ARTICOLO n. 90 / 2022

LIBERA NOS A MALO

Liberaci dal male.

Questo mi sembra che tutti i media e la società civile chiedano a noi sopravvissute alla violenza di genere, quando vedo iniziare la rincorsa affannosa alle nostre testimonianze con l’avvicinarsi del 25 novembre.

Liberaci dal male e solleva la nostra coscienza dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per sensibilizzare sul tema della violenza maschile contro le donne nei restanti 364 giorni dell’anno.

La mia casella di posta si riempie di notifiche nelle settimane immediatamente precedenti a questa.

Convegni, programmi televisivi, interviste, panel, richieste di tenere speech, monologhi, lezioni, dirette, consigli e recitare atti di dolore nell’etere. 

Si richiede prontezza di risposta, magari qualche lacrima, due o tre domande sui genitori perché fanno sempre piangere, una buona dose di grinta per chiudere e l’immancabile «cosa ci consigli di fare per renderci utili nel nostro piccolo?», saluti guardando in camera e ora passiamo ai consigli per gli acquisti.

Il 25 novembre, ovvero la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il mondo si tinge d’arancione. Segni rossicci sulla faccia di vip più o meno noti, politici di ogni lato che cavalcano l’onda per rimediare uno 0,1% in più ai sondaggi della domenica, pagine di gossip che improvvisamente ci ricordano quanto sia terribile menare le proprie partner, quadrati arancio su ogni profilo Instagram, articoli cupi e sconfortati di testate che per tutto il resto dell’anno fanno disinformazione sul femminicidio rafforzando stereotipi e bias che ci portiamo dietro da sempre, programmi TV che ogni domenica sera invitano gli spettatori a dubitare delle vittime di violenza e che però in questa data fanno improvvisamente servizi speciali con volti contriti e ritrovata serietà, commentatori del web che fino al giorno prima scrivevano oscenità sotto ai post delle giornaliste e attiviste che si occupano di questi temi e che magicamente, per 24 surreali ore, trovano la pietas necessaria per postare la foto del loro calciatore preferito con il segno rosso sul volto, «Grazie Ibra sei sempre un campione di umanità».

Muori puttana, zitta troia, non abbiamo problemi noi maschi, ti piace fare la vittima, non ti va mai bene niente, non tutti gli uomini sono violenti, ti dovrebbero scopare di più, eppure mi sembri felice per essere una che è stata menata dall’ex, ti auguro ti stuprino bene, guarda che sei fissata, sei pesante, vi lamentate sempre, se non ti ci fidanzavi non ti succedeva, hai spaccato i coglioni, stai zitta, zitta, zitta troia.

Questo è ciò che ricevo ogni giorno della mia vita sui social media. Ogni fottuto giorno dell’anno tranne uno: il 25 novembre.

Dopo il mio usuale post sulla scarsità di impegno che mettiamo nell’affrontare il tema della violenza sulle donne, ricevo migliaia di commenti contenenti cuori, lacrime, emoji di abbracci.

Dalla mezzanotte però, come se un immaginario timer scadesse, come se Cenerentola stesse rientrando a casa incazzata per non essersi divertita abbastanza e aver pure perso una scarpa alla festa, quello stesso post inizia a riempirsi di commenti piccati, di code di paglia, di «sei paranoica», «tu hai un problema con gli uomini», «io che sono cresciuto in una famiglia di donne ti dico che ti sbagli» (per bizzarria del caso, posso assicurare che le persone più misogine e sessiste che abbia mai incontrato in vita mia hanno sempre iniziato il loro discorso con questa frase, come se poi la vicinanza femminile esonerasse dall’essere stronzi o problematici).

Quando finisce la ricorrenza, dalle fogne della nostra coscienza comincia a riemergere l’animale che ci portiamo dentro, quello che ci dice che alla fine la violenza maschile non è un problema poi così grosso, che i numeri sono bassi, che gli uomini muoiono più delle donne, che siamo esagerate noi scrittrici progressiste perché abbiamo un’ossessione, lo facciamo per notorietà, mancanza di sesso, sicuramente traiamo vantaggio da questo continuo lamentarci.

L’animale che ci portiamo dentro ha un timer, una sveglia interna, che gli impedisce di resistere in posizione di ascolto per più di 24 ore. 

L’animale che ci portiamo dentro lo conosciamo bene, lo vediamo emergere sempre, ha fatto anche lui la scuola cattolica da cui sono usciti i peggiori femminicida della storia del nostro paese.

La scuola cattolica è un concetto interessante, una sineddoche più che altro. La scuola cattolica del nostro animale è infatti la società patriarcale in cui viviamo. 

Ci pensavo, a questo concetto, rileggendo qualche passaggio del libro omonimo di Edoardo Albinati, premio Strega 2016, che descrive molto bene il dualismo che ci teniamo dentro come se fosse un segreto inconfessabile.

Da un lato, noi esseri umani abbiamo bisogno di dimostrare il nostro essere benintenzionati, ma dall’altro ci piace la faccia da ipertiroideo di Angelo Izzo che ci ricorda un po’ noi ogni volta che confessiamo allo specchio ciò che non avremmo il coraggio di ammettere a voce alta davanti a un nostro simile.

Se per essere considerati buoni cittadini abbiamo bisogno di una facciata di cristiana morigeratezza, il nostro animo più profondo ci ricorda che il bisogno di potere è insaziabile per noi esseri umani.

Il potere che bramiamo è quello di avere ragione, di rimanere comodi e preferibilmente giudicanti, di non ascoltare chi di queste materie ne sa qualcosa e di reputare i nostri bisogni immediati i più importanti al mondo – da qui nascono i vari commenti social e giornalistici che recitano «ci sono cose più importanti a cui pensare» – e soprattutto quello di poter disporre dei corpi delle donne a nostro piacimento, in ogni situazione, in ogni modo, fisico o anche solo mentale.

Il potere, questo potere, è fatto di materiale plasmabile e vischioso, si adatta all’occasione come fosse un vestito che ci cade addosso perfettamente.

Quando Donatella Colasanti, alle 22:50 di quel 30 settembre 1975 venne fotografata mentre usciva dal bagagliaio della 127 bianca parcheggiata in viale Pola a Roma, arrampicandosi sul cadavere massacrato di Rosaria Lopez, l’animale che ci portiamo dentro ha sussultato e si è subito vestito a lutto.

Ci siamo ammutoliti, abbiamo provato pena, orrore, compassione, disgusto e paura. Ci siamo chiesti cosa ne fosse del genere umano.

Ma il timer che aziona la bestia ci ha messo poco a trillare di nuovo.

Già nei primi giorni del processo a quello che venne chiamato “massacro del Circeo”, la società civile, i giornali e gli avvocati di Izzo, Ghira e Guido hanno iniziato a nutrire la smania di potere nei confronti del corpo e della vita di Colasanti.

Il potere di schiacciare una testimonianza così forte, che avrebbe inevitabilmente inficiato la possibilità di uscirne puliti a tre giovani della Roma bene, tre fascisti in erba dal bell’aspetto e il conto in banca pieno, è diventato incontenibile: si era sempre creduto che il male abitasse solo nei bassifondi; ora che si scoperchiava questo vaso di Pandora, come si sarebbero salvati i ricchi dall’onta che li aveva appena investiti?

Mentre gli avvocati dei tre assassini e stupratori ricordavano quanto i costumi di Colasanti fossero stati leggeri nell’accettare un invito da tre semisconosciuti, le brave famiglie italiane riunite intorno al tavolo della cena con il televisore acceso ripetevano come in un mantra che alle loro figlie certe cose non potevano accadere, perché non erano come quella lì del bagagliaio. 

Loro erano perbene. 
Loro avevano una certa morale. 
Loro, le figlie, le controllavano a vista.

Giudicando Colasanti per la sua voglia di vita assolutamente normale, la società civile e il pool di avvocati della difesa ribaltavano il senso del processo stesso, rendendola, da vittima, principale accusata. 

Come ricordò Tina Lagostena Bassi, che difese Colasanti nel processo del massacro al Circeo e fu la prima avvocata a usare la parola stupro in un’arringa (“Processo per stupro” del 1979 portò con la Rai per la prima volta il senso di colpa nelle case degli italiani, facendo ingoiare qualche amaro boccone a quelle tavole immacolate piene di sicumera), le udienze non erano contro la sua assistita: lei era l’accusa, non la difesa, come invece stava emergendo dagli atti e dalle parole degli avvocati, che cercavano di screditare il corpo di Colasanti e la sua condotta, ritenuta immorale e non coerente.

Eppure il ribaltamento di ruoli a cui venne sottoposta era inevitabile, troppo invitante, ed era così facile silenziare una voce in un paese che non voleva altro che essere rassicurato del fatto di avere ancora tutto sotto controllo, tutto ancora in suo potere – i nostri maschi certe cose non le fanno, no?

Giudicata colpevole da una giuria immaginaria composta dalla nostra collettività, Colasanti si è adoperata per tutta la sua ahimè troppo breve vita nel ribaltare la concezione patriarcale e di possesso che impera sui corpi delle donne; concezione che li vuole sempre sotto giudizio e sempre in fallo.

Questa concezione, di cui si nutre il nostro animale, è deliziosamente da scuola cattolica.

Da un lato la morale e dall’altro la violenza cieca per salvaguardarla. Il silenzio come arma per non sporcarsi la nomea e la fedina penale, il potere per distruggere chiunque voglia attaccare questo sistema perfettamente collaudato e sorretto su un dislivello sociale e culturale di discendenza millenaria: il sessismo patriarcale.

Questo sessismo ci portava e ci porta ancora – e porterà in futuro – a controllare le donne, a volerle silenziare, a volerle mettere sul banco degli imputati, a dar loro delle poco di buono, delle frustrate, delle lamentose, delle galline, delle troie – zitte, troie – che sono finite così solo perché non sono state abbastanza ligie alla morale e alle regole di quella strana scuola cattolica a cui nessuna di noi si è mai volontariamente iscritta.

Dal 1975 le cose sono cambiate, legalmente parlando. Abbiamo vinto battaglie, lo stupro è un reato contro la persona e il delitto d’onore sembra quasi un ricordo lontano, anche se non lo è.

Ma a livello culturale, noi siamo ancora posseduti da Izzo, Ghira e Guido. Noi siamo ancora Izzo, Ghira e Guido.

Mi piacerebbe poter parlare oggi con Donatella Colasanti e Tina Lagostena Bassi per dire loro che alla fine, nel 2022, la scuola che forma generazioni di assetati di potere, noi l’abbiamo smantellata. Che quei ruoli di vittime e carnefici sono finalmente ben definiti. Che i media hanno imparato a fare cultura e che la società civile ha capito come salvare le nostre vite. 

Ma non è così. Noi, agli animali che ci portiamo dentro, abbiamo continuato a dare da mangiare senza sosta e senza vergogna.

E questo infatti è ciò che metaforicamente facciamo ancora oggi: nutriamo la nostra bestia interiore. Tentiamo di mantenere in equilibrio la nostra morale, purgandoci solo il 25 novembre ma lasciando invariato il sistema di potere tutto il resto dell’anno, perché ci si possa ricordare che, a chi è in cima alla catena alimentare, certe cose non succedono. Che chi sta sulla cima è intoccabile. Che se sbagli una volta, donna, tu sei fuori dal gioco.

Lasciamo tutto invariato e difendiamo il nostro diritto a screditare i corpi delle donne e delle sopravvissute perché in fondo, a noi, la violenza sugli altri piace.

Piace da morire, anche se non siamo in grado di dirlo a voce alta, per paura che qualcuno giudichi la nostra, di morale.

Ci fa sentire al sicuro mantenere il potere. 

Ci fa tirare grandi sospiri di sollievo. Ci ricorda che se fai un passo falso o vuoi uscire dal seminato, se rinneghi la scuola cattolica che prega di mantenere per sempre il primato supremo del poter esprimere il giudizio definitivo, allora vieni cancellata.

La violenza dei commenti sui social (sui quali ci esponiamo perché riteniamo le piattaforme dei luoghi in cui noi non esistiamo realmente) del mettere in dubbio le parole di chi sopravvive, dello scrivere articoli di giornale che morbosamente raccontano la bellezza di due sex worker appena trucidate, i «cosa ne pensate della ragazza vittima di Genovese?» usciti dai nostri televisori per mesi, i «puttana, doveva ammazzarti» che leggo nei miei direct su Instagram sono tutti figli del nostro bisogno di potere. Sono tutti gli insegnamenti di quella scuola cattolica che tanto ci sta a cuore.

E questo potere di voler ammutolire le donne e chi ne prende le loro difese, quello che vedo quotidianamente, è lo stesso che ha mosso Izzo, Ghira e Guido.

È lo stesso identico desiderio di potere che avevano Genovese, Weinstein, coloro che commettono femminicidio.

L’animale che ci portiamo dentro e si nutre di controllo è uguale in tutti, perché il suo embrione è lo stesso: è la cultura in cui nasciamo, in cui veniamo formati, dalla quale veniamo bombardati ogni giorno da ogni media, audiovisivo, social, prodotto.

Siamo tutti colpevoli di non fermare la bestia che ci cresce da millenni. Tutti.

Certo, poi però fate un post per il 25 novembre, o un articolo di giornale strappalacrime o un servizio TV da magone in gola.

Ma qualcuno deve dirvelo: le vostre purghe di un giorno non servono a niente. Non servono a salvare vite, a ricordare quelle che non ci sono più o a prevenire violenze future.

Servono solo a voi, alla vostra morale, al vostro animale per sentirsi meno colpevole, meno sul banco degli imputati, meno Izzo, meno Ghira, meno Guido.

Eppure voi non siete Donatella Colasanti.
E io non sono qui per ripulirvi la coscienza.

Sono qui per ricordarvi che fare ciò che fate, ovvero stare fermi tranne un giorno su 365 di quelli che compongono un anno, è una scelta. 

Ma che quella scelta lì, quella che vota tacitamente per rivendicare il potere di decidere sui nostri corpi di donne, ci ammazza.

Non sono qui per rassicurarvi che a voi non succederà di diventare cattivi, perché voi lo siete già. Lo siamo stati tutti.

Ma qualcuno ha scelto di rimanerlo.

Non vi prometterò che voi non sarete i prossimi sul banco degli imputati. Non è il mio mestiere né il mio interesse liberarvi dal male.

Non sono qui per farvi sentire persone migliori una volta l’anno con la mia storia di sopravvivenza. Sono qui per farvi male, darvi fastidio e ricordavi i ruoli.

Sono qui per ricordarvi che se non fate niente, se rimanete in silenzio, se non fermate la catena, se continuate a scrivere articoli che ci dipingono come oggetti, se non vi lavate da soli le mani dalle parole d’odio che ci riversate addosso ogni giorno dell’anno tranne uno, allora siete proprio come Izzo, Ghira, Guido e tutti gli altri che ci hanno sempre volute zitte, colpevoli, troie, morte.

L’animale che ci portiamo dentro si nutre di una cosa sola: la connivenza che nasce dal silenzio.

E un quadrato arancione postato un solo giorno all’anno non ha mai salvato nessuna.

Non ha mai fatto chiudere la scuola cattolica in cui continuiamo a iscriverci anno dopo anno, nei secoli dei secoli.

Amen.

A Donatella Colasanti.
Ci stiamo ancora battendo per la verità.

ARTICOLO n. 93 / 2024