a cambiare idea. Gli risposi con delicatezza. Ma se avessi dovuto farlo “finianamente” avrei dovuto scrivere: certo, un cieco può fare moltissime cose, tranne vedere”.
G.T. Scrivi: felicità è una parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata. Però poi la usi a proposito di te stesso di fronte al mare…
M.F. Il mare per me è sempre stato taumaturgico. Per noi che siamo nati al di qual delle colline, come canta Paolo Conte, come scrive Cesare Pavese, il mare è mitologico. Da ragazzo dopo una sbronza pazzesca mi bastava cacciarmi in acqua per uscire come se non avessi bevuto. Il mare è importante anche in questa mia situazione. Non vorrei fare paragoni blasfemi ma perché Nietzsche a Rapallo si consolava accendendo falò sulla spiaggia? C’erano solo tre colori: l’azzurro del cielo, il blu del mare e il verde cupo delle colline. Sono toni che, a fatica, riconosco ancora e quindi per me è come sentirmi sano. Soprattutto in quell’ora sospesa che sta tra il giorno e la notte. Tempo sospeso, appunto. Di notte ho scritto tutti i miei libri. Lavori dentro uno spazio infinito, silente. Il tempo per me ha un valore enorme e il vero peccato è sprecarlo. Quindi, per una facile conseguenza, confesso di detestare quelli che vedono e non sanno usare la propria vista.
G.T. Scrivi della stanchezza del vivere. È tutto vero o è una mezza bugia?
M.F. Purtroppo è una verità. Questo libro è una sorta di De Profundis. Ho avuto poco tempo fa una segretaria giovanissima e molto capace. Disse: non so se augurarti di vivere più a lungo sia un buon augurio. Il paradosso dei paradossi è che sono cieco ma fisicamente sanissimo. Mi sono fatto un’idea: che questa malattia mi abbia protetto dalle altre.
G.T. Infatti, di quell’ “anarcoide russo mezzo pazzo”, come ti definì Giorgio Bocca molti anni fa, vedo ancora delle tracce…
M.F. Finché sono vivo spero che qualche traccia anarcoide rimanga. Io non sono una persona duttile. È un difetto e al tempo stesso una forza. Sono rimasto fanciullescamente lo stesso, nonostante tutte le esperienze attraversate. Sono ancora piuttosto ingenuo di fronte alla vita, anche se a questo punto chiunque mi può fregare. Mi piace ancora catturare l’attenzione altrui attraverso un processo mentale. Il fatto è che una persona devi riuscire a catturarla e questa attività è ormai compromessa. Resta la parola…con la parola me la cavo ancora.
G.T. Insomma, potrà arrivare un altro libro, domani o dopo. In fondo, che ne sappiamo del nostro futuro?
M.F. Noi pensiamo che il futuro sia lineare. Il mondo occidentale sembra destinato al collasso, basato com’è sulla crescita esponenziale. Ma in realtà non funziona così, accadono fatti che non possiamo immaginare. Nella vecchiaia c’è sempre l’imprevisto in agguato. In negativo molto spesso. Ma può essere anche in positivo. Un altro pensiero mi viene in mente: spesso da un male può nascere un bene. Quando castrarono il mio Cyrano dalla televisione, decidemmo di trasferirlo in teatro e ci divertimmo moltissimo. Credo che il tema sia legato alla vitalità residua. Comunque, devo stare attento perché quando le cose vanno bene sono in allarme. Temo una ritorsione, una punizione. Sono agnostico ma, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Non riusciamo mai o del tutto a uscire dalla cultura cattolica.
G.T. Cosa sei contento di non vedere?
M.F. Di non vedere me stesso che invecchio, allo specchio.