ARTICOLO n. 20 / 2024

CARCERE. IL SUONO DELLE ANIME

intervista di isabella de Silvestro

Franco Mussida è chitarrista, compositore e membro fondatore della Premiata Forneria Marconi, il gruppo musicale simbolo del rock progressive anni ’70. Nel corso della sua carriera ha collaborato con i più grandi nomi del cantautorato italiano, ha vinto premi, scalato le classifiche oltremanica e oltreoceano. Ma la sua carriera non è solo quella di un virtuoso della musica, è anche quella di un uomo che ne ha fatto una pratica di comunità, un mezzo per creare reti di sostegno e vie di conoscenza.

Mussida si impegna da decenni per l’applicazione della musica in ambito sociale, dalle carceri alle comunità di recupero per tossicodipendenti. Nel 2013 dà vita al progetto Co2, che ha visto la creazione di audioteche in undici carceri italiane con il fine di educare all’ascolto e dare sollievo. L’iniziativa più recente, unica in Europa, è la sonorizzazione di ampi spazi del carcere di San Vittore a Milano, con musica strumentale selezionata dai detenuti nella cornice del laboratorio “Ascolto emotivo consapevole”, condotto da Mussida stesso. Mi accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di Cpm-Music Institute, la scuola di alta formazione musicale che ha fondato e dirige dal 1984. Ha bianchi capelli lunghi e una rara serenità nei gesti e nel tono della voce. Nonostante la porta chiusa, gli esercizi di pianoforte di qualche alunno penetrano le pareti, facendo da sfondo al nostro incontro.

Isabella De Silvestro: Da dove viene il suo interesse per il carcere?

Franco Mussida: Non fu direttamente il carcere a interessarmi. Accadde che molti dei tecnici della Premiata Forneria Marconi iniziassero ad avere problemi di dipendenza dall’eroina. Li vedevo soffrire molto, così insieme a mia moglie decidemmo di provare a dare una mano accogliendoli in casa. È stato questo il primo approccio alla marginalità. Il carcere è arrivato dopo, nell’87, quando il professor Garavaglia, il responsabile del gruppo di psicoterapia del carcere di San Vittore, nel prendere atto che la sua équipe non funzionava più chiese alla Provincia di mandare delle attività artistiche. Il mio socio dell’epoca era in contatto con la Provincia e mi chiese se me la sentivo. Da lì è partita la mia ricerca, trentacinque anni di onorato servizio. Non mi sono mai fermato.

È stato l’interesse per la persona a portarmi fra quelle mura.

I.D.S. Il carcere è un luogo dove ancora si espia una pena corporale: la sensorialità è ridotta, gli stimoli sono scarsi e ripetitivi. Che significato assume, in un contesto del genere, l’introduzione della musica?

F.M. Dopo trentacinque anni di lavoro in carcere sono riuscito, in seguito a innumerevoli sforzi non solitari – queste cose sono sempre il frutto di relazioni – a fare in modo che i corridoi di San Vittore abbiano un impianto dedicato esclusivamente alla sonorizzazione: ho lavorato con i detenuti per creare playlist di sola musica strumentale che risuonano nei corridoi della galera.

È vero che sembrerebbe che la dimensione degli stimoli in carcere sia compressa, in realtà si tratta di una compressione da eccesso di stimoli. La compressione arriva dall’incapacità delle persone detenute di gestire il dolore pregresso, il dolore presente e l’immaginario nero del futuro che hanno davanti. Quindi il tema non è quello di arrivare a dare ulteriori stimoli, perché ne hanno già abbastanza, anche di fortemente negativi. Tutti, anche gli agenti di custodia. Il tema è piuttosto usare la musica come stabilizzatore dell’umore, agendo sulla nostra comune struttura emotiva.

I.D.S. Che cosa significa “agire sulla nostra comune struttura emotiva?”

F. M. Ci sono dei medicamenti naturali, e artificiali, che agiscono sul fisico e che hanno dei risultati anche sulla psiche. Dobbiamo immaginare la musica come una sostanza. Non parlo di musicoterapia perché già il tema mi fa rizzare i peli, dal momento che non c’è una fisiologia musicale conclamata, e non essendoci si fa fatica a immaginare di operare fisicamente con la musica. Io mi tiro indietro e osservo. Che cosa osservo? Che la nostalgia di un giapponese non è diversa da quella di un napoletano, di un milanese, di un cileno o di un nigeriano. È la stessa cosa. Tutto il mondo del sentire è un archetipo. Il mio lavoro sul codice musicale è duplice: da un lato studio gli elementi oggettivi, dall’altro studio come questi elementi oggettivi diventano soggettivi attraverso l’esperienza umana, che è unica e irripetibile ma che è osservabile proprio per il fatto che la nostra struttura emotiva è comune. Le emozioni possono cambiare di intensità, di spessore, di auto-percezione, di coscienza, ma la radice è la stessa. Vedi, è come per gli elementi fisici: io e te abbiamo gli occhi. Magari tu li hai azzurri e io verdi, ma entrambi abbiamo gli occhi. 

E la musica che cosa fa? Agisce attraverso elementi magici, spirituali, dell’anima, che poggiano la loro sostanza sul fatto che noi siamo esseri vibranti e che, in quanto esseri vibranti, se organizziamo le vibrazioni in un certo modo otteniamo dei risultati di natura anche emotiva. A me sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma sono 35 anni che ci lavoro, su come scaldare l’acqua.

I.D.S. Come si dialoga in maniera efficace con l’umanità variegata e marginale della galera, uomini che provengono da angoli anche remoti della Terra, della cui esperienza sappiamo pochissimo?

F.M. Ricordo che feci sentire il Tema di Deborah di Ennio Morricone a un centinaio di detenuti, di cui ottanta erano stranieri, al carcere di Venezia. Diedi a queste cento persone diverse faccine in grado di rappresentare diversi stati d’animo e poi chiesi loro di alzare questi fogli catalogando l’emozione che il brano musicale emanava. Tutti hanno scelto la nostalgia: i siciliani, gli albanesi, ma anche i nigeriani, che non l’avevano mai sentita. Le forme ti avvicinano a casa, alla storia, alla cultura. Ma il portato musicale va al di là della forma, della storia e della cultura. Certo, bisogna tenere conto delle forme: in carcere facciamo un lavoro sulla musica dei paesi di provenienza dei detenuti, sulla storia della musica classica, sentiamo il jazz, ascoltiamo Chet Baker, arriviamo al pop. Ci confrontiamo con tutto. Oggi la depressione imperversa. Schiere di uomini e di donne che elaborano un pensiero che ne pensa un altro che ne pensa un altro che ne pensa un altro e ti uccide. E questo accade quando si esce dallo spazio del sentire come strumento di conoscenza.

I.D.S. Il suo essere uomo e il suo essere musicista coincidono? 

F.M. L’abito fa il monaco, sì. Non è facile. Il mondo del sentire è come le nuvole, cambia di continuo, ma nello stesso tempo ci vuole un orientamento: la musica è il mio orientamento, mi indica la direzione. Può essere pesante a volte, vengo assalito da attacchi di solitudine. Ma sono malinconico: nella solitudine ci sto benissimo. 

I.D.S. Qual è l’ambiente sonoro del carcere? Che suoni si sentono?

F.M. Ci sono due tipi di suoni: quelli della gestione della giornata, i suoni della popolazione del carcere che arrivano dagli oggetti, dall’aprirsi e chiudersi dei portoni di ferro, dalle chiavi, dai chiavistelli. Sono i suoni dati dalla manifestazione degli esseri senzienti che lì vivono o lavorano e che manifestano la loro presenza. 

Poi c’è un altro tipo di suono che si fa più fatica a sentire, ed è quello delle anime che sono lì. Quel suono è così potente che anche un operatore di passaggio deve maneggiarlo con cura. Ci si abitua, il callo arriva abbastanza in fretta, però, una volta che lo hai sentito, non lo devi dimenticare. È una sensazione molto profonda, traumatica per certi versi. È per questo secondo suono che continuo a recarmi in carcere dopo trentacinque anni. 

I.D.S. Il carcere rieduca o punisce? È cambiato in questi trentacinque anni che ha avuto la possibilità di osservare?

F.M. L’unica grande differenza è il ruolo della società civile. Io sono arrivato proprio all’inizio di un cambiamento, dopo la legge Gozzini, che ha consentito alle associazioni di entrare in carcere e portare arte e cultura. Per il resto l’etica in carcere rimane una questione personale. Si possono trovare degli agenti di custodia pessimi, brutali, senza capacità di sentire l’altro, e trovare invece dei piccoli angeli come li ho incontrati io, soprattutto all’inizio del mio lavoro. Non posso dimenticare non solo Luigi Pagano [il direttore a cui si deve il modello a celle aperte della casa di reclusione di Bollate, ndr], l’allora direttore del carcere di San Vittore, ma anche Luigi Cadoni, un agente di custodia che andava nelle celle a tirar fuori questi ragazzi per portarli a fare musica. 

Si tratta purtroppo di visioni eccezionali, non della norma. Il peggio sono le carceri minorili perché sono abitate dai ragazzi ma vigono più o meno le stesse regole delle carceri per adulti, cosa tremenda. Va modificato il pensiero, la maniera di percepire l’uomo nella sua essenza. 

I.D.S. Le interessano di più i vizi o le virtù?

F.M. Che bella domanda… I vizi per promuovere le virtù. Quando entro in carcere non voglio mai sapere la storia delle persone. Per me sono persone pulite, tutte. Poi hanno una voglia tremenda di raccontare le loro storie. Però voglio immaginarli così. Perché il lavoro del musicista non è quello di stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Il suo ruolo è quello di portare elementi di luce, di coscienza, di equilibrio, a persone che ne hanno bisogno. Il lavoro in carcere è da un certo punto di vista un processo educativo anche per chi lo fa. Bisogna provare a stare con le persone immaginando di essere un prete laico. Non siamo operatori culturali, non è un lavoro di cultura, è un lavoro sulla profondità dell’essere. 

Dico prete laico in questo senso: l’arte è una via di conoscenza, quello di cui stiamo dimenticando il senso è l’arte come via di conoscenza, non di espressività. Ora è diventato tutto espressività, bravura, dimostrazione. Ma non dovrebbe essere quello il punto. Chi è un artista? E una persona intelligente? Una persona sensibile? Che connotati ha? Queste sono le domande che oggi il mercato di qualsiasi genere ha coperto. Si fatica ad arrivare sotto la domanda, perché sopra è coperto tutto dal mercato. La musica è una via di conoscenza e gli artisti dovrebbero percorrerla. 

ARTICOLO n. 93 / 2024