ARTICOLO n. 14 / 2023
DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI
L’uomo che mi piace mi infastidisce.
Per questo ho disattivato i suoi post e le sue storie.
Ma stanotte ho deciso di andare a vedere cosa fa.
Mentre scrollo sul suo profilo e ne spulcio veloce le storie lo trovo insopportabile, mediocre nella comunicazione, lento, vecchio.
Eppure dal vivo non è così.
Mi infastidisco mentre scrollo tra un’immagine e l’altra. Mi infastidisce la sua comodità, il fatto che lo amino tutti senza neanche un commento di critica, la pace che regna sovrana sul suo profilo, l’assenza di commenti sessualizzanti verso la sua persona, il suo potersi permettere di postare solamente foto banali, l’assenza di una qualsiasi causa sociale o civile nel suo feed, l’egoreferenzialità, il fatto che nessuno gli chieda come mai stia lì.
Provo invidia, eccitazione, fastidio, curiosità. Forse lo odio.
Ma niente di quel che provo è reale perché, mi dico, quello che vedo sui social media non può essere COSÌ reale.
Eppure non ne sono sicura, me ne rendo conto, al buio della mia camera da letto, mentre fisso lo schermo del mio telefono. Ho difficoltà nel percepire cosa in una persona sia vero e cosa no, in questo mondo parallelo fatto di tondini rossi e foto quadrate.
Spulcio i primi like sotto al suo nuovo post, per capire dove va forte, quale sia il suo pubblico: sono tutte donne cis, come me, stessa età, a occhio stessa provenienza sociale e tutte bianche. Ha un tipo di fascino assolutamente targettizzabile, per questo monotono.
Muovo il pollice con un gesto automatico e torno in home page: l’immagine che mi appare subito dopo è il post di una mia amica sotto il quale noto immediatamente un suo mi piace.
In passato ho provato fastidio, competizione, inadeguatezza ogni volta che vedevo cuoricini rossi di un uomo che mi piaceva sotto alle foto di altre donne bellissime, come fosse una scelta implicita di un canone che non combaciava con il mio. Un silenzioso assenso verso forme di femminilità diversa dalla mia, meno rumorosa, spigolosa, respingente, dolente.
Sono cresciuta con i social network che, anno dopo anno, prendevano sempre più spazio nella nostra vita e ho decodificato le nuove regole del gioco amoroso piano piano: oggi sono diventata così brava con questi linguaggi digitali che so distinguere corteggiamenti tra due persone semplicemente osservando i loro post che appaiono nel mio feed di Instagram.
Lo specchio che riflette le nostre interazioni e pulsioni è così banale da annoiarmi.
Per questo ho disattivato l’uomo che mi piace: per non vederlo, perché rispetto alla noia che mi provoca la banalità della sua forma digitale preferisco la delusione tangibile ma progressiva.
E perché il controllo ossessivo mi stava rendendo un mostro.
Ho cercato di capire, carpire, annusare, decodificare, smembrare e acquisire messaggi subliminali dai profili degli uomini che mi piacevano per tanto tempo, come se fosse una conseguenza diretta della dimensione digitale, un prezzo da pagare per la ricerca di una verità universale sull’amore e sui suoi demoni.
Ho iniziato a provare disagio, odio, fastidio, inadeguatezza, competizione senza inizialmente capire il perché. Ho semplicemente staccato i miei occhi dal mezzo social disattivando i profili di ogni uomo che negli ultimi anni mi è piaciuto, come se fossero veleno, acido corrosivo, dal quale dovevo mettermi in salvo.
C’era qualcosa di morboso nel mio atteggiamento, che so essere atteggiamento di molte altre persone, ma non comprendevo da dove emergesse tutto quel fastidio.
Certo, una parte era fisiologica quanto banale sindrome da competizione: nella società performativa e patriarcale le donne sono nemiche e una sola è la prescelta, questo vale anche nelle relazioni sentimentali applicate al digitale. Lo posso vedere chiaramente quando leggo i commenti alle foto di coppie famose, ricche, bianche, abili: sono un tripudio di “beati voi”, “come vi invidio” e “siete un sogno”. La favola della prescelta è dietro l’angolo e non si nasconde neppure troppo per dissimularsi.
Ma mi mancava un pezzo per comprendere in pieno tutto questo senso di angoscia che mi produceva e spesso produce ancora il mezzo digitale elevato a prolungamento della vita amorosa.
Volevo capire perché mi spaventassero così tanto alcune proiezioni social degli uomini che mi sono piaciuti.
Volevo capire se l’amore aveva un modo per sopravvivere ai social.
Se le mie esigenze potevano trovare spazio in un amore digitale.
E, per trovare delle risposte, mi è venuta in aiuto Sheena Patel.
Conosco Sheena Patel a Roma, alla Nuvola, durante l’ultimo Più libri più liberi: dobbiamo dividere il palco per un panel sul digitale e le relazioni interpersonali e di fianco a lei mi sento microscopica.
Sheena Patel ha infatti scritto un libro che ho letto da poco, si chiama I’m a fan, in italiano Ti seguo, edito da Edizioni di Atlantide e tradotto magistralmente da Clara Nubile.
Ti seguo è uno dei libri più devastanti, deliranti ma al tempo stesso lucidissimi che abbia letto negli ultimi anni, e la penna di Patel è talmente affilata, dolorosamente ironica e graffiante da farmi dire subito dopo l’incipit che quella che sto leggendo è davvero una coltellata con i fiocchi.
Patel nel suo libro racconta, con un ritmo incredibile e la prima persona singolare, l’amore ossessivo e ripetitivo dei tempi del digitale. La sua protagonista, una giovane donna di origini indiane che vive a Londra e lavora nella cultura, ha una relazione con un uomo ricco e famoso, che è sempre lontano, appare a intermittenza, e che lei monitora quotidianamente tramite i social.
Ed è proprio dai social che la protagonista apprende dell’esistenza di una seconda – saranno poi molte di più- donna: una ricca ereditiera che vive negli Stati Uniti, viaggia molto, è bianca, abile, magra, molto attenta alle cause sociali e civili da copertina, al bricolage, all’arte contemporanea ricca di appropriazione culturale; è il ritratto perfetto dell’ipocrisia finto buonista della classe dominante, da cui ancora siamo attratti come lo sono le falene dalla luce.
Il libro è una visione perfettamente bilanciata del mondo dei social – e dell’amore al tempo dei social – come riflesso di una cultura eurocentrica, bianca, sessista e basata sul privilegio di classe.
E questo viene meravigliosamente fuori dai due personaggi secondari della sua storia.
I due personaggi che catalizzano l’attenzione della protagonista – di cui non sappiamo mai il nome – sono nominati come “l’uomo con cui voglio stare” e “la donna da cui sono ossessionata” e incarnano perfettamente il concetto stesso di privilegio: sono due persone mediocri, di base neanche troppo brillanti, ma la loro immagine riflessa dai device elettronici li rende incredibilmente affascinanti, creando una dipendenza da contenuti che la protagonista subisce con tigna stoica.
Se lei infatti, da un lato, percepisce quanto ipocrita sia il loro atteggiamento digitale (white saviorism, feticizzazione dei corpi neri, ricerca di approvazione, un perenne nozionismo usato come scudo contro la profonda ignoranza, la costante ricerca di essere al passo con i tempi senza tuttavia comprenderli mai), dall’altro non riesce proprio a separarsene.
E non può farlo per un motivo banale quanto inquietante: perché sono lì, sullo schermo, a portata di mano, pur sapendo che sono tutto ciò che odia.
La figura della donna da cui è ossessionata simboleggia perfettamente la competizione femminile di cui scrivevo sopra e che però è persa in partenza se non si è ricche, bianche, tendenzialmente fancazziste perché libere da un lavoro totalizzante.
Ma i social sono spazi monodimensionali in cui le distanze sembrano minuscole e ci danno l’illusione di poter partecipare alla gara e raggiungere la capolista.
Per questo si innesta la competitività, perché ci dimentichiamo della tangibilità del mondo e della sua non compassionevole classificazione sociale.
E niente di più vero è mai stato descritto: quante volte siamo state gelose, invidiose, rancorose verso i profili delle supermodelle a cui i nostri amati – corrisposti o meno – mettevano fior fior di cuoricini? Lo siamo state e spesso lo siamo ancora perché abbiamo creduto, fino a quel momento, fino a quel like, di essere tutte sulla stessa linea di partenza, agli stessi blocchi. Questo è l’effetto social, quello che ti fa pensare “perché lei sì e io no?”
L’uomo di cui la protagonista vorrebbe essere la compagna è invece un poveraccio con traumi irrisolti, una moglie trofeo, un ego smisurato in compensazione delle mancanze emotive, un sacco di soldi e la spocchia di chi sa di essere in cima alla catena alimentare. Se parla di cause umanitarie lo fa solo per accrescere la sua immagine, non perché deve, non perché le senta, perché di base lui è esente da qualsiasi privazione.
Se si connette con una donna, lo fa solo per cannibalizzarne le attenzioni. Il modo in cui usa le donne è meccanico, rapido, in una parola: sessista. Insomma, lo standard del maschio bianco cis etero dell’industria culturale, da cui di base e in teoria sappiamo tutte di dover fuggire ma nella pratica non riusciamo, perché subiamo il famoso fascino della narrazione.
E quella narrazione ce la fanno rimbombare dentro proprio i social.
Questi personaggi possono sulla prima sembrare agli occhi inesperti – o privilegiati – delle macchiette. Eppure nel digitale non esistono caratteri più comuni di quelli descritti da Patel.
E nell’era in cui l’amore lo troviamo e manteniamo proprio grazie ai social media, questi personaggi dovrebbero insegnarci qualcosa, ovvero a proteggere quel fastidio di cui accennavo sopra, perché sintomatico di contatto con il reale.
E nell’amore al tempo dei social le distanze si annullano facendoci credere di appartenere tutti quanti a una stessa comunità, in cui le differenze non esistono e in cui tutti possiamo essere famosi per cinque minuti. In questa dinamica, riconoscere chi non è altro che problematico – o chi gongola nel proprio privilegio – diventa sempre più difficile, proprio perché sviluppiamo dipendenza in brevissimo tempo.
Pensiamoci un attimo.
Soprassediamo sui profili di uomini adulti che seguono solo donne giovanissime e ragazze neanche maggiorenni riempiendole di emoticon di goccine, occhi a cuore, pesche, perché ci piace pensare che al fondo non siano così, che ci sia dietro qualcosa di misterioso. Ci giriamo dall’altra parte quando chi ci piace non sposa neanche una causa che ci sta a cuore, perché non vogliamo vedere la grande verità, ovvero che non la condivide perché non ne ha bisogno, perché non rivolta a lui. Romanticizziamo relazioni tra personaggi famosi che puzzano di abuso da diecimila chilometri di distanza (ultima tra tutte: Megan Fox e Machine Gun Kelly). Selezioniamo piaceri e infatuazioni replicando il sistema più antico del mondo ovvero quello che ci porta ad amare chi è in vetta alla classifica sociale, e l’odio nell’essere ignorati e ignorate è sovente figlio di un viscerale e problematico “non è possibile che non mi veda, eppure guarda come sono attraente con il mio profilo perfetto”. Ci allineiamo a modelli digitali preconfezionati nella speranza di essere contraccambiati, scritturati per la parte, scelti in una marea di banalità che vuole solo essere come gli altri, quando questi “altri” non sono mai come noi – principalmente perché sono ricchi e più famosi di noi. Cerchiamo di impersonare modelli che non ci rispecchiano solo per sembrare migliori agli occhi di chi ci guarda, ma sono solo dei grandi castelli di carta che ci rendono grotteschi, ben più grotteschi dei due personaggi di Sheena Patel, perché noi siamo reali e non di fantasia.
E scritta così sembra una condanna, sembriamo succubi della performance anche nella ricerca del partner. Ma il fastidio, questo fastidio che mi tiene incollata alla pagina dell’uomo che mi piace, è la soluzione a questo dilemma.
Nell’era digitale basta infatti pochissimo per trasformare un sentimento in un altro, totalmente opposto e ugualmente intenso: odi et amo, mai è stato più vero.
E con quel fastidio, con la ricerca spasmodica di una falla nella corazza digitale dell’altra persona, stiamo cercando di interrompere un flusso, quello che ci porta a guardare acriticamente le pagine che ci si presentano davanti, le vetrine di privilegio declinato in differenti modi ma che rimane pur sempre privilegio.
Alla fine della nostra chiacchierata a Più libri più liberi, Sheena Patel mi ha chiesto se vedessi nei social una via di fuga, se pensavo che la collettività – e dunque a seguito ogni singolo – potesse evolvere nel digitale. Sono rimasta in silenzio. Lei mi ha guardata e mi ha detto «Sai che non è possibile, vero, in un luogo dove per essere ascoltati gli esseri umani devono usare la lingua del padrone?».
Ho ripensato a questa frase, cercando di estenderla alla sfera sentimentale che si sviluppa nel digitale e non posso che confermare ciò che detto da Patel: stiamo replicando un mondo in cui il privilegio e la prepotenza degli stereotipi sono immutati. Solo che è più difficile capirlo, in un non-luogo in cui le distanze non sembrano esistere.
E allora dove sta la verità? Chi siamo, di chi ci siamo innamorati?
Cosa abbiamo guardato finora?
La risposta arriva di nuovo da Sheena Patel: ci siamo innamorati delle aspettative figlie di una società che ci fa rincorrere la stabilità delle persone scintillanti. Queste vanno necessariamente ridimensionate, o ci renderanno ancor più tossico l’amore. Ci faranno piacere persone che nel mondo reale non considereremmo neanche sotto tortura. Ci renderanno sopportabili cose che non dobbiamo mai sopportare, come l’inedia, silenzio, la mediocrità, come il white saviorism, come il sessismo subdolo che serpeggia incessante tra le pagine dei profili.
E noi, in questo limbo, non possiamo fare altro che continuare a controllare e ricontrollare i profili dei potenziali partner, nella speranza che sia cambiato qualcosa a distanza di qualche secondo, nella speranza che quel bagliore che vediamo sia un diamante quando in realtà è quasi sempre il riflesso del sole su una lattina accartocciata sul ciglio della strada.
Questo controllo compulsivo ci corrode perché da un lato speriamo davvero che stavolta sia la volta buona, che nessuna lattina ci attenda seminascosta tra i cespugli.
Dall’altro però ci vuole ricordare che ricercare l’errore in mezzo alla vetrina lucida dei social è ancora un procedimento di cui abbiamo un disperato bisogno, perché non ne abbiamo ancora compreso del tutto la portata e la distorsione del reale che li accompagna.
Alla luce di queste elucubrazioni, mi chiedo all’improvviso: quante infatuazioni inutili ho avuto nell’ultimo anno e mezzo?
E mentre sono profondamente esausta da questa riflessione in automatico faccio un gesto con il pollice, tornando a guardare il profilo dell’uomo che mi piace.
Vedo che nel frattempo non ha messo storie, vedo che non ha aggiornato il feed.
Comprendo che il mio fastidio nei suoi confronti sta proprio nella sua omologazione, nel suo privilegio di genere rivendicato in modo sottile. Nel suo silenzio su quel che ritengo importante. Nel suo bisogno di non usare la sua voce per difendere qualcosa a cui tiene. Nel suo piacere a tutti, grandi e piccini, sempre attento a non essere scomodo. Nel collezionare solo donne nei suoi follow, come fossero in vetrina, interscambiabili, tutte uguali, nella sua testa sono tutte a sua disposizione.
Mi infastidisco di nuovo.
Mi rendo conto che questo fastidio significa che sono guarita, che non ci sono più cascata nel gioco delle lattine scintillanti: adesso lo capisco subito che proiezione sto guardando e posso agire di conseguenza.
Posso anche percepire il perché sia più affascinante quando ci vediamo: perché c’è più distanza tra noi, nel mondo reale. E da lontano, in senso ovviamente metaforico, tutto sembra migliore.
Decido quindi di silenziare di nuovo i suoi post e le sue storie, consapevole di quanto sarà più rassicurante non vedere i suoi tondini.
Controllo il profilo di altre persone, scorro acriticamente prima di accendere la luce e iniziare la mia giornata.
Ho ricevuto una notifica di un messaggio privato.
Apro la sezione inbox, scorro un po’ col dito e clicco.
È un uomo, mi scrive una battuta intelligente su un articolo di giornale che ho da poco condiviso.
Guardo il suo profilo e mi sembra interessante. Fa lo scrittore. Sorride sempre in foto.
Gli rispondo con un cuoricino nero.
Chissà se anche lui è una lattina.