ARTICOLO n. 36 / 2023
C’È CHI DICE NO
Leggo la rassegna ancora distesa a letto, appena sveglia.
Seleziono i giornali principali escludendo sapientemente quelli che so che mi darebbero mal di stomaco fin dalle prime ore del giorno.
Controllo prima la politica, poi la cronaca, poi gli esteri e infine la sezione cultura.
Spulcio tra una testata e l’altra e cerco di vedere come le stesse notizie vengano affrontate in modi differenti.
Mi soffermo sempre sulle interviste. Mi piacciono le interviste.
È a tutti gli effetti una deformazione professionale: da quando ho iniziato a farle, a porre domande ai miei ospiti in radio, nelle presentazioni e a Basement Café mi sono ritrovata spesso a curiosare tra le domande degli altri, cercando di leggere tra le righe i non detti degli intervistati, cercando anche – perché no – alcuni spunti per i prossimi lavori.
Negli ultimi tempi – mesi? anni? orientativamente dall’immediato post-lockdown, ma potrebbe essere iniziata prima, questa tediosa tendenza – noto sempre più interviste simili tra di loro.
Sono quelle rivolte a piccoli, medi e grandi imprenditori che dovrebbero servire per analizzare lo stato di salute del mondo del lavoro italiano.
Queste interviste – tutte molto brevi, tutte molto compatte tra di loro – sono corredate da titoli che suonano come accorati appelli alla popolazione: “Offro tot soldi ma nessuno vuole lavorare”.
Sottotitolo, opzione uno: “Il reddito di cittadinanza ha ucciso l’entusiasmo”.
Sottotitolo, opzione due: “I giovani preferiscono divertirsi o stare sul divano”. A volte i due possono essere fusi in una sola frase del tipo: “Il reddito di cittadinanza ha reso i giovani pigri”, crasi tra le preferite dai maggiori quotidiani nazionali.
Nel corpo dell’intervista, gli imprenditori disperati raccontano di quanto prima (unità di tempo non chiarissima, potrebbe riferirsi al tempo del boom economico come al pre-Covid) non fosse così, come prima le persone non si tirassero dietro davanti alla possibilità di lavorare anche a costo di spaccarsi la schiena.
Subito dopo questo o tempora, o mores, gli imprenditori del caso (si va dal proprietario di un pastificio a gestori di locali, ristoranti, bar, stabilimenti balneari) raccontano sempre quanto sarebbero disposti a pagare i lavoratori.
Ho letto che un cuoco avrebbe rifiutato 63mila euro lordi, di bagnini che avrebbero detto no a tremila euro al mese, di camerieri e cameriere impossibili da trovare a 1600 euro contrattualizzati.
Nei commenti a questi articoli si scatena dunque sempre un incontrollabile panico generazionale.
Chi è nato durante il boom economico non comprende la svogliatezza dei giovani, chi ha lavorato negli anni ’90 non capisce perché questi ragazzi siano tutti così viziati, noi Millennials, invece, sorridiamo sornioni.
Già, perché mentre i nostri genitori godevano del boom economico e di un ascensore sociale in pienissima attività, noi abbiamo capito subito che le cose erano due: lacrime nostre o lacrime nostre – scusa, Elodie.
Dopo due crisi economiche vissute sulla nostra pelle, dopo aver studiato molto più di qualsiasi altra generazione precedente alla nostra, ci siamo ritrovati con un pugno di mosche in mano, ascensore sociale murato, lavori sottopagati e la falsa promessa di un roseo futuro per chiunque avesse aperto una partita iva – spoiler: non fatelo.
Abbiamo quindi imparato ben presto a riconoscere le bugie sul mondo del lavoro, quando queste ci vengono raccontate.
Siamo la generazione con più lavoretti saltuari mai esistita, siamo stati ovunque: dai social alle cucine, dagli uffici alle vigne, dai bar agli studi in cui ci facevano fare stage non retribuiti in vista di future assunzioni che non sarebbero mai arrivate, dalle università allo spaccio di droga per riuscire a pagare un affitto.
Per questo le parole degli affranti, inconsolabili imprenditori ci suonano come le scuse di Pinocchio dopo esser scappato con Lucignolo verso il paese dei balocchi.
Sappiamo infatti che il famoso contratto che prometterebbe 1600 euro per una settimana lavorativa di 48 ore nell’HORECA con un giorno di riposo nasconde delle zone grigie non trascurabili.
Innanzitutto, la questione straordinari: nei pub, nei cocktail bar e nei ristoranti è difficilissimo calcolare le ore extra effettuate, e solo rarissimamente queste vengono pagate. Subito dopo gli orari: l’imprenditore dell’intervista – che gestisce un pub – dovrebbe sapere che chi fa il lavoratore notturno non ha una socialità (lavorando ogni sera tranne una – il lunedì, che in Italia è la chiusura dei cocktail bar e di quasi tutti i ristoranti – non esistono aperitivi con gli amici, le cene fuori, le serate sul divano, il cinema, il teatro, la birra in piazza, gli appuntamenti romantici), non ha facilità nell’accedere ai servizi più basilari (banca, posta, palestra, spesa, medico, nido, parrucchiere, dentista, centri di analisi ASL, determinati negozi aperti solo al mattino) e non ha garanzia di non essere esente da ore extra durante il giorno (gestione di fornitori, lavanderia, frutta, carico e scarico merce, aperture straordinarie e varie ed eventuali vengono tutte svolte in diurna).
Perciò, in un momento storico di inflazione alle stelle, crisi economica, affitti raddoppiati rispetto ai primi anni 2000, con 1600 euro che in busta paga diventano poco meno di 1300 per un totale di 8,33 euro l’ora, non se ne voglia a male, questo buon samaritano, ma a noi ci scappa proprio da ridere.
Se vent’anni fa con uno stipendio di questo tipo potevi affittare una bella stanza o un monolocale, oggi, nella stragrande maggioranza delle città italiane, puoi permetterti un posto bici nel cortile condominiale e le spese per le bollette di luce e gas.
Simile ma a tratti più inquietante è il discorso per il povero bistrattato cuoco che avrebbe rifiutato i 63mila euro del contratto sopracitato.
Leggendo l’intervista a Gabriele Cartasegna – direttore del Capac di Confcommercio – viene fuori che questa offerta sarebbe stata fatta a uno chef appena formato.
Oltre alla puzza di bufala – non il formaggio, scusate il gioco di parole non voluto: stipendi come quello millantato dal direttore del Capac li vedono gli executive chef di alto rango, non cuochi appena formati – evidentemente a Cartasegna sfugge quanto sia snaturante e alienante la vita di una brigata di cucina, con orari impossibili, caldo micidiale, turni serratissimi, sforzi fisici costanti e una media di 12 ore lavorate al giorno, nonostante il tetto massimo settimanale sia di 48.
Non mi stupisco dunque se negli ultimi due anni il 30% della forza lavoro impiegata in bar e ristoranti si sia data alla fuga insieme agli altri grandi sfruttati del terziario, ovvero gli stagionali: in condizioni di lavoro prive di tutela, prive di rispetto e spesso prive di legalità (il famoso mezzo stipendio in busta paga e l’altro mezzo in nero in busta di carta) perché fare dei lavori che per quanto magnifici ci facciano rimanere poveri e per giunta privi di una qualsivoglia vita sociale?
La risposta è logica e davvero banale, ovvero: per nessun motivo.
Soprattutto in un’epoca in cui per vivere servono ben più di 1200 euro in busta paga: 800 vanno in affitto, gli altri in bollette, non ci vuole Pitagora per capire che in questo momento storico uno stipendio del genere sia davvero anacronistico.
Eppure ai giornali piace strizzare l’occhio a Confcommercio e Confindustria, leccando un po’ di culi ai piani alti, pubblicando l’imprenditore che piagnucola perché i giovani non hanno più voglia di sporcarsi le mani.
Ma i giovani hanno ben più consapevolezza della situazione in cui versano i lavoratori e il mercato.
Sicuramente ben più di chi ha ereditato aziende o soldi dalle generazioni precedenti.
La morte del settore terziario, ricchissimo di lavori meravigliosi come quello del bartender, di chi serve in sala, di chi lavora nelle brigate di una cucina, sta morendo non per colpa dei lavoratori, ma per chi lo ha svenduto rendendolo un luogo inospitale.
Ma il vecchio adagio dei tempi che, signora mia, non sono più quelli di una volta, i giovani sono tutti scansafatiche, sarà la droga, guardi che capelloni, è un format funzionale e brevettato per non ascoltare i giovani, che del lavoro dovrebbero essere i protagonisti.
Silenziando i giovani, screditando la loro professionalità e, di conseguenza, i loro sogni e bisogni, i nostri eroi di Confindustria e Confcommercio non dovranno muovere un dito.
Già, perché in tempo di post-pandemia e con un tasso di povertà alle stelle, per ogni rifiuto a contratti di merda ci saranno almeno due persone che non possono permettersi di rifiutare quelle condizioni.
E questo perché il mercato del lavoro si nutre da sempre della manodopera dei più poveri con questi trucchetti da banditi e ladroni che permettono ai salari di rimanere invariati: tanto basta scavare nelle classi sociali sempre più povere e sempre più sole.
Per questo mi viene da dire – non ai cravattoni con la lacrima facile, ma ai giovani che sognano un futuro migliore – che, fin quando sarà possibile, per quanto vi possa essere possibile, rifiutate le proposte di chi gioca sui vostri diritti, tempo, energia.
La mia generazione è collassata sotto queste false promesse, mangiata e divorata da sciacalli che diventavano sempre più ricchi mentre noi non riuscivamo a mettere da parte neanche due euro.
La mia generazione, quella del lavoro in nero e dei voucher INPS, ha guardato passivamente a tutto questo, rimanendo inerme mentre ci levavano ogni cosa promettendoci però il mondo, per farci rimanere buoni, dei bravi schiavi.
Sono orgogliosa ogni mattina quando vedo le reazioni dei social media ai piagnistei dell’imprenditore di turno, perché vuol dire che il futuro è sempre meno fesso di noi, dei nostri fratelli più grandi e pure di quelli che abbiamo sempre chiamato geni, ovvero i baby boomer.
In questa giornata dal valore così prezioso che stiamo svendendo (guardate come si è ridotto il concertone del Primo Maggio a Roma: sembra Sanremo, ha perfino gli stessi sponsor) mi viene da dire bravi voi, che non vi fate infinocchiare dal sistema.
E ai miei coetanei vorrei ricordare che cosa eravamo e siamo ancora oggi: se abbiamo imparato una cosa dalle generazioni precedenti è il non fare come loro hanno fatto con noi. Perciò ascoltiamo la generazione Z, affianchiamola nelle giuste battaglie che riguardano il lavoro e il clima – che vanno di pari passo – e vi prego. Ve ne prego. Non diventiamo i prossimi che frignano dalle pagine di un giornale.
Il lavoro è un diritto, ma la dignità lo è ancor di più.
Tolta la nostra che ormai è andata in malora, garantiamola a chi verrà dopo di noi interrompendo questa catena di odio generazionale che ha creato solo nuovi schiavi di nuovi padroni.
Capisco solo oggi che quelle lacrime di coccodrillo che leggo ogni mattina dalle pagine dei giornali hanno un nome ben preciso: quel nome è ricatto.
E sono davvero fiera che nessuno, dopo noi Millennial, ci stia più cascando.