ARTICOLO n. 75 / 2021
Di Arvo Pärt
CAMBIARE IL MONDO COMINCIANDO DA SÉ STESSI
Conversazione con Enzo Restagno
Enzo Restagno. Nei primi anni sessanta lei ha lavorato per un certo tempo all’interno della radio estone. Immagino che il suo fosse un lavoro assolutamente normale di tecnico del suono che però le avrà dato la possibilità di ascoltare moltissima musica. Potrebbe raccontarci come ha vissuto quell’esperienza?
Arvo Pärt. Quel lavoro si svolse parallelamente ai miei studi in conservatorio. Nella mia condizione di tecnico del suono dovevo osservare un orario molto flessibile. Facevamo delle registrazioni – tre o quattro ore al giorno – oppure trasmettevamo dei concerti dal vivo. Era un lavoro interessante grazie al quale potevo avere a disposizione registrazioni di ogni genere di musica e soprattutto potevo vedere e ascoltare una quantità di partiture contemporanee. Alla radio estone i tecnici del suono erano quasi tutti dei compositori e nell’insieme formavamo una compagnia molto vivace e creativa. Uno degli aspetti più preziosi di questo nostro lavoro veniva dagli scambi musicali con altri paesi; non tanto con la Germania, la Francia o l’Italia, ma piuttosto con paesi come la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Polonia, dai quali ricevevamo musiche spesso molto interessanti. A volte qualcuno di quegli scambi non arrivava alle orecchie degli ascoltatori della radio estone, ma noi avevamo ugualmente la possibilità di accedere a quelle musiche proibite che poi restavano sigillate dentro gli archivi.
E.R. Può fare un esempio di quelle “musiche proibite”? Erano di autori del blocco orientale o anche di altri compositori?
A.P. No, anche di altri.
E.R. Quindi, per esempio, musiche di Boulez, Nono, Stockhausen, Berio…
A.P. Sì, tra le musiche “proibite” c’era anche qualche loro componimento, però la sorgente principale dalla quale ci arrivavano le testimonianze della nuova musica per noi era Mosca, con le opere di Schnittke e di Denisov. Entrambi avevano rapporti personali con molti compositori dell’Ovest, con Boulez per esempio, e allora succedeva che componimenti censurati a Mosca arrivassero a noi.
E.R. A dispetto delle direttive ufficiali c’era in quegli anni un fitto scambio di informazioni che affluivano dai canali più disparati; ricordo benissimo che Luigi Nono mi raccontava delle sue visite a Mosca in cui portava ai colleghi quantità di dischi e di partiture. C’era poi il festival dell’Autunno di Varsavia che funzionava un po’ come una zona franca dove i musicisti dell’Est potevano recarsi senza troppe difficoltà per ascoltare le voci dei loro colleghi dell’Occidente. Vorrei chiederle quali, fra le testimonianze che riuscivano a filtrare attraverso le maglie della censura, furono per lei particolarmente interessanti.
A.P. Direi che mi interessava tutto senza eccezioni, perché davanti a quei documenti provenienti da un mondo musicale diverso, noi non avevamo la volontà di scegliere e di giudicare. Per noi non c’era il buono e il cattivo; nel nostro ghetto sovietico accoglievamo ogni cosa che arrivava dall’esterno con gioia. Il tempo ha mostrato verso quali lidi ogni compositore si è diretto e Denisov, per esempio, ha scelto una strada molto diversa dalla mia, ma tutto questo si è chiarito solo con il tempo. Noi allora abbiamo accettato ogni cosa con grande rispetto, ma se proprio vuole sapere qualcosa sulle mie predilezioni, allora devo parlarle di Anton Webern. Alla nostra radio era arrivata anche la registrazione integrale delle opere di Webern che qualcuno era riuscito, non ricordo come, a procurarsi a Mosca. Le assicuro che mi fece una grande impressione. Ebbi la possibilità di ascoltare anche Boulez che però alle mie orecchie suonò allora piuttosto estraneo; Webern invece, probabilmente per la sua grande trasparenza, sentivo che scendeva nel profondo.
E.R. Mi chiedo se fra tutte quelle musiche clandestine ebbe la possibilità di ascoltare anche Messiaen?
A.P. No, non me ne ricordo. Salvo qualche rara eccezione, noi eravamo maggiormente attratti dalle opere dei musicisti della nostra generazione. Quello che vorrei farle presente, al di là delle singole scelte e delle predilezioni, è la sorpresa che quelle stesse scelte mi hanno procurato in seguito. Non appena cominciammo a scrivere una musica diversa, in qualche modo influenzata dai modelli occidentali, fummo bollati come nemici del partito e perseguitati. Quando arrivai in Occidente scoprii che quegli stessi musicisti che avevo preso a modello, attirando su di me l’accusa di amico del capitalismo, intendevano con i loro componimenti lottare contro il capitalismo. Mi misi a riflettere su questo fatto un po’ paradossale e mi resi conto che il mondo della nuova musica portava dentro di sé i germi di un conflitto. Vuole che le dica perché mi sono allontanato da questa musica? L’ho fatto perché per me quei conflitti non erano importanti, perché volevo lasciare dietro di me i conflitti con il mondo.
E.R. Le sue parole suonano alle mie orecchie un po’ come una parafrasi del più bello fra i Rückert-Lieder di Mahler: «Ich bin der Welt abhanden gekommen». In effetti questa sua idea della nuova musica come una realtà carica di conflitti latenti mi sembra molto interessante; le sarei grato se volesse illustrarmela meglio.
A.P. Si tratta di una questione assolutamente personale: sono arrivato alla conclusione che il mio compito non è quello di combattere con il mondo e neppure di giudicare questo o quello; prima di tutto devo cercare di giudicare me stesso perché ogni conflitto inizia dentro di noi. Questo non vuol dire che sono indifferente a quello che succede intorno a me, ma se qualcuno vuole cambiare o migliorare il mondo, allora deve cominciare da se stesso. Di questo sono assolutamente convinto. Se non cominciamo da noi stessi, il primo passo che compiamo in direzione del mondo contiene un grosso inganno e, insieme, anche una potenziale aggressione che tenderemo a diffondere intorno a noi. Come tutto questo si possa realizzare è un’altra faccenda, ma se si parte da questa idea, tutto assume una prospettiva nuova ed è proprio seguendo quest’ultima che io vado in cerca di altri suoni. In questo caso è la mia strada stessa che diventa sorgente di ispirazione: essa non procede verso l’esterno ma scende verso l’intimo, verso quel nucleo dal quale tutto nasce. Questo è il senso che l’operare ha per me: la costruzione e non la distruzione.
E.R. La domanda che vorrei farle ora riguarda la sua musica da film. Lei ha scritto un certo numero di colonne sonore e talvolta anche musiche di scena per il teatro di prosa; si tratta, a mio giudizio, di esperienze importanti per un compositore, perché gli permettono di acquistare una superiore capacità di connotare situazioni e atmosfere.
A.P. Nell’Unione Sovietica i più grandi compositori come Prokof’ev e Šostakovič hanno scritto musiche da film; da voi, in Occidente, è successo più di rado e questo dipendeva in gran parte dalla situazione politica. Nella musica era difficile esercitare la censura e, difatti, per le colonne sonore non esistevano controlli. Nei film parole e immagini venivano regolarmente tagliate dalla censura, ma lo sfondo musicale era come se non interessasse a nessuno. Molte musiche di Schnittke, vietate nelle sale da concerto, poterono tranquillamente essere utilizzate nei film. Anche da noi in Estonia le cose stavano così, anzi un po’ meglio che a Mosca perché, bene o male, quello che si scriveva si riusciva anche a farlo eseguire. Mi ricordo di una visita di Luigi Nono a Tallin: in quell’occasione lo portai in una sala cinematografica a vedere uno dei film per i quali avevo scritto le musiche. Avevo composto dei pezzi in una sorta di jazz dodecafonico con tanto di saxofono, vibrafono e tromba; se li avessi presentati in un concerto cameristico mi avrebbero sicuramente procurato un sacco di problemi, ma al cinema nessuno ci fece caso e Luigi Nono, ricordo, si divertì moltissimo.
Nora Pärt. Scrivere colonne sonore era anche un’occasione per esprimersi musicalmente in modo assolutamente spontaneo. Arvo ha scritto anche molta musica destinata al teatro per bambini.
A.P. È vero: in quelle occasioni mi era possibile un atteggiamento più liberamente creativo, talvolta quasi improvvisativo, che nella mia attività compositiva abituale, dove tutto era rigorosamente strutturato, faticavo a raggiungere. E non bisogna trascurare il fatto che per molti compositori, fra i quali includo anche Schnittke, Denisov e Sofija Gubajdulina, scrivere musiche da film era l’unica fonte di sostentamento. La cosiddetta musica pura – sinfonie, quartetti e altro – poteva recare qualche guadagno solo nel caso che fosse stata commissionata dallo stato.
E.R. Lo so: Schnittke e Gubajdulina mi hanno raccontato queste cose qualche anno fa, ma quello che trovo ancora più miserabile, in quel clima di oppressione, è il fatto che venissero compilate liste di proscrizione, e non solo da Tikhon Khrennikov. A esse collaborarono con grande zelo i compositori più mediocri e politicamente allineati, ben contenti di conservare i loro privilegi e di colpire i colleghi più talentosi. Nel mesto orizzonte delle “anime morte” della musica sovietica, vorrei ricordare quei compositori della vecchia guardia come Khačaturjan, Kabalevskij o Sviridov, ai quali andavano gli incarichi più prestigiosi e le commissioni meglio remunerate. Erano musicisti pluridecorati, talvolta anche forniti di talento, ma che in ogni caso si premuravano di non permettere agli altri compositori di avvicinarsi troppo al recinto dei loro privilegi. Il fatto è che il principio del divide et impera lo si applica perfino alla gestione di una bottega e sotto qualsiasi regime. Tornando ai suoi lavori degli anni sessanta, vorrei parlare di un breve e semplice componimento che ebbe un successo strepitoso; intendo quel Solfeggio che lei scrisse nel 1963.
A.P. In realtà non saprei cosa dire: si tratta solo di una scala (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si) che prende la forma di un cluster a quattro voci, perché ogni nota è accostata direttamente a un’altra. L’ho scritto seguendo le orme di Perpetuum mobile, utilizzando però solo sette suoni invece di dodici. Come vede, l’idea era molto semplice e non ero assolutamente sicuro che avrebbe funzionato fin quando non l’ho ascoltato.
E.R. Effettivamente funziona benissimo.
A.P. Sì, se viene eseguito nel modo giusto, ma, mi creda, non saprei cos’altro aggiungere.
E.R. Nel frattempo, mi riferisco sempre agli anni sessanta, lei aveva già scritto due sinfonie. Che cosa mi potrebbe raccontare di questi due componimenti?
A.P. Mi riesce sempre difficile dire qualcosa sui miei componimenti; a volte non riesco nemmeno a immaginare una buona ragione per fornire delle spiegazioni di questo genere, ma a ogni modo cercherò di farlo. La mia Prima Sinfonia era il lavoro che presentai per il mio diploma al conservatorio ed è una composizione dodecafonica senza pretese. La seconda è un po’ più complessa; in essa si verifica infatti un primo approccio verso la contrapposizione tra il bianco e il nero.
E.R. Significa forse che nella Seconda Sinfonia lei ha cercato di umanizzare la tecnica?
A.P. Non sarei così estremo; direi che quello che misi in pratica con quella sinfonia fu semplicemente creare un’occasione per cercare di capire dove mi sarei sentito a casa: ora sono più tollerante, anche nei confronti della scrittura dodecafonica. Non sono i dodici suoni a essere colpevoli: tutto dipende dal compositore e dal modo in cui li usa. Bisogna vedere se il compositore vuole produrre un nettare o distillare un veleno. Webern, per esempio, non produce mai veleni. Ci sono dei limiti ben precisi per l’utilizzo di quei materiali; bisogna capire innanzitutto in che modo quel sistema può produrre dei frutti concreti. Molte volte è il sistema stesso a indicarci il modo in cui dobbiamo avvicinarlo e come possiamo servircene, ma a quell’epoca io ero molto meno tollerante di adesso e vivevo l’esperienza della mia Seconda Sinfonia e del Credo con grande tensione; sentivo che non potevo permettermi neppure la più piccola negligenza.
E.R. L’inflessibilità che lei descrive è probabilmente il connotato più vistoso dei nostri anni di apprendistato; solo l’esperienza è in grado di insegnarci l’uso sapiente della regola e dell’eccezione; ma torniamo ora a quei suoi anni: c’è un lavoro molto significativo, scritto nel 1968, ed è il Credo per pianoforte, coro e orchestra. L’esecuzione avvenne a Tallin sotto la direzione di Neeme Järvi, insieme alla Sinfonia di Salmi di Stravinskij e mi risulta che si risolse in un successo non privo di scandalo. Com’è noto gli scandali giovano alla carriera, ma quello che io trovo più singolare in questa storia è il fatto che in quel caso fu scatenato dalla sezione centrale del componimento, quella in cui la tecnica dodecafonica, utilizzata con una procedura speciale, va a culminare in una violenta mimesi del caos. Mi piacerebbe però ascoltare il racconto delle intenzioni che racchiude questa partitura dalla voce del suo autore.
A.P. A quell’epoca, e forse anche un po’ prima, avevo la sensazione di avere scoperto quello che chiamerei un nuovo inizio. La cosa più importante nell’affrontare la nuova opera fu per me il testo che avevo deciso di musicare; si trattava di quel passo del Vangelo in cui risiede il cuore stesso dell’insegnamento del Cristo, ovvero la frase con la quale all’antico detto “Oculum pro oculo, dente pro dente” Gesù risponde: «Autem ego vobis dico: non esse resistendum injuriae, Credo». Ho letteralmente sciolto questa frase in note e numeri, e si può notare come ogni parola trovi corrispondenza nei mezzi orchestrali utilizzati. Ora però vorrei provare a rievocare le circostanze in cui l’opera nacque. Da noi, normalmente un compositore doveva presentare i nuovi lavori a un’apposita commissione, eseguendoli o mettendo a disposizione una registrazione. La commissione decideva quindi se fosse opportuno o no eseguire il pezzo in pubblico. Io non avevo nessuna registrazione del pezzo e così ho invitato alcuni membri della commissione alla prova generale. Si dava il caso che il membro più feroce, nonché zelante servitore del partito e mio acerrimo nemico, fosse ammalato. A quelli che ascoltarono il mio Credo spiegai che avevo utilizzato dei materiali estratti dal primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach. Loro ne ricavarono una buona impressione e pensarono che il testo fosse assolutamente inoffensivo, probabilmente perché era in latino. Sta di fatto che il pezzo fu approvato e ne fu autorizzata l’esecuzione. La sera del concerto il pubblico si mostrò così entusiasta che il direttore fu indotto a ripetere il pezzo per intero. L’accoglienza così calorosa del pubblico finì però con l’indisporre la commissione che cominciò a sospettare che vi fosse contenuto qualche principio sovversivo. Ricordo che pochi giorni dopo la prima del Credo andammo a Mosca per un congresso con una delegazione composta da una cinquantina di persone. C’era anche il presidente della commissione cultura e nessuno si degnò di rivolgermi la parola perché il ricordo dello scandalo era ancora ben vivo. A un tratto però il capo della delegazione, che aveva palesemente alzato un po’ il gomito, mi fermò nel corridoio del treno e, alludendo al testo latino del Credo, mi face capire che il KGB era già sulle mie tracce. Dopo quell’episodio fui interrogato più volte e gli inquirenti tornavano spesso sulla stessa domanda: «Quali fini persegue con questo lavoro?».
N.P. E aggiunsero: «Si ricordi che quest’opera non dovrà mai più essere eseguita». Seguirono intimidazioni e provocazioni, ma ripensandoci ho l’impressione che allora non ci rendessimo conto della nostra effettiva situazione. C’è poi un dettaglio importante che Arvo ha dimenticato di sottolineare: la parte dodecafonica è costruita su una successione di quinte.
A.P. Sì, è vero: ho strutturato l’impianto dodecafonico accostando intervalli di quinta uno dopo l’altro, fino ad arrivare al massimo sviluppo orchestrale possibile. Con questa giustapposizione delle quinte si arriva a una tessitura sempre più densa, a una vera e propria saturazione di note che funziona come mimesi del caos e della distruzione. Solo dopo vengono le parole del Cristo “Ma io vi dico…”, e quindi tutto, un po’ alla volta, va in pezzi. È come la rovina del regime sovietico; qualcuno avrebbe potuto interpretare quel passo in questo modo e così nacque un certo timore.
N.P. All’interno di quel caos – il blocco indistinto di suono viene rappresentato anche graficamente nella partitura con fasce nere – il coro gridava i peggiori improperi che però non potevano essere uditi in quanto tali. Alla fine dell’anno ci fu sulla stampa locale una specie di sondaggio in cui la gente doveva indicare qual era stato l’evento artistico più significativo a cui aveva partecipato. Il novanta per cento delle persone indicò il concerto in cui era stato eseguito il Credo.
E.R. Vi ringrazio di questa rievocazione così vivida del Credo e delle conseguenze che ha portato. Vorrei aggiungere che le cose da voi riferite sulla censura dimostrano una volta di più quanto essa sia stata abile nel fiutare il pericolo eversivo. Pensare che i censori siano ignoranti e grossolani e pertanto incapaci di comprendere le intenzioni più sottili che si celano dietro le opere d’arte, è, a mio parere, un’imperdonabile ingenuità.
© il Saggiatore S.r.l., Milano 2017.