ARTICOLO n. 71 / 2023
BOMBAY BEACH HA TROVATO ME
Intervista di Giancarlo Livano D’Arcangelo
Last Stop Before Chocolate Mountain di Susanna Della Sala ha vinto numerosi premi al Festival dei Popoli, ha sfiorato la finalissima ai David di Donatello per il miglior documentario ed è entrato in selezione al Festival di Locarno. Il film racconta la comunità che vive ancora a Bombay Beach, un tempo località balneare tra le più ambite in California, poi caduta in disgrazia a causa di un disastro ambientale. Dove un tempo vi era una ricca economia basata sul turismo di massa, oggi c’è l’ultimo rifugio per reietti e inclassificabili del nostro tempo: c’è chi ha perso un figlio, chi faceva parte di una grande famiglia decaduta, chi deve dimenticare un passato difficile, chi cercava Dio e non l’ha trovato. Cosa portano alla fine della strada donne e uomini in fuga da sé stessi e dal mondo? Con Susanna Della Sala, abbiamo parlato di cinema e realtà, di fughe e ritorni, di frontiere e di baricentri.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Susanna, in Last Stop Before Chocolate Mountain racconti una comunità di frontiera, in cui la frontiera è in tutta evidenza non solo un luogo fisico ma soprattutto una condizione dell’anima. È Bombay Beach la metafora perfetta di questa condizione umana di confinamento per i sognatori, per gli “sconfitti” e gli inclassificabili in questo tempo?
Susanna Della Sala: lo è per tutti, non solo gli sconfitti e gli outsider. Anzi, Last Stop non è una storia di sconfitti. La chiamano la cittadina fantasma, eppure questi “fantasmi” si sono rivelati di una vitalità mai incontrata prima, spinti dalla voglia di ricostruire, di creare, di collaborare, di comunicare. Bombay Beach per me non è un luogo fisico in un determinato contesto, rappresenta più un luogo metaforico che racchiude l’esigenza di tutti noi di sentirci parte di qualcosa, di sentirci accettati, di poter ricostruire partendo dalle rovine del nostro passato. È la frontiera della libertà.
G.L.D. Ecco, capisco ancora meglio come mai dal tuo racconto emerge in modo evidente il profondo legame emotivo che hai provato con la gente di Bombay Beach. In un documentario che punta a raccontare l’umanità, l’amore per il proprio oggetto di indagine mi sembra una componente decisiva. Lo hai portato con te dall’Italia o l’hai trovato lì?
S.D.S. Tutti i miei progetti partono sempre da un innamoramento, che sia per un personaggio, una storia, un luogo, un oggetto. Mi sono innamorata di queste persone che sono state per me come dei maestri di vita. Mi hanno insegnato che la vera meta è il modo di vedere le cose. Come si dice: “guardare è facile, vedere è un’arte”. Ecco, questa frase riassume forse il vero tentativo di questo film.
G.L.D. Qualcuno potrebbe dirti, o forse te l’hanno già detto: l’Italia è un paese denso di storie incredibili, una spirale in cui il ribaltamento del senso è una costante quotidiana. Perché scegliere una storia lontana migliaia di chilometri per esordire alla regia?
S.D.S. Quanto lontano siamo disposti ad andare per poter trovare un senso di appartenenza, relazioni umane autentiche e la libertà di essere noi stessi? Ai confini del mondo. Non importa il luogo fisico ma come dicevamo prima conta quella sensazione di innamoramento. Ho scoperto questo posto tramite un incontro casuale con uno degli abitanti, posso dire che sia stata fortuna. Anzi, penso che tra simili a un certo punto ci si incontri e Bombay Beach ha trovato me. Non ho scelto un luogo e una storia a tavolino, ma ho drizzato le antenne e quando mi si è palesata questa opportunità l’ho colta, senza dare spazio alla paura. Fare questo film è stata una necessità più che un obbiettivo lavorativo.
G.L.D. È molto stimolante se le due cose coincidono…
S.D.S. Sì, questo luogo si è rivelato “il luogo” per eccellenza che da sempre volevo raccontare, proprio perché è universale. Bombay Beach racchiude tutte le contraddizioni e gli errori dell’essere umano – nel disastro ambientale, nel progetto imprenditoriale fallimentare, in tutte quelle categorie di persone abbandonate a loro stesse – ma è anche un esempio della capacità trasformativa dell’uomo, grazie a un’innata linfa vitale e creativa. E così ci insegna che anche da un terreno arido può fiorire qualcosa e quel qualcosa è spesso indistruttibile. Bombay Beach è un luogo che costringe a fare i conti con noi stessi, ci riporta al nostro passato e ci mette davanti alle nostre responsabilità: non solo di abitanti della Terra (e in quanto tali responsabili del nostro pianeta), ma anche alle responsabilità che abbiamo come genitori, figli, donne e uomini, verso i nostri legami e il nostro futuro.
G.L.D. Come hai scelto i personaggi a cui dare voce? E come hai conquistato la loro fiducia?
S.D.S. Sono arrivata a Bombay Beach senza richieste e senza pretese, ho vissuto lì per nove mesi e ho finito per farmi un posto all’interno di questa comunità. Lentamente si è creato un rapporto di amicizia molto profondo e di rispetto reciproco. Ancora oggi ci sentiamo di più che con molti miei amici in Italia.
G.L.D. Immagino non sia stato semplice…
S.D.S. Certo è stato difficile, le persone erano inizialmente impaurite e distanti soprattutto a causa di alcuni film precedenti finiti sul web. “Non vogliamo il porno-povertà“, mi dicevano. Non sono stata io a scegliere i personaggi, ma sono stati loro a scegliere me. Io ero lì, con il mio terzo occhio, pronta ad ascoltare. Chi ha voluto mi ha cercato, spinto dall’esigenza di raccontare la propria storia, a volte per esorcizzare i propri traumi e a volte come modo per stare assieme e comunicare. In questo senso il film è nato in maniera spontanea e collettiva proprio come sono nate le innumerevoli opere d’arte di chi popola Bombay Beach.
G.L.D. Hai un metodo prestabilito per rappresentare ciò che accade sotto il tuo sguardo?
S.D.S. Il mio metodo di approccio a questo film è stato quello di lasciare libertà e quello di non imporre il mio sguardo, la macchina da ripresa o un linguaggio definito che secondo me alla lunga sarebbe stato limitante. Nel film vediamo i personaggi rivolgersi alla camera o in momenti di vita osservazionali o in interviste più classiche. Bombay Beach è un luogo libero e stravagante, non potevo incatenarlo in un linguaggio unico prestabilito e formale.
G.L.D. Cos’è per te il cinema, cos’è il documentario, cos’è la finzione cinematografica. A Bombay Beach i tuoi protagonisti sembrano cercare un nuovo film da vivere nella propria realtà.
S.D.S. Per me non c’è differenza tra il genere e il mezzo, che può essere quello filmico, fotografico, pittorico o performativo. Per me il mezzo artistico è una ricerca, una lente di ingrandimento sulla realtà, una riflessione collettiva.
G.L.D. Io credo che una delle funzioni del documentario, a prescindere naturalmente dagli obiettivi estetici, sia la conservazione della memoria. Noi siamo abituati a dare alla memoria un alto valore morale, se non addirittura proprietà taumaturgiche e pedagogiche, ma è sempre così? Nella comunità di Bombay Beach c’è qualcuno che ha mostrato invece una gran voglia di non guardarsi indietro e rimuovere il passato?
S.D.S. Nel film uno dei protagonisti, Tao Ruspoli, ci racconta di aver sognato di uccidere il proprio padre (il principe Italiano Dado Ruspoli). Nel raccontarglielo la mattina seguente il padre risponde: “Ma è fantastico! Tutti dovremmo uccidere i nostri padri! La razza umana è spinta dal progresso, dallo scandalo, dal superamento e da una crescita costante, e non da un rapporto bigotto con il passato”. Questo è un aspetto che ci differenzia profondamente dagli americani. In Italia c’è più resistenza alle innovazioni o a qualsiasi iniziativa che susciti un cambiamento. Siamo un popolo di conservatori con un istintivo rifiuto delle novità forse proprio perché subiamo molto il peso della storia e della tradizione. Anche se pensiamo di contemplarlo con ammirazione ne siamo forse in soggezione e rischiamo di chinare la testa. La storia può essere positiva a patto che sia al servizio della vita e non viceversa. L’eccesso di storia può indebolire la forza creatrice dell’essere umano ed è questo che mi hanno insegnato a Bombay Beach. Le rovine si possono ricostruire.
G.L.D. Mi ha colpito molto, il tuo film, e il merito è della tua regia che rende molto bene e poeticamente questa condizione, il ribaltamento tra giorno e notte che sembra regolare i ritmi di vita a Bombay Beach: il giorno è il momento dei ritmi lenti, della riflessione, della pausa. La notte è il momento della vita mondana, delle danze e della vitalità.
S.D.S. Si. La notte, oltre a essere il momento più vitale della vita a Bombay Beach, è anche simbolicamente un momento di trasformazione. Di notte ci si perde e rimangono le stelle, il fuoco, i suoni, il sonno e quindi il sogno. Ho cercato di sottolineare l’aspetto onirico che ci porta su altre frequenze emotive. Ci sono degli aspetti del reale che sono nascosti, legati alla sfera emotiva del luogo e delle persone ma che per me esistono, fanno parte della realtà anche se poco tangibili. È stato proprio questo che ho cercato di indagare. Quelle sensazioni, quella poesia, quella magia e quell’energia propria di quelle persone e del luogo.
G.L.D. La terra che hai raccontato vive nel declino economico dopo un momento di gloria. Un tema, quello del declino, che fa parte del mio bagaglio di scrittore. Quando ho scritto Invisibile è la tua vera patria ciò che mi interessava dei grandi poli industriali italiani dismessi era raccontare l’inesorabile indifferenza della storia, la cinica caducità della gloria, e la conseguente invisibilità repentina di ciò che un tempo era sotto il riflettore della ricchezza o della fama. Come hanno vissuto questo trapasso i superstiti della gloria che fu?
S.D.S. Alcuni abitanti sono rimasti ancorati al ricordo di una Bombay Beach gloriosa e questo li ha immobilizzati in uno stato di malinconia. Immobilizzandoli anche nel provare a migliorare il luogo stesso. Poi sono arrivati gli artisti che per natura provocano, mettono in discussione, distruggono per creare. Questo ha aiutato quelle persone a immaginarsi un futuro che non ricerca più l’imitazione ma che ricorre a nuove modalità per raggiungere una gloria alternativa.
G.L.D. Cos’è per te la montagna di Cioccolato?
S.D.S. La Chocolate Mountain è una meta da raggiungere, una sorta di visione paradisiaca che è un miraggio, ma che allo stesso tempo funziona da guida. Quindi – Last Stop – prima della montagna di cioccolato è l’ultima fermata in una terra di passaggio dove potersi mettere in discussione, dove sperimentare, redimere e redimersi prima della realizzazione finale.