ARTICOLO n. 64 / 2021

CIBO È CULTURA

Il cibo intelligente non è onnivoro, vegetariano o vegano. Il cibo della nostra strana epoca, l’Antropocene, un soffio umano incastonato nelle età geologiche gigantesche, un intervallo in cui siamo noi a influenzare gli eventi della Terra, è un cibo consapevole. Ne sappiamo abbastanza di scienze della nutrizione per essere certi che la salute dipenda anche da pranzi e cene. E come potrebbe non essere, considerato che in un’esistenza media l’intestino è un filtro attraversato da quel che resta di 30 tonnellate di alimenti e di 50 mila litri di liquidi.

«Siamo quello che mangiamo», rifletteva il filosofo Ludwig Feuerbach. Ma quello che mangiamo, e che non mangiamo, ormai sappiamo anche questo, può cambiare il mondo. A marzo del 2021 la rivista Nature ha pubblicato un’analisi cristallina: le tavole mondiali pesano a spanne per un terzo sulle emissioni di gas serra, cioè di quei gas che avvolgono il nostro globo come una coperta. Gli esperti dell’Onu hanno scritto che il riscaldamento globale non potrà arrestarsi se non si provvederà anche a modificare il sistema alimentare.

La domanda, legittima, è in che maniera pranzi e cene siano collegati alle follie del clima. In diversi modi, ma soprattutto tramite il tipo di digestione dei ruminanti, il disboscamento in favore di agricoltura e pascolo, la lavorazione industriale. Il trasporto ha un’incidenza piccola, con tutto il rispetto per la filosofia del chilometro zero.

Un primo problema è il metano, gas serra potentissimo. Lo producono certi ceppi di batteri che se ne stanno acquattati negli stomaci delle mucche, delle capre e delle pecore: sono loro coinquilini e sopravvivono fermentando i residui della digestione. Per questo ha un senso paragonare le macchine al meteorismo di ovini e bovini. Le quantità di emissioni provenienti dal bestiame sono pari più o meno a quelle di camion, auto, aerei e navi messi insieme, stando alle stime della Fao. Come se non bastasse, ci sono i danni causati dalla deforestazione praticata per ricavare aree destinate alle mandrie o ai mangimi. E gli allevamenti intensivi consumano suolo, energia, acqua.

Nell’ipotesi che tutta l’umanità rinunciasse a ogni tipo di fonte animale, le emissioni legate al cibo scenderebbero del 70% in trent’anni. Ma questo argomento non dovrebbe essere usato come arma contro gli onnivori. La sostenibilità è anche sociale ed economica. La zootecnia impiega oltre un miliardo di lavoratori e bisogna pensare che in alcuni Paesi carne, uova e latte sono vitali per persone con diete limitate.

Diversa è la questione etica, il vero confine che separa carnivori e veg. Non mi meraviglia che i teorici di una scelta o dell’altra discutano, e a volte infiammando i toni, proprio perché in gioco c’è un punto di vista sul mondo, sulla nostra superiorità o meno rispetto agli altri animali, sul loro benessere, sul domani del pianeta. L’empatia ha a che fare con il soggetto prima ancora che con l’oggetto. «Vi sono persone che hanno la capacità di immaginarsi nei panni di qualcun altro, vi sono persone che non ce l’hanno e vi sono persone che questa capacità ce l’hanno ma scelgono di non esercitarla», scrive John Maxwell Coetzee nel suo libro La vita degli animali. Un bel libro, in cui la protagonista, un’anziana romanziera, riflette con scienziati, filosofi e poeti sui diritti degli esseri viventi.

Disinteressarsi al tema «carne sì o no» è diventato impossibile. Per un motivo o per l’altro, prima o poi, veniamo chiamati a prendere posizione: lo richiedono i figli ambientalisti, l’amica che rinuncia al manzo, il dibattito sull’ultimo documentario di Netflix, quel nuovo libro, la crisi climatica, le ricerche sul rapporto tra salute e consumo di bistecche.

All’onnivoro non basta più dire che mangia agnelli e polli perché «è normale». Riannodando i fili della storia, troviamo le nostre cugine, le grandi scimmie antropomorfe, nella sostanza vegetariane, diversamente dai nostri antenati del genere Homo. Per alcuni antropologi, è la masticazione di brandelli di carne ad aver potenziato le mandibole e allargato il cranio, con l’evoluzione che ha fatto il resto e ha premiato lo sviluppo di un cervello strutturato, rendendoci quelli che siamo: intelligenti, dotati di parola, creatori di opere d’arte.

Dunque, continuiamo a nutrirci di bistecche perché lo prevede la natura umana? «Secondo questa logica», come ha notato Isaac Singer, premio Nobel per la letteratura, «non dovremmo neppure impedire l’omicidio, perché anch’esso è sempre stato praticato dall’inizio dei tempi».

Noi non viviamo solo del retaggio di un destino biologico, perché noi siamo cultura, nel senso di appartenenza a una civiltà, a un popolo, nel senso di conoscenze condivise e di patrimonio di idee individuali. Se il Dna e le tradizioni ci ancorano al passato, la cultura può renderci liberi di immaginare il futuro. Decidere di evitare carne e pesce, come nei menù dei vegetariani, o tutti i prodotti di origine animale, com’è per i vegani, fa parte delle possibilità.

Per un occidentale medio, la carne non è indispensabile. È un’ottima fonte di una gamma di nutrienti essenziali, ma di alternative se ne trovano. Per esempio, il consumo di quattro-cinque porzioni alla settimana di legumi contribuisce al raggiungimento del fabbisogno di ferro, che si trova pure in molluschi, sardine, ortaggi, cioccolato o frutta a guscio. La vitamina B12 si prende da uova e pesce (mentre ai vegani è consigliata l’integrazione o il consumo di alimenti fortificati). Quanto alle proteine, è vero che un etto di filetto di vitello ne contiene 20,5 grammi, ma la stessa quota si raggiunge mangiando un piatto di pasta e fagioli, un contorno di spinaci e un frutto. E non è un rimpiazzo triste. Se l’uomo «è un animale che cucina», secondo la definizione (geniale) dello scrittore scozzese James Boswell, si deve soprattutto alle soluzioni che s’è inventato per trasformare in ingredienti commestibili qualcosa come quattromila specie vegetali, dal grano alle patate, dal peperoncino alla borragine.

Non intendo criminalizzare chi ama il gusto dell’arrosto e non vuole rinunciarvi. Tra l’altro, stando alle conoscenze attuali, un po’ di carne non fa male alla salute. È l’eccesso a essere correlato a un aumento del rischio di alcune patologie, come lo è l’eccesso di calorie. D’altro canto, se ancora qualcuno dubitasse che sia possibile rimpiazzare senza danno ogni tipo di prodotto animale con le proteine vegetali, dovrebbe leggere il documento con la presa di posizione dell’Accademia americana di nutrizione e dietetica: ritiene che le diete vegetariane, compresa quella vegana, possano essere benefiche «se opportunamente pianificate dal punto di vista nutrizionale».

Io credo che onnivori di buon senso, vegetariani e vegani, invece di battibeccare tra loro, dovrebbero muovere guerra alla cosiddetta western diet, il modello alimentare occidentale che mezzo mondo ha importato dagli americani. Dilaga in un frullatore di unto, colesterolo e sciatteria culturale che è pari solo ai danni inflitti alla salute e all’atmosfera. Il passato e il futuro sono persi in un mondo in cui i bambini non conoscono il sapore di una pesca perché al posto della frutta scartano merendine, in cui la cena dei loro genitori si riduce al solito hamburger e al pane col salame.

La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un rapporto che ha fatto clamore: se la popolazione dei Paesi industrializzati riuscisse a raddoppiare entro il 2050 i consumi di vegetali e dimezzasse quelli di zuccheri, farine raffinate e carni rosse e trasformate, si frenerebbe il riscaldamento globale e si eviterebbero almeno 11 milioni e mezzo di decessi prematuri all’anno dovuti ad abitudini alimentari malsane.

Il cibo consapevole, qualsiasi sia l’etica a monte, onnivora o vegetariana, rispetta allo stesso tempo la salute, il pianeta e la cultura. Siamo di materia affine a ogni altro organismo, collegati dalle origini, in una comunanza di atomi. In alcuni testi di Platone, pare già affiorare la chiarezza del legame: «Quel piccolo frammento che tu rappresenti, uomo, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il tutto e per la felice condizione dell’universa armonia».

ARTICOLO n. 93 / 2024